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Vita di ufficio... ma quella è un'altra storia...

 

 

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Post N° 469

Post n°469 pubblicato il 10 Dicembre 2008 da quotidiana_mente
 



Avevamo giocato assieme per tutta la durata della ricreazione. Avevamo lo stesso cappotto, solo il colore era diverso: blu il suo, rosso il mio e avevamo deciso di scambiarcelo per la durata di quella ricreazione. Eravamo rientrate in aula dispiaciute di non essere allo stesso banco. Non ricordo se era il primo giorno della terza elementare o un giorno qualsiasi, ricordo di non averla notata prima di quella ricreazione. Quando la campanella suonò, presi il mio cappotto e mi avviai verso l’uscita in fondo al corridoio, lei si avvicinò a me e disse, a brutto muso, che non potevo essere la sua amica, perché lei aveva riservato al mio cappotto tanta cura, invece io avevo lasciato il suo dove era capitato. Non ricordo cosa ho risposto, ma credo di averle detto che non mi interessavano né lei né il suo cappotto. O forse ho risposto altro. Non abbiamo più scambiato una parola per intere giornate.

La maestra decise, ad un certo punto, che avevo una pessima calligrafia e che doveva porre rimedio a tale scempio. Mi obbligò a passare ogni ricreazione (mattutina e pomeridiana), per un intero trimestre, a ricopiare intere pagine sulla vita di Charles de Gaulle. Io e le pagine da ricopiare in un’aula deserta per tre lunghi mesi. Non so se la mia calligrafia migliorò, ma so che da quell’anno ho sempre provato fastidio solo nel sentire pronunciare il nome di de Gaulle.

Ero, praticamente, in castigo per via della mia calligrafia.

Lei, dopo una ricreazione passata a giocare mentre io ero in castigo, si avvicinò e disse che riteneva quella punizione incomprensibile visto che ero brava a scuola e che se volevo potevamo tornare amiche. L’insegnante non acconsentì mai al suo trasferimento al mio banco e nemmeno ad un mio spostamento al suo. Ma ormai eravamo amiche. Andavamo a scuola assieme, uscivamo da scuola assieme, passavamo tutte le nostre ore libere assieme. Mia madre continuava a chiedere cosa avevamo ancora da dirci.

Abbiamo fatto le stesse pedalate e quasi sempre su un’unica bici, perché la mia veniva presa in “affitto” da qualche fratello o la sua da sua sorella minore. Abbiamo, assieme, comprato baguette che venivano mangiate prima di arrivare alla cassa. Ma avevamo imparato il trucco: bastava prenderne una in più da portare alle nostre madri. Se non ero in casa, ero a casa sua, se lei non a casa, era a casa mia.

Ricordo ancora una pedalata fatta sotto un diluvio improvviso, lei seduta dietro ed io che cercavo di fare avanzare la bici, i nostri jeans (all’epoca molto attillati) zuppi impedivano movimenti fluidi. Arrivate a casa mia, abbiamo pensato di farci una maschera. Chiuse in bagno, abbiamo usato, per la prima volta (e anche l’ultima, per quanto mi riguarda), l’argilla. Ricordo ancora la faccia di mia madre quando ci sorprese all’uscita del bagno. Vestiti bagnati e facce verdi. Leggermente imbarazzate ci siamo chiuse nella mia stanza, sentendo benissimo il racconto che faceva mia madre a mio padre, e le risate poco velate da parte di S., mio fratello, il quale ci prese in giro per mesi.

Eravamo inseparabili anche durante l’adolescenza. Lei aveva tante sorelle e anche per questo motivo godeva della mia stima, perché lei sapeva tutto sui rossetti, sui rimmel e tante altre cose. Io in mezzo a cinque fratelli e ad una madre poco incline alla vanità, ero ignara di tutte queste meraviglie. Uscivamo assieme, anche per fare le commissioni richieste dalle nostre rispettive madri. Bastava mettersi d’accordo. Il telefono, a casa sua, era quasi sempre occupato, per via delle sorelle e dei loro tanti pretendenti. Erano tutte più adulte di noi, e ovviamente nessuna di noi aveva voce in capitolo. A casa mia, il telefono era rigorosamente sotto controllo, era impossibile parlare senza farsi sentire da qualcuno e questo qualcuno doveva sempre e per forza commentare. Ah i fratelli maschi, una piaga dell’umanità quasi quanto le cavallette! Avevamo, però, escogitato un sistema di comunicazione tutto nostro. Dal nostro palazzo, vedevo il suo, dalla finestra della mia stanza vedevo sia la sua cucina che la sua sala da pranzo, bastava mettere a punto un codice da usare. Avevo un cuscino rosso e uno bianco, lei uno blu e uno bianco. Il mio cuscino rosso alla finestra significava: niente da fare, non posso uscire, non vale nemmeno la pena di provare a telefonare. Cuscino bianco era: scendo, incontriamoci al solito posto. Il solito posto, era esattamente a metà strada tra il suo e il mio palazzo: pochi metri.

Il suo cuscino blu aveva il significato del mio rosso e il bianco era sempre “via libera”. Questo sistema era, secondo noi, perfetto. L’unico problema era di ricordarsi di controllare, ogni tanto, le finestre e questo non sempre avveniva. E’ capitato che una sia scesa e abbia aspettato per poi andare a citofonare all’altra.

