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Post N° 457

Post n°457 pubblicato il 09 Ottobre 2008 da quotidiana_mente
 
Tag: Sfogo






Te l’ho già detto, papà, dovrà essere nero, musulmano e comunista!

Ero, ormai, grandicella, e mio padre pur sostenendo che io dovessi studiare, lavorare per essere sempre autonoma, mai dipendente da un uomo, ogni tanto sosteneva che era cosa buona e giusta che io pensassi ad un fidanzato il quale, in un futuro, poteva diventare mio marito.

Io pensavo a tutto, ma la prospettiva di un marito non mi entusiasmava per niente. Lui, pur vivendo in Francia da secoli, non riusciva a digerire la “convivenza” intesa come uomo e donna sotto lo stesso tetto, per lui ci voleva un altare prima.

Mio padre è sempre stato socialista e da bravo socialista ha sempre odiato i comunisti. Non è mai stato razzista, ma non riusciva ad immaginare la propria figlia al braccio di una persona di un colore diverso del suo. Sul fatto che il soggetto potesse essere musulmano non diceva niente, anche se l’altare andava a farsi benedire. Quello che veramente gli dava fastidio è che sapeva che, potenzialmente, ero capace di mettere in pratica quanto affermavo.

La mia amica d’infanzia si fidanzò con un marocchino, bianco che più bianco non si poteva e con un cognome tedesco. Mio padre tirò un sospiro di sollievo, pensando che il musulmano era toccato a lei e che forse io ero “fuori pericolo”.

Quando annunciai che stavo per cambiare paese per andare a vivere in Italia, lui iniziò a parlarmi dei pericoli della mafia e delle brigate rosse. Io alzavo le spalle, ascoltavo appena e non cambiavo idea nonostante, secondo lui, rischiassi di finire rapita o dai brigatisti o dai mafiosi, ma sempre rapimento doveva essere, il quale ovviamente finiva con il mio cadavere trovato o in un cofano o dopo secoli nelle fondamenta di un palazzo o nel pilone di un ponte.

I suoi erano i pregiudizi classici che c’erano, all’epoca, nei confronti degli italiani. Vivevamo in Francia e l’Italia veniva additata come il paese del sole, della mafia e dei rapimenti, tutto il resto veniva in seguito, molto in seguito.

Da portoghese in Francia, godevo di pregiudizi diversi, eravamo considerati stranieri tranquilli, affidabili (molte persone erano portieri di stabili nei quartieri altolocati), non creavamo problemi in quanto grandi lavoratori, mica come gli spagnoli! Loro sì che erano caciaroni e con poca voglia di lavorare, per non parlare poi degli inglesi, quelli erano odiati e basta, ma anche gli americani non godevano di fama migliore nonostante lo sbarco di Normandia; poi c’erano i belgi, stupidi per definizione, i tedeschi che proprio non si potevano frequentare, che da sempre si volevano fregare l’Alsazia e la Lorena, e che dire degli Jugoslavi, sì brava gente ma insomma... C’erano gli esiliati cileni, che sì poverini per quello che era successo, però che noia trovarli sempre lì a manifestare, a lamentarsi, anche gli argentini non erano da meno, sì simpatici, bravi ballerini, ma insomma. E così via. Poi arrivavano gli algerini, francesi ma di serie B, poi i marocchini e l’Africa del Nord e l’Africa tutta, per non parlare dei Creoli che erano sempre francesi seppure di colore diverso ma di un’altra serie. Sembrava un campionato di disprezzo. Tutto ovviamente molto celato perché non stava bene dirlo ad alta voce. La Francia ai francesi e gli altri ovunque purché fuori dall’esagono. Questi erano i pensieri più o meno celati, ma concretamente gli stranieri avevano esattamente gli stessi diritti (e doveri) dei francesi: alle famiglie venivano concessi aiuti di ogni genere (dall’abbonamento a prezzo ridotto sui mezzi pubblici, alla mensa scolastica, all’accesso alle abitazioni ad affitto controllato, e così via). Quando è nato “Il Piccolo”, lo stato francese regalò a mia madre tutto l’occorrente per i primi mesi più un deposito postale di una cifra modesta, ma pur sempre soldi, da prelevare alla sua maggiore età. Essendo “Il Piccolo” nato in Francia divenne il primo francese della famiglia, divenne anche portoghese perché così doveva essere, secondo i miei genitori.

A sedici anni, se avessi voluto dichiarare la mia intenzione di diventare francese, non avrei avuto nessun problema: studiavo lì dall’età di sette anni, eravamo una famiglia perfettamente “inserita” tranne, forse, nelle abitudini di mio padre a voler controllare la figlia ad ogni passo, ma questo è un altro discorso. Ho optato per il permesso di soggiorno, in seguito accompagnato dal permesso di lavoro: avrei potuto semplificarmi la vita con la cittadinanza ma non volevo essere una cittadina di serie B, avrei potuto “francesizzare” il mio cognome, ma sarei sempre stata una cittadina di seconda categoria.

La Francia era un paese di accoglienza: dalla prima elementare avevo in classe abbastanza compagni stranieri da imparare la geografia senza l’aiuto di planisfero, e questo mi piaceva.

