Il labirinto
blog diarioMessaggi del 29/08/2011
C'era una volta un piccolo paese chiuso e nascosto tra alte cime ghiacciate. Non era facile arrivarvi: bisognava camminare e camminare, attraversare scure gole dense di boschi, torrenti impetuosi, tremuli ponti di corde. Solamente in fondo, in fondo, là dove la linea verde della terra si congiungeva a quella azzurra del cielo, là dove, di notte, le stelle brillavano a migliaia nei prati scoscesi assieme alle stelle alpine ed alle genziane, iniziava il paese senza lacrime. Era un posto così piccolo e sperduto che nessuna carta, nemmeno la più particolareggiata ne faceva menzione. In realtà neppure gli abitanti del paese erano a conoscenza che, oltre le loro aguzze cime ghiacciate, ci fossero città e nazioni e persone. Erano convinti che il mondo si fermasse lì, in quel loro paese felice dove il cielo si stringeva alla terra in un amichevole abbraccio. Il paese senza lacrime era proprio piccino: una piazzetta acciottolata, affacciata su un panorama di rocce chiazzate di verde ed una spruzzata di casette tutte uguali dai muri bianchissimi ornati da finestrine ridenti di gerani. La gente del paese senza lacrime non era, ad un primo sguardo, in nulla dissimile da quella del resto del mondo: aveva due gambe, due braccia, due occhi, un naso e perfino una bocca. Beh,qualcosa di differente in realtà si notava.. Tutti, sia gli uomini, sia le donne e perfino i bambini, avevano stampato sul viso l'identica espressione di allegra spensieratezza. Non s'incontrava, neanche a cercarlo col lanternino, un bimbo che piangesse per un capriccio o una vecchina cui si scorgesse, tra le pieghe del viso, due labbra rivolte malinconicamente all'ingiù. Tutti sfoggiavano allegri sorrisi e le strette viuzze echeggiavano di risate argentine. La vita, in quel paese, scorreva come un tranquillo ruscello illuminato dal sole.
Un giorno un cacciatore che, attraverso la foresta, s'apprestava a tornare a casa col suo bottino di poveri uccellini impallinati, scorse, dove la boscaglia s'addensava umida e scura, una piccola forma tremante. Stupito s'avvicinò. Scostò qualche ramo imperlato di brina e a bocca aperta contemplò il misterioso essere che giaceva nell'erba. Era un ragazzetto, non più bambino, ma non ancora adolescente, con uno scompigliato cespuglio di capelli color buccia di castagna che spioveva sugl'occhi larghi di paura. "E, tu chi sei?" gli chiese nella sua lingua gutturale. Il ragazzino si rattrappì su se stesso: sembrava una bestiola presa in trappola. "Chi sei, dunque?" domandò nuovamente il cacciatore, questa volta accompagnando le parole con i gesti. "Mi.. mi chiamo Daniele" disse finalmente con una sottile vocina da bambino piccolo. Aveva sul labbro superiore una lieve peluria brillante che contrastava con l'aspetto ancora infantile. "Da dove vieni? Non ti ho mai visto qui" disse il cacciatore mentre tentava di far alzare il ragazzo. Ma Daniele era proprio esausto e scivolò di nuovo nell'erba. Non sapeva bene, neanche lui, come fosse arrivato in quel luogo. Ricordava solo di essersi perso nel bosco, di avere corso angosciato tra i lunghi rami che lo inseguivano ghignanti. I piedi sempre più stanchi inciampavano nel frusciante tappeto di foglie ramate. Per giorni e giorni aveva vagato,il piccolo cuore fremente per ogni ombra oscura che occhieggiava dietro la scorza rugosa degli alberi. Aveva attraversato ponti sospesi sulla schiuma di selvaggi torrenti,il silenzio lo aveva avvolto denso e pesante, solo scheggiato dall'urlo di qualche invisibile animale. Aveva avvertito su di sé le fredde dita della morte allungarsi,pronte a ghermirlo al primo segno di cedimento. Si era fatto forte e aveva camminato e camminato con i piedi feriti,i vestiti strappati dai rovi,la pancia vuota che gorgogliava,il cuore pesante d'angoscia e negl'occhi l'immagine della madre che lo cercava inutilmente. L'avrebbe più rivista? Avrebbe più sentito sulle guance il tocco speciale delle sue mani che lo accarezzavano? Abbassò le palpebre e chiuse fuori le sue paure. Era stanco,non poteva più lottare: si consegnò al destino, qualunque cosa lo aspettasse. Una lieve carezza lo svegliò. Aprì gli occhi: la coscienza faticava a disegnare i contorni delle cose. Alla fine mise a fuoco la figura di una ragazza. Era molto carina: occhi come caramelle d'orzo e capelli come miele selvatico e un piccolo naso all'insù. Ma ciò che più attirava l'attenzione era il suo sorriso: illuminava, netto,senza ombre,tutto il volto. Non ne aveva mai conosciuti di uguali. Un pò a segni, un pò a parole, si presentarono. La ragazza si chiamava Caterina. Era in quell'età in cui il corpo, segretamente, sboccia, s'addolcisce, perde le angolosità infantili, cogliendo di sorpresa la stessa bambina. A Davide piacque subito.
I discorsi di Caterina erano percorsi da zampillanti risatine. Era figlia del cacciatore che l'aveva trovato e ora abitavano insieme nella casina bianca con i gerani rossi alle finestre. Daniele si rese conto ben presto della felicità che, come un dolce sciroppo, scorreva per tutto il villaggio. "Ah, ah!" si sentiva echeggiare nelle case e per strada i visi sembravano avere rubato la luminosità al sole. Probabilmente l'aria che si respirava in quel luogo sperduto era impregnata di un'ilarità perenne e nessun abitante sfuggiva al misterioso influsso. Il tempo trascorreva veloce tra quella gente che non conosceva tristezza. I giorni si aggiunsero ai mesi e i mesi agl'anni. A lungo andare, però, tutta quell'ilarità risultava stucchevole ed insipida. Daniele si fece un bel giovane: il cespuglio spinoso sulla testa si trasformò in una lucente matassa di seta che scendeva a sfiorare gli occhi di scuro velluto. Le ragazze del paese se lo segnavano col dito, manifestando con sonore risate il loro apprezzamento. Daniele ne era lusingato, ma anche infastidito. A lui interessava sola Caterina.