Passarono gli anni.

Sua madre ogni tanto la rimproverava di non sapere cucinare, lei rispondeva, senza minimamente scomporsi, che avrebbe sposato un cuoco, e che dunque era inutile imparare a fare quello che lui avrebbe fatto meglio di lei.

Quando mi confidò che aveva conosciuto un ragazzo che le piaceva molto, e mi disse che lui era cuoco, non mi stupii. L’aveva sempre detto, era del tutto normale. Non riuscivo però a capacitarmi dove l’avesse conosciuto considerato che eravamo sempre assieme, tranne che durante le ore scolastiche perché ognuna aveva preso un orientamento diverso.

L’aveva conosciuto durante uno sciopero dei treni, quel giorno aveva fatto autostop e aveva accettato il passaggio di questo sconosciuto che l’accompagnò fino al liceo e al pomeriggio stava lì ad aspettarla per accompagnarla a casa. Non ci potevo credere! Anch’io avevo fatto autostop quel giorno, e un signore piuttosto avanti con gli anni, mi aveva lasciata nei pressi del liceo che frequentavo. Niente di più.

Si allenteranno le nostre uscite, lei sempre più presa dal “suo” cuoco ed io, ovviamente, ero di troppo.

Un giorno mi confidò che stavano pensando al matrimonio. Ovviamente i suoi genitori non erano al corrente di niente. Loro erano convinti che lei continuasse a passare i suoi pomeriggi liberi assieme a me. Non osavo immaginare la reazione dei suoi genitori: lui era (è) marocchino e musulmano.

Passato il momento di stupore, i suoi genitori acconsentiranno al matrimonio purché lei non cambiasse religione. Lei non ci pensava proprio, e lui non ci teneva.

Si sono sposati quando ero già in Italia.

Hanno due bellissimi figli, quelle bellezze che riescono soprattutto ai matrimoni misti.

L’ho rivista, l’ultima volta, due anni fa. Non l’ho riconosciuta e lei è rimasta male. La guardavo ma non riuscivo a fare collimare il suo viso con i miei ricordi. Come se fosse passato troppo tempo dall’ultimo incontro ed invece non era così. Ci eravamo incontrate solo qualche mese prima. Per giustificarmi, dissi che era diventata bionda e quel colore cambiava tutto. Lei mi aggiornò sulla sua famiglia, mi raccontò di lei, io non avevo molto da raccontare. Ero perfettamente cosciente che qualcosa, anni prima, si era rotto. Era successo quando lei mi confidò che aveva iniziato a votare per Le Pen ed io non riuscivo a capire. Non potevo capire come una figlia di emigranti portoghesi, sposata con un marocchino potesse volere la “Francia ai francesi”. Era un ragionamento che andava oltre le mie capacità. Riuscivo a capire che lei volesse difendere i suoi privilegi, ma non potevo accettare il non voler condividere il suo benessere con gli altri. La sua unica risposta fu: tu sei sempre stata diversa.

Già, mi diceva sempre così. Diversa perché, secondo lei, avevo la classica faccia da brava ragazza e solo per questo godevo di una fama diversa dalla sua anche se mi vestivo esattamente come lei. Diversa perché gli insegnanti provavano simpatia per me anche se ero una chiacchierona, ma intanto era sempre lei che veniva messa a tacere. E non bastava ricordarle l’episodio legato alla mia calligrafia per farle cambiare idea e tanti altri particolari. Diversa perché quando avevo cercato lavoro, per la prima volta, l’avevo trovato in grande ufficio a Parigi e lei invece in sperduto ufficio in un villaggio perso da qualche parte nei dintorni di Parigi. Diversa perché ero andata a vivere a Roma e avevo imparato l’italiano. Diversa anche perché non dovevo tingermi i capelli di biondo per nascondere quelli bianchi. Diversa e basta. Quel giorno non riuscii a farle cambiare idea e lei non riuscì a farmi accettare le sue motivazioni. Sì, le volevo ancora molto bene, sentivo ancora il suo affetto per me, ma qualcosa si era rotto o quanto meno fessurato.

Eppure.

Nonostante il suo orientamento politico, nonostante gli anni di allontanamento, continuo a pensare a lei come alla mia migliore amica. Non potrò mai dimenticare i nostri pomeriggi a scattare delle foto improbabili con teste mozzate per la nostra incapacità ad inquadrare i soggetti. Non la posso dimenticare, sarebbe come rinnegare una parte integrante di me. Continuo a mandarle gli auguri di Natale e quelli per il suo compleanno e so che quando tornerò in Francia la chiamerò. Perché la fessura c’è, ma il passato spesso vale di più di una fessura, oppure i ricordi condivisi rendono più sopportabile anche un presente “diverso”. Anche se…

So che tornerò a scrivere di lei.


Dedicato a Carpediem, così non dovrà usare anche le dita dei piedi a mo’ di pallottoliere. Le chiedo scusa per essere andata fuori tema. Mi dovevo limitare ad un cuscino rosso e ad uno bianco ed all’uso del telefono.


(In fotografia: Fanny in uno dei miei migliori scatti)




 
 
 
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