Creato da dueali2 il 23/02/2008
Una piccola comunità ha l'opportunità di raccontarsi

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

Ultime visite al Blog

giovannix58rodolfobrunettiraf039nciuriaantonio.bruno2010dott.giorgio.brafflive2perroneioenvolpenenadiaSheltormaristellamargiottalella87carlorescigno
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

Natale e... Natali

Post n°10 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

Anche se l’effetto serra ci “costringe” a tenere ancora chiusi nell’armadio i cappotti e le sciarpe, è arrivato anche quest’anno il Natale.
Poco meno di un mese e saranno già state archiviate le “festività per eccellenza” ma, chiamatemi un incorreggibile nostalgico, non riesco più a sentire l’odore, il sapore magico dell’aria delle feste di una volta, quando ragazzino cominciavo a gustare questo avvenimento atteso per un anno intero, già dalla vigilia dell’Immacolata.
Fin da bambini, in casa, era consuetudine osservare un rigoroso “desciùnu” che, iniziato all’alba, senza “’ncammeràre” (non assumere alcuna forma di cibo), terminava all’ora di pranzo con un assalto alla puccia (rigorosamente “fatta a casa, allu furnu te petra” ) condita con tonno e “chiappari” .
E poiché i piaceri del palato erano merce pressocché rara, la puccia ne era una degna rappresentante! A fare da corollario seguivano “pittule e spica-narda cu lu baccalà” .
Il Natale si percepiva dappertutto, nonostante l’assenza di stelle, nastri dorati e luci intermittenti multicolori di cui la Cina oggi ci ha invaso. Si percepiva nei comportamenti della gente, disposta a levatacce, la mattina, per seguire in chiesa la “novena” prima di affrontare una giornata di lavoro. Si percepiva negli odori di olio fritto, cannella e miele, presente in tutte le case, nella preparazione dei “purceddhruzzi” che poi venivano scambiati: “Ssaggia li mei, iti comu m’anu enuti!”
“St’annu l’aggiu bbampàti! L’olliu era troppu autu!... ca se aggiu tenute visite!” ... si percepiva nel via vai di donne con le sporte, nel rituale scambio di doni semplici, ma in sincerità (olliu, mièru, portacalli).
Noi bambini attendevamo con trepidazione “Cu ‘ccunzàmu lu presepiu” che nulla aveva a che fare con alberi sintetici, moderne grotte di sughero, palline multicolori e statuette di plastica: trionfava “’na stanga te pignu” alla quale si appendevano portacalli, marange, ficalindie cu la pala e una sorta di pupazzetti di surrogato di cioccolato rivestiti di carta stagnola stampata, che si potevano acquistare alla putèa, insieme a delle piccole bottigliette piene te candellini.
Il resto era un trionfo te ceppuni, carta te giurnale, tinta, e farina. I pupi erano poi rigorosamente te crita, mai tutti della stessa dimensione, e allora ci si ritrovava con enormi pecore che sembrava divorassero i poveri bue e asinello, in scala ridotta, per non parlare dei poveri pastori, che sembravano immortalati nel gesto di tirarsi i capelli per il terrore di quelle bestie enormi.
Ora è un po’ diverso, abbiamo molte comodità in più, ma qualche emozione in meno. Sono comunque autentici gli auguri che faccio a tutti i miei concittadini: buone feste a tutti!