Un giorno, nell'ora in cui il tramonto ramato si stemperava nelle prime ombre notturne, Daniele si recò alla cascata dietro il paese. L'acqua precipitava con selvaggia violenza lungo la gola verde di muschio, e, all'improvviso, quasi stregato da tutto quel fragore, la sua mente si staccò dal corpo, volò lontano, al di là delle cime ghiacciate, oltre il bosco popolato di ombre, fino alla casa dal poggiolo di legno annerito dal sole e dagl'anni. Appoggiata alla balaustra c'era una donna minuta con i capelli biondi un pò scoloriti e i dolci occhi bagnati di lacrime. Scrutava nel vuoto in cerca di qualcuno. "Sta cercando me!" mormorò il ragazzo, quasi in sogno. "Mamma.." gridò, tendendo istintivamente le braccia. Il suo grido echeggiò, ampliato dai dirupi, ma la mamma non poteva udirlo. La nostalgia per la madre, soffocata da quel mondo artificiale senza lacrime, gli rovinò addosso di colpo. Intuì che solo col pianto avrebbero potuto dare sollievo all'oscura angoscia che avvertiva nell'animo; ma i suoi occhi rimasero asciutti e la bocca, come il solito, stirata in un sorriso vacuo. Staccandosi a fatica dalla visione, alzò gli occhi verso le aguzze cime che foravano la notte e urlò con tutta la forza dei suoi polmoni: "Chiunque tu sia, mago o strega, che hai gettato un incantesimo su questo paese: io ti invoco! Lascia che il dolore si riversi fuori di noi e non rimanga nascosto nel cuore come un animale nella tana! Abbiamo il diritto d'essere uomini come tutti gli altri sulla terra!" Le parole del ragazzo tagliarono come lame affilate l'aria bruna. La seta pesante del cielo, punteggiata di stelle, ebbe un lungo brivido e una voce non umana precipitò rombando dagli spazi siderali: "Piccolo uomo temerario, come osi interpellare con tanta arroganza il dio del riso e del pianto? Io donai a questo popolo una vita senza pene. Da allora è sempre vissuto felice: perché vuoi insinuare il dubbio nei loro animi gioiosi?" "La loro è una gioia artificiale." replicò Daniele. "La gioia da sola, senza le altre emozioni dell'animo con cui confrontarsi, è piatta, non ha spessore. È come uno strumento monocorde in cui vibra in eterno un'unica nota. Non ha nulla d'umano." "Sciocco ragazzo, non sai godere del privilegio che la sorte ti ha donato!" disse il dio del riso e del pianto, "Scioglierò dal sortilegio te solo, ma dovrai abbandonare il mio felice paese e ritornartene in dietro, nel mondo degli uomini comuni. Tu mi hai chiesto di ridarti tutti i sentimenti umani ed io ti accontenterò. Soffrirai la paura, la solitudine, l'angoscia. Scoprirai che anche l'amore non è solo gioia pura, ma anche emozione palpitante, sofferenza sottile."
Il dio, dopo aver pronunciato queste parole, scomparve. Restò per qualche attimo solo l'eco crudele di una risata, che si allontanò scivolando nel vento. Un lungo brivido di terrore corse tra le scure chiome degl'alberi avvolti dalla notte. "Che succede, Daniele?" Una voce ben nota fece sobbalzare il ragazzo. Strizzò gli occhi: un tremulo velo di nebbia era calato all'improvviso, sfocando i contorni delle cose. Finalmente vide la sua amica Caterina. Gli anni avevano disegnato sulla sua figuretta morbide curve femminili; il viso conservava ancora la grazia selvatica dell'infanzia, con l'aggiunta però di un'intensità adulta nello sguardo. "Cosa ci fai qui, al buio? Con chi parlavi?" Domandò curiosa. Per la prima volta, guardandola, Daniele sentì nel petto il cuore fremere come un piccolo uccello. "Caty, vieni qua" le sussurrò con un'emozione nuova. Tese le braccia per stringerla a sé, ma urtò contro un invisibile ostacolo. Nuovamente l'aria nebbiosa fu percorsa da un brivido e la voce divina calò rombando dallo scuro velluto del cielo. "Ricorda le mie parole, ragazzo! Non potrai mai più avere contatti con questa gente: ormai tu appartieni ad un altro mondo. Vattene o il mio castigo ti colpirà terribile!" I due giovani con le mani poggiate sulla parete invisibile, vicini, ma divisi, ascoltarono in silenzio le dure parole. Caterina aveva ancora stampato sul viso il suo perfetto sorriso da bambola, ma gli occhi simili a caramelle d'orzo, persero per qualche istante la loro la lucentezza come se un grigio velo fosse calato ad oscurarli. Fu un attimo: lei apparteneva al paese felice e nessun altro sentimento poteva scalfire la sua serenità. "Scappiamo insieme, Daniele!" propose, mentre con le dita sottili disegnava, sull'invisibile parete,i contorni del volto crucciato. "Com'è possibile?" replicò il ragazzo" "Questo impalpabile ostacolo ti separa da me!" Volgendo poi lo sguardo con impeto verso il cielo stellato, lanciò la sua disperata richiesta: "Dacci, Signore del riso e del pianto, almeno una possibilità di riunirci. Ti promettiamo che ci allontaneremo subito dalla terra su cui regni." "Quello che mi chiedi è irrealizzabile", rispose la voce rotolando nel teso silenzio della notte. "A meno che.." "A meno che.." ripeté ansiosamente Daniele. "A meno che l'amore della tua ragazza sia così potente da sciogliere col suo calore l'incantesimo che la protegge." Caterina era confusa. Da alcuni anni lei e Daniele erano fidanzati: quando stava assieme a lui sentiva scorrere nelle vene una felicità così grande che quasi non riusciva a contenerla completamente. Non bastava tutto quell'amore per sciogliere l'incantesimo? Leggendole nel pensiero, il dio aggiunse: "Per te, ragazza, che conosci solo la pura gioia, è impossibile provare le sensazioni, talvolta dolorose, che inevitabilmente i sentimenti intensi portano con sé. Io ho donato al tuo popolo il riso perenne, ma vi ho reso immuni dalle emozioni profonde che consumano come la fiamma consuma la candela. Nubi gonfie di pioggia, trasportate dal vento, avevano ormai nascosto la dolce volta stellata. L'eco delle ultime parole sfumò confondendosi con un rombo lontano. I due ragazzi rimasero soli, avvolti dal silenzio della notte, finché le prime gocce iniziarono a frusciare leggere nell'oscurità del bosco. Essere così vicino, sentire il respiro l'uno dell'altro e non potersi neppure sfiorare era un terribile supplizio. La pioggia ora cadeva fitta, un lucido velo vibrante che scivolava sui loro corpi tesi. "Non potrò più stringerti tra le braccia! Cosa m'importa di stare in un mondo dove tu non ci sarai?" disse Daniele e la sua voce era già come morta. Caterina se ne stava rigida, immobile, le mani premute sull'invisibile parete, i capelli color miele selvatico gocciolanti. Ascoltava in silenzio le parole dell'amico mentre quel "più" le rimbombava nelle orecchie come un'esplosione. "Mi ritirerò nel bosco e lascerò che la vita si spenga lentamente in me. Prima voglio però accarezzare un'ultima volta il tuo dolce viso." Con tenerezza sfiorò la parete d'aria con dietro la faccia di Caterina. Passò le dita prima sui capelli grondanti, poi sugl'occhi simili a caramelle d'orzo, sul naso all'insù da bambina, sulla piccola bocca irrigidita in un sorriso vuoto. Vide le sue labbra tremare. "Che cosa intendi dire, Daniele? Non ho capito bene il tuo discorso." "Hai capito benissimo!" "No!" esclamò la ragazza. Il suono della voce fu come una freccia di fuoco scoccata nell'umidità silenziosa della notte. Inutilmente tentò di aggrapparsi alle braccia di Daniele, le sue dita scivolarono sul nulla che li separava.
