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« La fèra te la stiddhraMessaggio #15 »

Li scrufulaturi

Post n°14 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

Mi capita di uscire per le vie di San Cesario a piedi e, confesso, lo faccio di rado… preso nella morsa dell’inspiegabile stupida fretta che ci costringe a girare sempre in macchina e che non ci consente di godere della semplice visione di questo o quell’angolo di strada o portone, o corte, rimasta immutata fin da quando eravamo ragazzini, quando giocavamo a bilie (a palline) o a scoppula contendendoci Mazzola, Rivera, Gigi Riva… (le figurine, si intende!).
Non c’è più quel tabacchino dove si potevano acquistare le nazionali senza filtro sfuse, confezionate in una minuscola bustina di carta velina, fumate seduti sui sassi di pietra viva o conci di tufo, nelle stanze di case in costruzione, che ci facevano sentire “grandi”, forse, di sicuro ci causavano colpi di tosse fino a farci uscire gli occhi dalle orbite.
Non c’è più la Putea te la Nina dove acquistare, con le ultime dieci lire rimaste, le cingomme alla fragola, estremo tentativo di coprire l’odore del fumo da un alito che puntualmente ci tradiva, a casa, facendoci dire la solita, penosa bugia “li amici mei fumanu”, estremo tentativo di sottrarci all’immancabile bbinchiata te mazzate con predicozzo finale te fasce male, magari fatto mentre papà fumava la sua esportazione con filtro, raro trofeo di quando dimenticava il pacchetto sul buffet della cucina, ma solo quando era pieno, “senò se n’accorge”. Eh sì!... ci si divertiva con poco, ma ci si divertiva tanto e davvero!
Uno dei nostri passatempi preferiti erano poi gli scrufulaturi su cui consumavamo non solo i pantaloni ma talvolta anche le natiche, a furia di scivolare su quelle improvvisate giostre che altro non erano che le alette in cemento ai lati della scaletta d’ingresso della Scuola Elementare “Damiano Chiesa” su Via A. Russo, all’ombra dei pini che ancora oggi avvolgono le auto in sosta, su quello che era un grande marciapiede che ci accoglieva pomeriggi interi.
Ginocchia sbucciate, tasche sfondate da mazzi di giocatori tenuti insieme da elastici ricavati da una vecchia camera d’aria, divoravamo ore e ore di giochi semplici e spensierati, scrufulando su quegli scivoli levigati da noi stessi, dalle nostre chiappe passate e ripassate su quel metro di lastra di cemento “in discesa”.
All’imbrunire, quasi buio, comparivano all’angolo, stagliate dai lampioni, le figure di questa o quella mamma, mani ai fianchi minacciose, che si limitavano a urlare “Ha rriatu sirda!” e all’improvviso un brulicare di ragazzini che si affrettavano a rientrare.
Mi ritrovavo solo, a trascinare le scarpe consumate sulle punte, a pensare se dire, una volta a casa, “Allu catechisimu, su’ statu!” oppure “M’aggiu fatti li compiti a casa a n’amicu!”.

 
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