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

San Cisariu te le tridici fòcare

Post n°9 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

San Cisariu nesciu (inteso come paese) tra le tante sue caratteristiche peculiari, alcune invidiabili altre meno, ne possiede una curiosa: festeggia il suo Santo Patrono, San Cisariu (inteso stavolta come Santo) più di una volta nell’arco dell’anno.
La ricorrenza più nota è quella della IV Domenica di luglio, giorno in cui tra riti religiosi e civili, prucissione e parazione (a ci cchiù ranne fasce lu frontone) bancarelle, nusceddhre, torrone e cupèta si rievoca l’arrivo della reliquia del Santo nel nostro paese, avvenuto nel 1724.
La seconda ricorrenza è quella del 7 novembre, nota come San Cisariu te lu sìnnecu oppure San Cisariu te lu fiuru, dalla tradizione di posare un fiore sulla statua di San Cesario che adorna la facciata te la Chiesa Matre.
Da alcuni anni, per ovvi motivi di sicurezza, questa operazione viene svolta dai Vigili del Fuoco, con le loro scale telescopiche, in tutta tranquillità.
Fino a non molto tempo fa, però, il fiore a S.Cesario veniva posto ad opera di alcuni devoti temerari che, legati con una semplice corda, si sporgevano da un piccolo passaggio, per poi avanzare sul cornicione e raggiungere la statua, il tutto ad una altezza veramente ragguardevole, alla faccia delle vertigini!
La ricorrenza meno nota, che peraltro è stata soppressa, è quella che un tempo si celebrava il 20 febbraio di ogni anno.
Questa data rievocava lo scampato pericolo, nella tradizione popolare per intercessione del Santo Patrono, dopo un terribile terremoto che risparmiò dalla catastrofe il nostro paese.
La festa era detta San Cisariu te le tridici fòcare dal numero dei tredici falò che si accendevano lungo il percorso della processione in onore del Santo. Ogni fòcara rappresentava simbolicamente uno dei tredici mesi in cui San Cesario era stato imprigionato, prima di subire il martirio.
La popolazione portava in processione una statua del Santo a tutto busto (statua che ancora oggi esisterebbe, riposta in qualche angolo della soffitta della chiesa) lungo le vie del paese e, al passaggio, veniva accesa ciascuna delle fòcare: allu largu te lu palazzu… a nanti all’Immacolata… arretu alla Chiesa Matre… annanti alla monache… annanti allu Spiretu Santu…
La processione essìa ‘mprima, all’imbrunire, poiché era il periodo di carnevale, e dopo il rito tutti se estìanu te màsciu… ma questa è un’altra storia!