Fu allora che dentro di lei qualcosa accadde. Sentì il sangue accelerare nelle vene e il cuore ritmare impazzito nel petto. Aveva smesso di piovere e un chiarore lattiginoso s'andava spandendo nel cielo. Si portò una mano sugl'occhi: li sentiva bruciare come il fuoco. Le guance erano rigate da strani rivoli lucenti... "Daniele, guarda" sussurrò Le immagini all'inizio gli arrivarono sfilacciate, come avvolte da una nebbia sottile; poi mise a fuoco meglio il volto di Caterina. La notte era ancora scura, ma un leggero chiarore le illuminava il viso e gli occhi lucidi. "Ma tu, tu..stai piangendo!" esclamò incredulo. Istintivamente Daniele la circondò con le braccia. Sentì il suo corpo bagnato tremare e con tenerezza strinse la ragazza al petto. Il tempo arrestò il suo corso, gli attimi persero i loro rigidi confini. Solo più tardi, molto tempo dopo, i due giovani si accorsero di percepire il calore reciproco. Nessuna barriera più li divideva. L'incantesimo era infranto. Caterina si volse per un attimo a guardare il suo paese felice nella luce rosata dell'alba. Dormiva tranquillo, isolato dalle alte cime ghiacciate. Poi s'addentrarono insieme nel bosco verso il mondo degli uomini normali
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In mezzo a un giardino cresceva un albero di rose, il quale era piuttosto pieno di rose, e in una di esse, la più bella di tutte, viveva un elfo; era così piccolo che nessun occhio umano era capace di vederlo; dietro ognuno dei petali della rosa aveva una stanza da letto; era benfatto e delizioso come nessun occhio umano poteva esserlo e aveva le ali dalle spalle fino giù ai piedi. Oh, com'erano profumate le sue stanze e com'erano nitide e belle le loro pareti! Erano infatti i delicati petali rosso pallido. Si sollazzava l'intera giornata nei caldi raggi del sole, svolazzando da un fiore all'altro, ballando sulle ali della farfalla in volo, e contava i passi che doveva fare per percorrere tutte le strade maestre e i viottoli che c'erano su un'unica foglia di tiglio. Erano ciò che noi chiamiamo le nervature della foglia che egli considerava come strade maestre e viottoli; eh sì, per lui erano strade senza fine! Prima che egli terminasse il sole era tramontato; aveva anche iniziato molto tardi. Si fece tanto freddo, la rugiada cadde e il vento soffiò; ora era meglio tornare a casa; si affrettò più che poté, ma la rosa si era chiusa, non vi poté entrare - non una sola rosa era rimasta aperta; il povero piccolo elfo fu così spaventato, non aveva mai passato la notte fuori fino ad allora, aveva sempre dormito dolcemente dietro ai tiepidi petali della rosa, oh, sarebbe probabilmente stata la sua morte!
Dall'altro lato del giardino sapeva che c'era una capanna di fronde con dei bei caprifogli, i fiori sembravano corni dipinti: sarebbe sceso in uno di questi per dormire fino a domani. Volò laggiù. Silenzio! All'interno vi erano due persone; un bel giovanotto e una meravigliosa fanciulla; erano seduti l'uno accanto all'altra e con la speranza di non doversi mai separare per l'eternità; si amavano tanto, molto più di quanto un bambino affettuosissimo possa amare sua madre o suo padre. "Eppure ci dobbiamo dividere!" disse il giovanotto; "tuo fratello non ci vuole bene e perciò mi manda a fare questa commissione tanto lontano oltre i monti e oltre i mari! Addio mia cara sposa, perché questo sei tu per me nonostante tutto!" E poi si baciarono e la giovane ragazza pianse e gli diede una rosa; ma prima di dargliela vi impresse un bacio così deciso e così sincero che il fiore si aprì: ed ecco che il piccolo elfo prese il volo e vi entrò e posò la testa contro le delicate pareti profumate; però sentì bene che si dissero ' Addio, Addio! ' e sentì che la rosa venne posata contro il petto del giovanotto - oh, come il cuore vi batteva all'interno! Il piccolo elfo non riuscì per niente a dormire, per quanto batteva.
La rosa non rimase a lungo tranquilla contro il petto, il ragazzo la prese e mentre attraversava da solo il bosco tenebroso, baciava il fiore, oh, così spesso e con così tanta forza che il piccolo elfo stava per morire schiacciato: poté sentire attraverso il petalo il bruciore delle labbra dell'uomo e la rosa stessa si era aperta come al sole fortissimo di mezzogiorno.
Venne allora un altro signore, scuro e corrucciato, era il fratello cattivo della bella ragazza; tirò fuori un coltello tanto affilato e tanto grande e mentre l'altro baciava la rosa, il signore cattivo lo accoltellò a morte, tagliò la sua testa e la seppellì insieme al corpo nella terra morbida sotto il tiglio. ' Eccolo sparito e dimenticato ', pensò il fratello cattivo; ' non sarà mai più di ritorno. Doveva fare un lungo viaggio, oltre i monti e oltre i mari, vi si può facilmente perdere la vita e così è stato per lui. Egli non verrà mai più e a me mia sorella non oserà mai chiedere di lui. ' Poi con i piedi ammucchiò un pò di foglie secche sulla terra scavata e se ne ritornò a casa nella notte oscura; ma non procedeva da solo come egli pensava: il piccolo elfo lo seguì, stava in una foglia di tiglio secca e arrotolata che era caduta nei capelli dell'uomo cattivo quando stava scavando la fossa. Poi sopra era stato messo il cappello, faceva tanto buio lì dentro, e l'elfo tremava dalla paura e dalla rabbia per un'azione così vile. Nell'ora mattutina l'uomo cattivo tornò a casa; si tolse il cappello e andò nella stanza da letto della sorella; lì stava sdraiata la bella ragazza fiorente che sognava colui che lei amava tanto e che lei pensava camminasse ora sulle montagne e attraverso i boschi; e il fratello cattivo si chinò su di lei e rise vilmente come può ridere un demonio; ed ecco che la foglia secca cadde dai suoi capelli giù sul letto, ma egli non se ne accorse e uscì per dormire anche un pò nelle ore mattutine. Ma l'elfo saltò dalla foglia secca ed entrò nell'orecchio della ragazza che dormiva per raccontarle, come in un sogno, l'atroce omicidio; egli le descrisse il luogo dove il fratello l'aveva ucciso e aveva depositato il suo corpo, le raccontò del tiglio in fiore lì accanto dicendo: "Perché tu non creda che sia semplicemente un sogno ciò che ti ho raccontato, troverai sul tuo letto una foglia di tiglio secca!" ed ella svegliandosi la trovò.