Arrivarono anche i disordini nelle periferie ma anni dopo. Arrivò il periodo dei controlli di identità molto stretti: poliziotti ad ogni uscita della metropolitana oppure in giro di fronte ai luoghi più frequentati e via con la richiesta di documenti di identità. Fu un periodo molto frustrante per me: volevo essere controllata anch’io. Una sera, al rientro del lavoro, ho persino scavalcato il tornello della metropolitana sotto il naso di un poliziotto: niente; il suo sguardo andò oltre la mia spalla e fermò qualcuno altro. In quel periodo, ho capito che si poteva essere stranieri ma avere la pelle bianca  e ciò era un vantaggio non indifferente. Lo sapevo già, ovvio. Non riuscii mai a farmi fare il controllo d’identità. Era frustrante.

Cambiai paese. A Roma era tutto bello, mi piaceva tutto, mi piacevano gli odori, i colori e la luce di questa città ancora oggi mi emoziona.

In Italia essere portoghese non aveva nessuna connotazione, tutto al più mi prendevano per una sarda. Mi è capitato, qualche volta, di dover spiegare che il Portogallo non era una provincia della Spagna.

Anche in Italia ho dovuto fare il permesso di soggiorno e quello di lavoro e tutto era molto più complicato: la fila all’alba di fronte alla questura (all’epoca, unica), il dover affrontare certe norme risalenti ai Regi Decreti e altri ostacoli burocratici rendevano arduo o almeno faticoso l’iter. Ma non mollavo, mi piaceva questo paese.

Dopo qualche anno ho chiesto la cittadinanza perché mi sentivo a casa, non mi consideravo (e non venivo considerata) di serie B.

Sono arrivata a Roma quando gli stranieri si potevano contare sulle dita di una mano, abituata com’ero a Parigi: mi sembrava di stare al confine dell’Impero. Il clima era molto rilassato (se paragonato a Parigi in quel periodo), sì c’erano attentati (mio padre ogni volta mi telefonava per ricordarmi le sue parole prima della mia partenza), sì c’era la mafia (e sempre mio padre al telefono a dirmi che lui mi aveva detto), sì, c’erano anomalie e mi rendevo conto anno dopo anno che era sempre più difficile spiegare l’Italia all’estero, però a me piaceva lo stesso, mi sentivo a casa. Sì, mi arrabbiavo perché non riuscivo (e non riesco) a concepire il perché di tanto sangue versato, il perché della mancanza di volontà di sconfiggere, o almeno a provarci, certi sistemi, mi arrabbiavo (e mi arrabbio) perché c’era ( pare ci sia ancora) troppa evasione fiscale, perché un furbetto è sempre in agguato, ma altrove mi sarei arrabbiata per altri motivi.

Non riuscivo (e non riesco) a capire la discriminazione del nord verso il sud, dei settentrionali verso i cosiddetti terroni, e qualche volta sono stata tacciata di “romantica” perché ho, mi è stato detto, una visione romantica dell’Italia e non voglio capire le motivazioni di questa discriminazione. Sarà. Sarò una romantica e forse un’illusa, ma ancora non capisco. Ho litigato al nord con persone dai modi di pensare molti diversi dai miei, perché non posso (e non voglio) credere che tutti i problemi dell’Italia siano dovuti al sud, certamente ci sono delle colpe ma il meridione non è, di sicuro, la Spectre. Sicuramente anche mantenere un sud in quelle condizioni faceva comodo a qualcuno.

Quando si iniziò a parlare di impronte digitali, ero disposta ad andare in questura a depositare le mie, che sono abituata, perché quando rinnovo il passaporto portoghese le impronte le lascio lì e non ci vedo niente di male, perché è un fatto normale esteso a tutti i cittadini portoghesi. Ora si parla di permesso di soggiorno a punti. Le mie meningi (scarse) da ieri lavorano per capire come potrebbe funzionare, ma soprattutto chi verrebbe preso in considerazione. L’ultima volta che ho fatto la fila in questura, ho notato quanto il colore pallido sia un vantaggio, ma mi chiedo come si fa a valutare se una persona è integrata o meno? Solo perché paga le tasse? Perché lavora? E se perde il lavoro per cause non proprie, cosa succede, lo si rimanda a casa con tanto di ringraziamenti?

Ieri ho chiamato mio padre. “Papà lo sai che l’Italia sta diventando un paese tutto per te?”. Lui si è subito arrabbiato perché non si riconosce in certe scelte di questo paese, perché anche se lui è distante, s’informa. Si è indignato, dicendo che trova ridicolo il voler scoraggiare i matrimoni misti. Gli ho ricordato le sue parole di tanti, tanti, tanti anni fa. Mi ha risposto che scherzava, che i tempi erano diversi, che comunque avrei fatto di testa mia e che dunque non valeva.

E’ da qualche giorno che ci penso. Quasi quasi mi sposo purché sia musulmano e nero. Aggiungere comunista sarebbe solo complicarmi la vita, in quanto sono diventati rari.



 
 
 
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