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La Televisione

Post n°8 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

Di Luigi Pascali

Mi capita molto spesso di girovagare nei reparti hi-fi dei grandi magazzini. Pur non essendo un esperto, sono affascinato dalle grandi potenzialità della moderna tecnologia, tanto da guadagnarmi l’appellativo (sfottò), dagli amici, di “tecnologic-man”.
Spesso mi incanto davanti ad enormi schermi televisivi da 37 o 42 pollici, a cristalli liquidi o al plasma, che hanno la capacità di rapirti e immergerti quasi fisicamente nelle immagini trasmesse, non solo per l’alta qualità delle immagini, ma anche per l’audio avvolgente.
E allora “tac…” scatta la canneddhra della memoria, e torno indietro di quarant’anni, quando la televisione era simbolo di benessere, posseduto inizialmente da famiglie benestanti, per poi divenire, complice il boom economico vissuto dal nostro Paese, una sorta di status-simbol, insieme alle Fiat 500 e 600.
I primi televisori a San Cesario apparvero nelle vetrine del negozio del Cav. Marzo, all’angolo che si affaccia in piazza XX Settembre, di fronte allu tabacchinu te lu Tumènicu te lu sale. C’era quasi sempre un piccolo stuolo di persone che ammiravano incuriosite le immagini in bianco e nero di quella scatola magica, che trionfava accanto a radioline a transistor e ferri da stiro.
Poi, man mano, furono presenti in quasi tutti i bar, posti bene in alto, così che tutti potessero seguire, tra un caffè e ’na sambuca cu’ la mosca, i risultati del campionato di calcio o una partita commentata da Nicolò Carosio.
Ricordo la televisione della Società Operaia, posta su un altissimo carrello, e noi ragazzini intrufolati nel buio fumoso della sala, in religioso silenzio, nella remota speranza di vedere qualche pezzettino di telefilm: “Rintintin” o “Lassie”, sorbirci i “comunicati” finché non venivamo cacciati in malo modo da qualche nunnu legittimamente infastidito dal nostro inevitabile chiacchiericcio.
Noi “la televisione” in casa l’abbiamo avuta tardi, quando oramai ce l’avevano proprio tutti, poiché altre fondamentali priorità l’avevano condannata ad essere considerata superflua. Per fortuna erano tempi in cui i rapporti umani contavano ancora, allora accadeva che i nostri vicini (già possessori della scatola magica) ci invitassero quasi tutte le sere, nelle loro case, a vedere le puntate de “La freccia Nera” o lu Quizzi te lu Maic Bongiornu. Perciò spesso eravamo loro ospiti, mia madre ed io (ero piccolo, perciò la sera non uscivo).
Mia madre si portava da casa, trascinandola avanti e indietro, una sedia bassa, più comoda, “la seggiteddhra” e l’inverno già nel primo pomeriggio si metteva d’accordo, con i vicini, su chi preparava “la brascèla” per l’avvenimento serale, pronti a commenti di ogni tipo, come se tutti facessimo parte del cast, sulla piccola scena in bianco e nero.
Talvolta, finiti i compiti, anche di pomeriggio riuscivo a vedere “La TV dei Ragazzi” oppure “Settevoci” con i miei vicini coetanei: l’Ugu Funtana o lu Toniu Ddeu . Il sabato dopo l’ora di pranzo, rigorosamente “le comiche” con Ridolini, Charlot e Stanlio ed Onlio.
L’accensione di quello che era considerato il più nobile degli elettrodomestici era un rito: “ìamu spettare cu’ se scarfa!” . All’inizio appariva un puntino luminoso che via-via si ingrandiva fino a riempire lo schermo, spesso vuoto (quando si era in anticipo rispetto all’inizio delle trasmissioni) dell’unico canale: “lu primu” (solo negli anni successivi la RAI implementò con la seconda e terza rete, sino all’avvento delle Televisioni private).
Si attendeva poi l’immagine di un cielo nuvoloso, sul quale calava dall’alto una specie di rete, sino all’apparizione di una “T” e una “V” stilizzate, che davano inizio alle trasmissioni. Al termine, la stessa immagine appariva al contrario: la rete si ritraeva verso l’alto, a sancire l’ora di spegnere quella sorta di “reliquia moderna”, la quale si congedava da noi restringendo lo schermo fino a creare un grosso punto luminoso al centro, come una specie di “occhio” che sembrava un monito: “Io comunque ci sono e vi osservo” quasi consapevole della sua funzione di epocale condizionamento.
Poi si copriva con una tendina di tessuto (quasi a preservarne “la salute”), rigorosamente cucita su misura, e magari ci si poneva sopra un portaritratti con la foto di un familiare in alta uniforme da militare o carabiniere.
Ricordo con grande emozione le persone di quelle splendide serate in compagnia: la Ada Funtana, lu Peppu Ddeu, la Cosimina… qualcuno non c’è più, qualcuno lo incontro ancora, con un inevitabile tuffo al cuore.
Quando invece scorrazzo con il telecomando tra decine di canali televisivi, senza trovare qualcosa da guardare che mi interessi, non posso fare a meno di sorridere, un po’ beffardo: sarà la rivincita di “quella” televisione?

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

“Schietti e belli li piò-piò”