Oh come ella pianse a calde lacrime! E non osava raccontare a nessuno il suo dolore. La finestra rimase aperta tutto il giorno, il piccolo elfo poté uscire in giardino senza difficoltà per raggiungere le rose e tutti gli altri fiori, ma non ebbe il coraggio di lasciare la sconsolata. Sulla finestra vi era un albero di rosa che fioriva ogni mese, egli si mise in uno dei fiori e guardò la povera ragazza. Suo fratello veniva spesso nella stanza ed era tanto allegro e cattivo ma ella non osava dire una parola sul suo cuore affranto. Appena venne la notte, ella uscì alla chetichella dalla casa, andò nel bosco fino al posto in cui c'era il tiglio, tirò via le foglie dalla terra, scavò in essa e trovò immediatamente colui che era stato ucciso. Oh come pianse! E pregò il Signore di poter morire anche lei ben presto. Avrebbe volentieri portato il cadavere a casa ma non poteva; allora prese la pallida testa con gli occhi chiusi, baciò la fredda bocca e scosse i bei capelli per toglierne la terra. "Questa la voglio possedere!" disse, e dopo aver coperto il corpo senza vita di terra e di foglie prese la testa e se la portò a casa con un ramicello di quell'albero di gelsomino che fioriva nel bosco lì dove egli era stato ucciso.
Appena ella fu nella sua stanza, andò a prendere il più grande vaso da fiori che poté trovare e in esso depose la testa del morto con sopra la terra e poi piantò il ramo di gelsomino nel vaso. "Addio! Addio!" sussurrò il piccolo elfo, non potendo più sopportare la vista di tanto dolore, e se ne andò via volando fuori nel giardino per raggiungere la sua rosa; ma essa era appassita, lungo la coccola verde pendevano soltanto alcuni petali pallidi. "Ahimè! Come sta per finire tutto ciò che è bello e tutto ciò che è buono!" sospirò l'elfo. Alla fine ritrovò una rosa che diventò la sua casa, dietro ai suoi delicati petali profumati poteva costruire e vivere. Ogni mattina volava alla finestra della povera ragazza ed ella stava sempre al vaso piangendo; le lacrime amare cadevano sul ramo di gelsomino e come lei ogni giorno diventava sempre più pallida, il ramo si faceva sempre più fresco e più verde, venivano fuori un germoglio dopo l'altro, apparivano i piccoli boccioli bianchi dei fiori ed ella li baciava, ma il fratello cattivo brontolava chiedendo se fosse diventata folle? Non gli piaceva e non poteva capire perché ella piangesse sempre sopra quel vaso coi fiori. Egli infatti non sapeva quali occhi erano stati chiusi e quali labbra rosse erano state trasformate lì in terra; ed ella chinò la testa appoggiandola al vaso coi fiori e il piccolo elfo della rosa la trovò così sonnecchiando; allora penetrò nel suo orecchio, le raccontò della sera nella capanna di fronde, del profumo della rosa e dell'amore degli elfi; ella fece un dolcissimo sogno e mentre sognava la vita svanì; era morta di una dolce morte, era nel cielo insieme a colui che le era caro.
E i fiori del gelsomino aprirono le loro grandi campanelle, erano profumate in maniera tanto deliziosa: non avevano altri modi per piangere la morta. Ma il fratello cattivo guardava il bell'albero in fiore, se lo prese come una eredità e se lo mise in camera da letto, vicinissimo al letto poiché era bello da vedere e il suo profumo era dolce e soave. Il piccolo elfo della rosa lo accompagnò volando da un fiore all'altro, in ciascuno di essi infatti vi era una piccola anima e a questa egli raccontò del giovane ragazzo ucciso, la cui testa ora era terra sotto la terra, raccontò del fratello cattivo e della povera sorella. "Lo sappiamo!" dissero tutte le anime dentro ai fiori, "lo sappiamo! Non siamo noi cresciute dagli occhi e dalle labbra del ragazzo ucciso! Lo sappiamo! Lo sappiamo!" e poi fecero con la testa un cenno tanto strano. L'elfo della rosa non fu capace di intendere come potevano rimanere tanto tranquille e se ne andò volando a trovare le api che stavano raccogliendo il miele, raccontò loro la storia del fratello cattivo e le api la dissero alla loro regina, la quale comandò che l'indomani mattina tutte quante avrebbero dovuto uccidere l'assassino. Ma la notte precedente, fu la prima notte dopo la morte della sorella, quando il fratello dormiva nel suo letto vicinissimo all'albero di gelsomino profumato, ognuno dei calici dei fiori si aprì e le anime dei fiori uscirono, invisibili ma con lance velenose, e si posero prima vicino al suo orecchio raccontandogli sogni cattivi, poi passarono a volo sulle sue labbra pungendo la sua lingua con le lance velenose. "Ora abbiamo vendicato la morta!" dissero e tornarono indietro nelle campanelle bianche del gelsomino.
Quando la mattina arrivò e la finestra della camera da letto venne aperta bruscamente, l'elfo della rosa con l'ape regina e tutto lo sciame delle api si precipitarono all'interno per ucciderlo. Ma egli era già morto; c'era gente in piedi intorno al letto che diceva: "Il profumo del gelsomino l'ha ucciso!". L'elfo della rosa intuì allora la vendetta dei fiori e lo raccontò all'ape regina, la quale con tutto il suo sciame ronzò intorno al vaso coi fiori; fu impossibile cacciare via le api; allora un signore portò via il vaso coi fiori e una delle api punse la sua mano sicché egli fece cadere il vaso che si ruppe. Videro allora la testa bianca del morto e capirono che il morto nel letto era un assassino. E l'ape regina ronzava nell'aria e col suo canto raccontava la vendetta dei fiori e dell'elfo della rosa e diceva che anche dietro al petalo più piccolo c'è qualcuno capace di raccontare e di vendicare la cattiveria!
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C'era una volta un Re che credeva d'aver raccolto nel suo palazzo tutte le cose più rare del mondo. Un giorno venne un forestiere, e chiese di vederle. Osservò minutamente ogni cosa e poi disse: "Maestà, vi manca il meglio." "Che cosa mi manca?" "L'albero che parla." Infatti, tra quelle rarità, l'albero che parlava non c'era.Con questa pulce nell'orecchio, il Re non dormì più. Mandò corrieri per tutto il mondo in cerca dell'albero che parlava. Ma i corrieri tornarono colle mani vuote. Il Re si credette canzonato da quel forestiere, e ordinò d'arrestarlo. "Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio." "E tu l'hai veduto, coi tuoi occhi, l'albero che parla?" "L'ho veduto con questi occhi e l'ho sentito con queste orecchie." "Dove?" "Non me ne rammento più." "E che cosa diceva?" "Diceva «aspettare e non venire è una cosa da morire». Era dunque vero! Il Re spedì di bel nuovo i suoi corrieri.
