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« Mescia ’Nzina, Mescia Te...La fèra te la stiddhra »

La rattata te jacciu

Post n°12 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

Quando imperversa la calùra estiva, uno dei rituali più diffusi si consuma nell’assoluta naturalezza, quasi come fosse un gesto automatico, istintivo (grattarsi il mento, stropicciare gli occhi appena svegli).
Compiamo tutti un gesto a cui non attribuiamo alcuna importanza, come se fosse qualcosa di dovuto: apriamo il frigorifero.
Qualcuno di voi avrà già detto “Meh!? E cce b’ole quistu!” domanda legittima, soprattutto per i più giovani, ai quali appare del tutto scontato aprire il frigo e tracannare qualsiasi cosa di fresco che oggi possiamo trovare in questo comunissimo elettrodomestico, per attenuare l’arsura. Ma chi, come me, ha qualche anno in più, ha già sicuramente cominciato a ricordare il tempo in cui i frigoriferi non esistevano oppure erano rari, e la quasi totalità delle famiglie non ne possedeva. I più fortunati disponevano della famosa ghiacciaia una sorta di mobiletto con cerniere e maniglie pesanti, con chiusura a guarnizioni ermetiche, con tanto di scomparto per il “vano ghiaccio”.
Erano rivestite internamente di lamiera zincata, con saldature a stagno. Vi si poneva mezzo blocco di ghiaccio o uno intero tagliato a metà nelle più grandi, e vi si tenevano gli alimenti e soprattutto le bevande a ‘nfriscu addirittura per alcuni giorni, fino allo scioglimento completo del ghiaccio, che veniva rimpiazzato con blocchi nuovi.
L’acqua veniva raccolta in apposita vaschetta estraibile e veniva periodicamente vuotata, in genere per ‘ndacquare le raste.
I blocchi venivano acquistati nelle frabbeche te lu jacciu. Una di queste, a S. Cesario, si trovava in Via Mazzini, tra la chiesta dei Sacri Cuori e le attuali Sale Parrocchiali. Da bambino mi recavo spesso ad acquistare ’nu quartu te bloccu poiché la nostra ghiacciaia era piccolina, ed il vano-ghiaccio non poteva contenerne di più. Ricordo un frastuono infernale, delle grandi vasche con contenitori metallici e bracci meccanici, tubi in gomma e questi enormi blocchi che venivano scaricati su dei nastri con tubi cilindrici per far scorrere i blocchi e riporli in una specie di cella frigorifera.
L’uomo spezzava sapientemente la misura richiesta, riscuoteva le 20 o 50 lire ed io avvolgevo il mio ghiaccio in un sacco di juta, lo legavo dietro la mia “Graziella” (la bicicletta nuova) e pedalavo di gran lena, per non far sciogliere il ghiaccio sotto il sole, lasciandomi dietro una scia d’acqua che disegnava sull’asfalto l’andatura incerta e scanzonata della pedalata.
A casa, il premio era la rattata te jacciu eseguita con una specie di “pialla” d’alluminio, con un dente in ferro, con la quale mia madre riempiva dei grossi bicchieri, colorandola poi con essenza di menta, amarena oppure orzata. Lei, talvolta, vi versava un poco di caffè rimasto nella giocculatèra, ma non prima di aver riposto il “blocco” nella ghiacciaia e aver messo lu sargeniscu a ‘nfriscu.
Oggi, nelle sagre o feste paesane, rispunta qualche ambulante che offre la famosa rattata te jacciu ma non è nulla di più che una malinconica rievocazione, poiché quelle atmosfere non le potrà più ricreare nessuno.
Allora trovo molto più dolce un bel ricordo di una rattata all’amarena riciclata!

 
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