Post n°7 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

“Schietti e belli li piò-piò” ! Chissà quante volte, molti di noi, hanno sentito gridare questa ed altre frasi, senza farci caso, come se fosse un semplice, ordinario interloquire con qualcuno che si saluta distrattamente.
A distanza di anni, però, queste parole riportano immediatamente, ed in modo inequivocabile ad uno dei personaggi più noti di San Cesario: Lu Santu te li piò-piò (dove per piò-piò si intendono i lupini salati, di cui sono ghiotto, ma che evito accuratamente di mangiare, poiché fascenu male alla colite, ma anche a causa degli effetti collaterali!)
Lo ricordo da sempre con un basco blu (lu coppulinu) calato sulla fronte rugosa, segnata dal sole, su cui trionfavano due folte sopracciglia argentate, come le ciocche dei capelli che lu coppulinu lasciava intravedere lateralmente. Tratti decisi, come i suoi modi, sebbene sempre garbati.
Lu Santu era ed è rimasto l’unico venditore di frutta secca a San Cesario (a parte una brevissima parentesi di un altro nostro concittadino, lu Totò) egli era espertissimo conoscitore, oltre che di lupini, te samienti, ciceri, fae toste e fae mueddhri, nuceddhre, mendule, pastiddhre, castagne e castagne te prete.
Inizialmente la sua attività era svolta come ambulante, a bordo di un motorino mosquitu, se nu’ me sbagliu! Di quelli con il serbatoio della miscela sul telaio, a forma te pallone te rugby. Dietro il sellino, sul portapacchi, era montata una cassetta di legno, dipinta di color celeste, il cui interno era rivestito di lamiera zincata.
Lì trasportava e vendeva, per le vie del paese, li famosi piò-piò, distribuendoli agli acquirenti con tanto di misurino e cartocci confezionati all’istante utilizzando fogli di vecchi giornali (ultimamente il progresso aveva avuto il sopravvento anche su di lui, attraverso i sacchettini di plastica). Per richiamare l’attenzione aveva un lessico tutto suo: “bannisciàa” la sua merce gridando ad intervalli frasi del tipo “schietti e belli li piò-piò… tenari salatielli... ssaggiatili…”. E sì… era talmente sicuro del suo prodotto, che non temeva la prova “assaggio”, che per la frutta secca è di rito!
L’estate diversificava con le mandorle fresche, trasportate rigorosamente in una menza di latta zincata, da cui “pescava” i bianchi semi cu nu’ cuppinu riponendoli in minuscole bustine te carta oleata gridando, italicamente e semplicemente “mandorle… mandorle fresche” rigorosamente in giacchettina di cotone bianco ed immancabile coppulinu, anche quando lo incontravi sulla spiaggia di San Foca, con i pantaloni arrotolati sopra il polpaccio.
In autunno era il primo ad inebriarci del caldo profumo delle caldarroste: si attrezzava con un mezzo scaldabagno tagliato e saldato su un treppiede, in cui accendeva il fuoco, e ‘na specie te farnaru cu li buchi larghi che riponeva sul fuoco e in cui arrostiva le castagne, girandole cu ‘na strasciddhra te cascetta te taula. Quando erano pronte, le riponeva coprendole con un sacco, per mantenerle calde. Per l’occasione il grido era “Caute, caute!...”
Con gli anni aveva smesso di girovagare, ed aveva una “sede” fissa: dapprima te coste alla chiazza cuperta in Via dante, poi quasi dirimpetto, un po’ più avanti te lu tabacchinu, mantenendo intatto il fascino che emanava dai sacchi di juta arrotolati e allineati sulle assi di legno che costituivano lu bancune.
Se ne è andato in punta di piedi, come aveva vissuto, lasciandoci la magia dei ricordi di quel tempo semplice e bello, e l’irripetibilità di quelle frasi: “tenàri salatielli!”.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

"Nuovo Cinema… Iride”