Passa un anno, e questi ritornano da capo colle mani vuote. Allora, sdegnato, ordinò che al forestiere si tagliasse la testa. "Maestà, se i vostri corrierihancercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio." Questa insistenza lo colpì. Chiamati i suoi ministri, disse che voleva andar lui in persona alla ricerca dell'albero che parlava. Finché non lo avesse nel suo palazzo, non si terrebbe per Re. E partì, travestito. Cammina, cammina, dopo molti giorni la notte lo colse in una vallata dove non c'era anima viva. Sdraiossi per terra e stava per addormentarsi, quand'ecco una voce che pareva piangesse: "Aspettare e non venire è una cosa da morire!" Si scosse e tese l'orecchio. Se l'era sognato? "Aspettare e non venire è una cosa da morire!" Non se l'era sognato! E domandò subito: "Chi sei tu?" Non rispondeva nessuno. Ma le parole erano, precise, quelle dell'albero che parlava. "Chi sei tu?" Non rispondeva nessuno. La mattina,come aggiornò, vide lì vicino un bell'albero coi rami pendenti fino a terra:Doveva esser quello. E per accertarsene, stese la mano e strappò due foglie. "Ahi! Perché mi strappi?" Il Re, con tutto il suo gran coraggio, rimase atterrito. "Chi sei tu? Se sei anima battezzata, rispondi, in nome di Dio!" "Son la figliuola del Re di Spagna." "E in che modo ti trovi lì?" "Vidi una fontana limpida come il cristallo, e pensai di lavarmi. Tocca appena quell'acqua, rimasi incantata. "Che posso fare per liberarti?" "Bisogna aver la fatatura e giurare di sposarmi." "Questo lo giuro subito, e la fatatura saprò procurarmela, dovessi andare in capo al mondo. Ma tu, perché non mi rispondevi la notte scorsa?" "C'era la Strega... Sta' zitto, allontanati; sento la Strega che ritorna. Se per disgrazia ti trovasse, incanterebbe anche te." Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la Strega a cavallo del manico di una granata. "Con chi hai tu parlato?" "Col vento dell'aria." "Veggo qui delle pedate." "Son forse le vostre." "Ah! Son le mie?" La strega afferrava una mazza di ferro e: "Di dove vieni? Vengo dal mulino." "Basta, per carità! Non lo farò più!" "Ah! Son le mie?" E: "Di dove vieni? Vengo dal mulino." Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro. Ma sbagliò strada. Quando s'accorse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n'avrebbero fatto un boccone.
Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro. "Oh, che buon odore di carne cristiana!" L'Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l'aria: "Oh, che buon odore!" Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona sorte era buio fitto; e l'Orco, cercato inutilmente per un po' di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini. "Té! Té!" Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da quell'albero e cominciò ad inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza. "Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito." "Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti mangerà vivo, poverino!" Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell'Orco e la voce di lui che se li chiamava dietro: "Té! Té!" ' Questa volta sono morto! ' pensò il Re. "Vien qua, "disse la ragazza "bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua schiena, e la mia gonna ti coprirà. Non fiatare!
L'Orco, vista la figliuola, si fermò. "Che fai lì.?" "Mi riposo." "Oh, che buon odore di carne cristiana!" "Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino." "Brava! E le ossa?" "Se le rosicchiarono i cani." L'Orco non cessava d'annusar l'aria. "Oh, che buon odore!" "Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via."
Partito che fu l'Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno, tutta la sua storia. "Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io." La ragazza era una bellezza; il Re l'avrebbe sposata volentieri. "Ahimè, bella ragazza! Ho impegnato la parola." "È la mia cattiva sorte! Ma non importa." Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata di suo padre. Il Re fu fatato. "Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure." "Eccola." "Che cosa è quest'unto?" "È l'olio della cote dove è stata affilata." Colla fatatura, ci volle un batter d'occhi per tornare al luogo dove trovavasi l'albero che parlava. La Strega non c'era, e l'albero gli disse: "Bada! Dentro il tronco c'è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi non dar retta alla Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di darli in giù, e tu dàlli in su; altrimenti m'ammazzeresti. Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa con un sol colpo, o saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe." Venne la Strega. "Che cerchi da queste parti?" "Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui." "Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi dove ti dirò io." "Va bene." Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d'un rasoio e domandò: "Dove?" "Qui." E lui, invece, diè lì. "Ho sbagliato. Da capo. Dove?" "Lì." E lui, invece, diè qui. "Ho sbagliato. Da capo." Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava guardinga. Il Re fece: "Oooh!" "Che vedi?" "Una stella." "Di giorno? E impossibile." "Lassù, diritto a quel ramo: guardate!" E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo, lui le menò il colpo e le staccò, di netto, la testa.
Rotta così la malìa, dal tronco dell'albero uscì fuori una donzella, che non poteva esser guardata fissa, tanto era bella! Il Re, contentissimo, tornò insieme con lei al palazzo reale, e ordinò che si preparassero subito magnifiche feste per gli sponsali. Arrivato quel giorno, mentre le dame di corte abbigliavano da sposa la Regina, s'accorsero, con gran meraviglia, che avea le carni dure come il legno. Una di esse volò dal Re: "Maestà, la Regina ha le carni dure come il legno!" "Possibile?" Il Re e i ministri andarono ad osservare. La cosa era sorprendente. Alla vista parevano carni da ingannare chiunque; a toccarle, era legno! Lei intanto parlava e si muoveva. I ministri dissero che il Re non poteva sposare una bambola, quantunque essa parlasse e si muovesse; e contromandaron le feste. "Qui c'è un altro incanto! "pensò il Re, che si ricordò dell'unto della scure. Prese un pezzetto di carne e lo tagliuzzò con questa. Aveva indovinato! I pezzettini, alla vista, parevan carne da ingannare chiunque; a toccarli, eran legno. Il tradimento gliel'aveva fatto la figliuola dell'Orco, per gelosia. Il Re disse ai ministri: "Vado e torno." E si trovò nel bosco, dove aveva incontrato quella ragazza. "Maestà, da queste parti? Che buon vento vi mena?" "Son venuto apposta per te." La figlia dell'Orco non volea credergli: "Parola di Re, che siete venuto apposta per me?" "Parola di Re!" Ed era vero; ma lei s'immaginava per le nozze. Sipresero a braccetto ed entrarono in casa. "Questa è la scure che tu mi prestasti." Nel porgergliela, il Re fece in maniera di ferirla in una mano. "Ah, Maestà, che avete fatto! Son diventata di legno!" Il Re si fingeva afflittissimo di quell'accidente: "E non si può rimediare?" "Aprite quell'armadio, prendete quel barattolo, ungetemi tutta coll'olio che è lì dentro, e sarò subito guarita." Il Re prese il barattolo: "Aspetta che io torni!" Lei capì e si messe a urlare: "Tradimento!Tradimento!" E gli scatenò dietro i cento mastini di suo padre. Ma sì!..il Re era sparito. Con quell'olio le carni della Regina tornarono subito morbide, e si poterono celebrare le nozze. Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un corno.
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C'era una volta un re che amava moltissimo la caccia, e vi si dedicava molto, traendo grande piacere nell'inseguire gli animali della foresta. Trascorreva parecchio tempo fuori, in compagnia dei suoi segugi e del suo falco e non tornava mai indietro a mani vuote. Accadde però un giorno che non riuscì a stanare la sua preda nonostante la inseguisse fin dal mattino presto, e quando ormai si fece sera e stava per abbandonare il campo per tornarsene a casa con i suoi accompagnatori, s'imbatté in uno strano nano che vagava per la foresta. Allora lo inseguì e ben presto riuscì a catturarlo; quando poté osservarlo bene, rimase parecchio stupefatto dal suo aspetto, poiché lo strano omino era piccoletto e brutto come un troll, e aveva i capelli lunghi e ispidi come il muschio. Oltretutto, il buffo omino non rispondeva alle domande che gli ponevano, e questo diede sui nervi al re, il quale era già di malumore per essere rimasto a mani vuote a caccia, e comandò ai suoi scudieri di prendere quell'uomo selvaggio e di custodirlo in un luogo sicuro, perché non potesse scappare; poi rientrò a palazzo.
Una sera, mentre il re brindava e si divertiva in compagnia dei suoi fidi accoliti, il re prese in mano un corno e proruppe: "Cosa ne pensate della nostra giornata di caccia? Non siete anche voi seccati per essere tornati a casa senza preda? Non sono cose che ci succedono tutti i giorni!" E quelli risposero: "Maestà, è oltre modo vero ciò che dite, e potete star certo che al mondo non esiste uomo più abile e dodato di voi nell'arte venatoria; tuttavia non crucciatevi. In vero, una bestia l'avete catturata, ed è la creatura più brutta e bizzarra che si sia mai vista sulla terra." Il re trasse estremo compiacimento da quel discorso, e chiese consulto ai suoi prodi riguardo al prigioniero, e su come secondo loro dovesse comportarsi da quel momento in poi con lui. Ed essi risposero: "Non liberatelo per nessun motivo, ed anzi, è importante che egli rimanga confinato qui al palazzo, in modo che si sappia in ogni dove quale grande cacciatore voi siete. Ma dovete stare molto attento a che non scappi, e guardatevi bene da lui, poiché è una creatura astuta e maligna." Il re stette un attimo in silenzio, riflettendo sui consigli che aveva appena ricevuto, poi svuotò il corno ed annunciò solennemente: "Farò come dite, e garantisco fin d'ora che non sarà mai colpa mia se il nano dovesse riuscire a fuggire. Ma giuro qui, davanti a tutti voi, che se ciò accadrà per colpa di altri, il colpevole sarà punito con la morte, si trattasse anche del mio stesso figlio." Così dicendo, suonò forte il corno, in segno di solennità. Ma ciò lasciò sconcertati i suoi cortigiani, poiché non l'avevano mai sentito parlare in quel modo prima d'ora, e pensarono così che probabilmente l'alcool gli avesse dato un pò alla testa.
Il giorno dopo, al risveglio, il re si ricordò immediatamente del giuramento solenne fatto la sera prima, così mandò subito a prendere del legname e tutto l'occorrente necessario per far costruire una gabbia presso il palazzo, dove avrebbe fatto rinchiudere il nano. E la gabbia venne su talmente rigida, fatta con grandi assi e chiusa da robuste serrature e sbarre così d'acciaio, da essere impenetrabile come un fortino. Solo in mezzo alla parete c'era una fessura che bastava appena per far passare i viveri al prigioniero. Quando tutto fu pronto per il trasferimento, il re fece condurre il selvaggio, che fu sbattuto in gabbia e il re conservò personalmente le chiavi; nessun altro le aveva all'infuori di lui. Da quel giorno ci fu un continuo andirivieni di curiosi che si appostavano lì solo per guardarlo, ma egli non proferì mai una sola parola, né si lamentò in nessun modo con nessuno.
Trascorse un certo periodo di tempo, e il re fu costretto a partire per la guerra. La sera della partenza, fece alcune raccomandazioni alla moglie: "Mia cara, ti affido il regno e il popolo. Ma devi promettermi una cosa, che terrai ben sorvegliato il selvaggio: mi raccomando, mia cara, non lasciarlo mai scappare." La regina promise di fare del suo meglio in questa e in tutte le altre cose, e il re le consegnò le chiavi della gabbia. Poi fece salpare le sue navi, alzò le vele e andò molto lontano, in altri regni, e ovunque andasse, ne usciva vittorioso. La regina rimase sulla spiaggia a guardarlo finché riuscì a scorgere le bandiere sul mare, poi con le sue dame tornò al palazzo, dove attese pazientemente il ritorno del marito stando seduta a cucire.
Il re e la regina avevano solo un figlio, un principino, ancora in tenera età, che prometteva bene. Durante la lunga assenza del padre, un giorno il bambino, mentre si divertiva giocando intorno al palazzo, capitò per caso di fronte alla gabbia del nano. Allora si mise lì seduto e tranquillo, a giocare con la sua mela d'oro. Mentre tutto contento giocava con la mela, capitò che quella si andò ad infilare nella finestrella della gabbia e finì tra le mani del nano, il quale gliela buttò fuori. Il bambino pensò che fosse proprio un giochino divertente, così gliela rilanciò per giocare, e quello gliela rilanciava. Continuarono così per un pò, finché il divertimento diventò una tragedia per il piccolo, perché il nano all'improvviso decise di tenersi la mela e non voleva più restituirgliela. Allora il bambino protestò e si disperò, ma fu inutile perché il nano gli disse: "Senti, tuo padre è stato cattivo con me, e m'ha rinchiuso qui dentro, ma se tu adesso mi liberi, io ti ridarò la tua mela." "Ma come faccio a liberarti?" rispose il bimbo, in lacrime, "Tu sei cattivo! Ridammi la mia mela! Ridammi la mia mela!" "Devi fare come io ora ti dirò" disse il nano. "Và da tua madre, e dille di spazzolarti i capelli. Poi stai attento, e cerca di rubarle le chiavi che porta alla cintura, e torna qui ad aprirmi. Dopo rimetterai le chiavi al loro posto, e nessuno si accorgerà di nulla!" Il bambino stentava, ma alla fine il nano riuscì a convincerlo; così il principino fece come il nano gli aveva detto: rubò le chiavi alla mamma, la quale non si accorse di nulla, e con quelle liberò il nano. Prima di fuggire via, il nano disse al ragazzo: "Tieni, eccoti la tua mela, come ti ho promesso, e ti sono immensamente grato per il servizio che mi hai reso. Ricordati, ogni volta che ti troverai in qualche guaio, in cambio per avermi ridato la libertà, io verrò in tuo soccorso." Così detto, scappò via.