Post n°6 pubblicato il 23 Febbraio 2008 da dueali2

di Luigi Pascali

Amo svisceratamente il cinema, qualunque genere purché ben fatto. Mi affascinano gli effetti speciali, anche se poi prediligo il cinema italiano, partendo dal neorealismo di De Sica, passando da Monicelli, dalla commedia italiana, con tanto di Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman, Vitti, Magnani, Melato, Loren, Mastroianni. Fino ai giorni nostri con Lo Cascio, Castellitto, Buy, Morante e tanti altri.
Parlando di cinema non posso evitare di pensare al luogo fisico dove questo miracolo di celluloide si consumava, quando ero bambino e poi adolescente, e tutte le volte che passo davanti a quelli che furono i cinema storici di San Cesario non posso trattenere un sussulto e un moto di stizza per la fine che hanno fatto il mitico Cinema “San Carlo”, in via Cepolla e l’altrettanto magico “Iride” in via Dante.
E’ automatico, naturale, accostare il capolavoro di Tornatore, Nuovo Cinema Paradiso, con gli episodi e le emozioni che in noi ragazzini suscitavano questi luoghi meravigliosi, dove la fantasia di noi bambini si tramutava in avventurosa realtà sullo schermo bianco, su cui venivano proiettate immagini graffiate da una pellicola passata già troppe volte nelle bobine di proiettori rabberciati, di cinema di periferia.
Il clima del San Carlo era sempre un po’ più austero, il proprietario-bigliettaio-controllore-maschera-tuttofare era severissimo, specialmente con i ragazzini, ai quali non permetteva assolutamente di disturbare la visione, pena ‘Na ‘zzeccata pe’ ricchie finu alla strata e addio film! E guai a raccontarlo a casa, sennò c’era lu restu te le mazzate, pe’ la figura: ”comu!... Lu fiju te quiddhru zzeccatu pe’ ricchie e cacciatu te lu cinema!” per un genitore (di allora) un’onta insopportabile! L’Iride consentiva maggiori scorribande, merito dell’enorme bontà te lu maresciallu e la sua gentile signora, con la quale si alternava alla cassa: non ho mai compreso il motivo, ma li chiamavamo Ronice e Ronicessa.
Non era necessario avere i soldi per il biglietto: se mancava qualcosa trasii lo stessu! Anche se ci si presentava cu’ la ‘ncartata te samienti te lu Santu nessuno obiettava che i soldini avresti potuto tenerli per il biglietto.
Dentro era una bolgia infernale di carte te caramelle, scorze te samienti, nuceddhre… che immancabilmente venivano gettate dalla galleria, sulle teste dei malcapitati della platea. E poi un fumo così denso, che il fascio delle immagini quasi faceva fatica ad attraversare.
Sistematicamente la pellicola si spezzava, oppure il fido Cesare si distraeva e non avanzava la carbonella del proiettore, quindi lo schermo si oscurava, allora giù fischi e un baccano infernale di invettive contro “lu ronice” naturalmente ritenuto responsabile di tutto.
Il film era molto partecipato. Sottolineature del pubblico quando il “cattivo” veniva ammazzato dal “buono”: “Eh, Butta lu velenu!” O acclamazioni entusiasmanti quando i “buoni” venivano in soccorso dei più deboli: “Sta rrianu li nesci!” , fornendo addirittura una colonna sonora vocale di supporto all’originale!
Il top fu raggiunto una sera, durante l’intervallo, quando alcuni giovani goliardi riuscirono a chiudere la finestrella attraverso la quale passavano le immagini, addirittura con una fetta di tufo e malta, con le ire del maresciallo e il prevedibile putiferio che ne seguì!
In questi luoghi magici ha conosciuto il cinema la mia generazione, qui ci si inebriava di Joselito, Marcellino pane e vino, qui intere famiglie si recavano a vedere Ben Hur o I dieci comandamenti come se ci si recasse in Chiesa, ad assistere ad una funzione religiosa, facendosi il segno della croce nelle scene più toccanti!... Qui abbiamo invidiato i muscoli di Maciste e Sansone … Qui ci siamo entusiasmati ed emulato Giuliano Gemma, in Django, qui imparavamo le sparatorie dei nostri giochi con Per un pugno di dollari, Ringo… Qui dove ora regnano la polvere e le ragnatele, o c’è un’attività commerciale!
Tutti coloro che amano il cinema vorrebbero stare al posto di Tornatore.
Anch’io, se potessi, girerei un film: “Nuovo Cinema Iride”.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963