Quando i servi scoprirono che il nano era era fuggito, ci fu grande agitazione. La regina mandò invano i servi in ogni strada a cercarlo, ma inutilmente. Così passò dell'altro tempo, e la regina era piuttosto turbata, perché sapeva che il re poteva tornare da un momento all'altro ed ella avrebbe dovuto giustificare con lui la fuga del selvaggio. Infatti, poco tempo dopo, il re rientrò dalla guerra a bordo delle stesse navi con le quali era partito, e una grande moltitudine di gente s'affollò alla riva per dargli il bentornato. Subito il re chiese alla moglie se aveva fatto buona guardia come le aveva ordinato, e alla fine ella dovette confessare che era scappato. Il re era furioso per la notizia datagli dalla moglie, e lo era talmente che dichiarò solennemente che avrebbe scovato il colpevole, e che sarebbe stato punito con la morte, chiunque fosse stato. Fece passare al setaccio tutta la reggia e anche i bambini dovettero testimoniare, ma nessuno sapeva niente. Dopo che furono interrogati tutti quanti, fu la volta del principino, il quale affrontò coraggiosamente le ire del padre e confessò: "Padre, so bene che quel che vi dirò vi manderà in collera con me, ma non posso nascondervi la verità: sono stato io che ho fatto scappare il nano." A queste parole mancò poco che la regina svenne, e anche tutti gli altri nella corte rimasero sconvolti nell'apprendere che il colpevole era proprio il principe, poiché tutti gli volevano bene, e tutti sperarono nella comprensione del re, ma egli, dopo una lunga pausa, proclamò: "Non sia mai che manchi alla mia stessa parola, anche se si tratta della carne della mia carne: anche se sei mio figlio, morirai come meriti." Detto questo, diede ordine di portare il principino nella foresta, e di ucciderlo, e di portare come prova della sua morte, il suo cuore.
Quella sera ci fu grande dolore ovunque, a corte, e tutti cercarono in tutti i modi di intercedere per il principe presso il padre, ma egli fu irremovibile. Nonostante gli uomini del re erano addolorati per il povero principe, non poterono far altro che obbedire agli ordini, così lo portarono, come stabilito, nella foresta. Quando si furono addentrati abbastanza, videro un pastore che pascolava dei maiali, e così uno di essi disse all'altro: "Non mi sembra giusto togliere la vita al povero principino. Compriamo piuttosto un verro e prendiamo il suo cuore, così tutti crederanno che sia il suo." L'idea sembrò buona all'altro compagno, e così fecero: comprarono un verro dal pastore, portarono l'animale nel bosco, lo uccisero e presero il suo cuore. Poi pregarono il principe di andarsene per la sua strada e non tornare mai più. Il principe ringraziò la buona fortuna e il buon cuore dei cortigiani del padre, e fece come dissero, se ne andò e vagò più a lungo e più lontano che poté, e con sé aveva soltanto noci e bacche che trovava nella foresta. Dopo che ebbe camminato per un bel pò, e fu già molto lontano, giunse nei pressi di una montagna, sulla cui sommità c'era un grande abete. Gli venne allora l'idea di salire in cima per orientarsi meglio; salito su, guardò da un lato, guardò dall'altro, finché scorse a grande distanza un enorme palazzo che scintillava al sole. A quella vista si rallegrò moltissimo, e così si mise subito in cammino per raggiungerlo. Mentre camminava, incontrò per caso un ragazzo che stava arando un terreno; gli propose di fare uno scambio di vestiti e quello accettò. Così equipaggiato, raggiunse il palazzo ed entrò. Chiese lavoro, e fu preso a pascolare le bestie del re. Ogni giorno andava al pascolo con i suoi animali, e con il passar del tempo divenne grande e valoroso, tanto che in nessun luogo c'era l'uguale.
Ma parliamo ora del re, che era il padrone di quella reggia. Egli aveva avuto una moglie, la quale gli aveva dato un'unica figlia, una fanciulla incantevole, dolce e gentile, e chiunque avesse conquistato la sua mano, sarebbe stato fortunato. Quando la principessa compì 15 anni, aveva già un esercito di pretendenti, i quali aumentavano sempre di più. Il re, perciò, non sapeva più cosa decidere, e così, un giorno, andò da sua figlia a chiederle che scegliesse lei chi voleva sposare, ma lei non volle. Questa risposta mandò in collera il re, che disse: "Ah si? Bene, allora, visto che non vuoi sceglierti un marito, allora ne sceglierò io uno per te, ma poi non lamentarti se non dovesse piacerti!". Fece per andarsene, ma la figlia lo trattenne: "Va bene, padre, come vuoi tu; ma sappi che non accetterò uno qualsiasi, ma soltanto il cavaliere che sarà in grado di arrivare con il suo cavallo in cima alla montagna di vetro." L'idea piacque al re, e incitato dalle parole della figlia, fece emanare in tutto il regno un editto in cui si proclamava che il cavaliere che fosse riuscito nell'impresa, avrebbe avuto la principessa in sposa.
Quando arrivò il giorno stabilito per la prova, la principessa fu trasportata in cima alla montagna di vetro, con grande pompa. Lì si mise seduta sul trono, sul punto più alto, con una corona d'oro sulla testa, e una mela d'oro in mano. Ai piedi della montagna erano già pronti nobili cavalieri, a bordo dei loro baldi destrieri, equipaggiati di splendide armature, che scintillavano, accecanti. E tutto intorno il popolo affluiva in grandi schiere per assistere allo spettacolo. Quando tutto fu pronto e venne dato il via, nello stesso istante i cavalieri partirono a razzo verso la salita del monte. Ma la montagna era alta, ripida, e liscia come il ghiaccio, e quindi nessuno riusciva a resistere per più di qualche passo e poi, inevitabilmente, scivolano tutti giù e finivano a terra a gambe all'aria e con l'amor proprio offeso. Da questo nasceva un terribile frastuono, i cavalli nitrivano, il popolo gridava e le armi strepitavano, tanto che si sentiva molto lontano. E poi, mentre la confusione regnava sovrana, il giovane principe era come al solito occupato con il suo bestiame. Udendo da lontano il fragore del tumulto, sedette un istante su un masso, si lasciò andare la testa fra le mani, e pianse. Pensò alla bella principessa, e a quanto avrebbe voluto essere anche lui uno di quei cavalieri. Se ne stava così pensieroso, mentre all'improvviso udì un rumore di passi, e guardando in su, vide il famoso nano che aveva liberato, stare proprio lì, ritto di fronte a lui. "Ti ringrazio ancora per quello che hai fatto per me" disse, "ma ora perché te ne stai lì tutto solo e triste?" "E come potrei non esserlo?" rispose il principe, "a causa tua sono dovuto fuggire dal regno di mio padre, che mi voleva morto, e ora, che vorrei tanto poter tentare anch'io di salire sulla montagna di vetro, e conquistare la principessa, non ho nemmeno un cavallo, né un'armatura." "Oh, se è solo di questo che si tratta," rispose il nano, "è presto fatto: ricordi, no? Tu una volta hai aiutato me, e ora io aiuterò te!" Quindi prese per mano il principe, lo portò sotto terra nella sua grotta. Gli mostrò una splendida armatura d'acciaio puro, così luminosa e brillante che spargeva una luce bluastra per tutta la stanza. E lì, accanto all'armatura, stava pronto un magnifico cavallo sellato che grattava in terra con gli zoccoli d'acciaio e mordeva il freno al punto che la schiuma bianca scorreva fino a terra. Il nano disse al principe: "Presto, preparati, e vai a tentare la tua fortuna, ci penso io, intanto, alle tue bestie." Il principe non se lo fece dire due volte, indossò l'elmo e la corazza, si mise gli speroni ai piedi e si legò la spada al fianco e con quella corazza d'acciaio si sentiva leggero come un uccellino nell'aria. Poi saltò in sella, spronò il cavallo e corse via verso la montagna.
I pretendenti della principessa stavano terminando la gara e nessuno di loro aveva vinto il premio, sebbene tutti avessero fatto quello che potevano, e mentre se ne stavano lì a pensare che forse un'altra volta sarebbero stati più fortunati, improvvisamente videro un giovane arrivare a cavallo dal bosco, diretto verso la montagna, e stava in sella proprio come un cavaliere, ed era un piacere vederlo. Istantaneamente, tutti gli sguardi furono su di lui, mentre tutti bisbigliavano tra loro chiedendosi chi mai potesse essere quello strano cavaliere giunto dal nulla. Ma non ebbero molto tempo per pensare, poiché Ma non ebbero tempo di chiedere, perché appena uscito dal bosco si alzò sulle staffe, spronò il cavallo e corse come una freccia salendo la montagna di vetro. Purtroppo però non giunse in cima, e quando fu arrivato pressappoco a metà montagna, girò i tacchi e ridiscese, così fulmineamente che il fuoco sprizzava dagli zoccoli, e sparì con la stessa velocità in cui era arrivato. Ora, come è facile immaginare, ci fu grande stupore tra la folla che aveva assistito a tutta la scena, e fu parere unanime che al mondo non ci fosse cavaliere più valoroso, né un altrettanto prode destriero. Si sparse inoltre la notizia che la principessa fosse dello stesso avviso, e che ogni notte sognasse l'affascinante straniero.
Passato qualche tempo, i pretendenti della principessa furono chiamati a una seconda prova. Tutto si svolse come la volta precendente, con la principessa che fu portata sul punto più alto della montagna, e fatta sedere sul trono, con la mela d'oro nella mano. Ed esattamente come l'altra volta, tutti i cavalieri presenti fallirono ancora una volta nell'impresa, finendo poco gloriosamente a gambe all'aria. Nello stesso momento, il giovane principe se ne stava al pascolo con il suo gregge, ed era triste e infelice perché avrebbe desiderato ritentare la fortuna anche lui. Ancora una volta, fu raggiunto dal nano, il quale, dopo aver ascoltato i suoi lamenti, lo condusse di nuovo nella sua botola, dove era pronta un'armatura forgiata d'argento scintillante come la luna, accompagnata da un bellissimo cavallo bianco come la neve, completamente sellato che grattava in terra con gli zoccoli d'argento e mordeva il freno, tanto che la schiuma schizzava. Di nuovo il nano invitò il principe a montare a cavallo e correre alla gara, ed egli cavalcò di gran carriera verso la montagna di vetro. Come l'altra volta, il giovane irruppe all'istante tra la folla dei pretendenti ormai sconfitti, e tutti gli sguardi furono su di lui, e subito riconobbero il prode cavaliere che la volta precedente si era così valorosamente distinto; ma egli diede loro ben poco tempo per pensare, perché corse come un razzo su per il pendio. Questa volta giunse quasi in cima, allorché fece un inchino in segno d'omaggio alla principessa, e poi girò i tacchi e ridiscese la china facendo scintillare gli zoccoli. Poi scomparve nel bosco, con la stessa velocità in cui era venuto. Gli eventi si ripeterono allo stesso identico modo anche la terza volta, eccetto per il fatto che questa volta il giovane principe, equipaggiato in una sfolgorante armatura d'oro, giunse finalmente in cima alla montagna di vetro, poi scese da cavallo, fece un profondo inchino davanti alla principessa, e dalla sua mano ricevette la mela d'oro. A questo punto, crederete forse che il nostro eroe sia rimasto sulla vetta insieme alla bella principessa? No, perché esattamente come le altre volte, egli girò i tacchi, ridiscese, e volò via nella foresta, veloce come il vento. Ciò nonostante, un tripudio di gioia si era elevato dalla folla accorsa anche quel giorno; corni e trombe risuonarono per festeggiare la riuscita dell'impresa, allorché, con grande gaudio, il re proclamò lo sconosciuto cavaliere in armatura d'oro, vincitore della gara. Ora restava sola da scoprire chi fosse il misterioso cavaliere d'oro, perché nessuno nel regno lo conosceva. Per giorni e giorni sperarono che prima o poi egli si presentasse da solo a corte, ma sfortunatamente ciò non accadde. A lungo andare, la sua assenza cominciò a innervosire e a sovreccitare il popolo, mentre la principessa stava in ansia giorno dopo giorno, e impallidiva sempre di più. Il re, impaziente, cominciò ad irritarsi seriamente per la faccenda, mentre i pretendenti mormoravano pettegolezzi.
Quando sembrò che non ci fosse altro da fare, il re fece annunciare una grande assemblea al palazzo, e ogni uomo, che fosse di alto o basso lignaggio, doveva presentarsi, affinché la principessa potesse scegliere fra loro. Nessun uomo del regno esitò a presentarsi, così quel giorno ci fu una grande folla. Quando furono tutti riuniti, la principessa uscì dalla reggia con gran fasto e insieme alle sue damigelle andò in giro fra la folla. Ma sebbene cercasse ovunque, non trovava colui che cercava. Finalmente, scorse tra la folla un uomo con un gran cappello un ampio mantello grigio, alla maniera dei pastori, con il cappuccio che gli copriva interamente il volto. Ma la principessa, che lo riconobbe lo stesso, si precipitò verso di lui, gli sfilò dal volto il cappuccio, lo abbracciò e gridò, eccitata: "E' lui, è lui!" Allora la folla scoppiò in una fragorosa risata, perché era soltanto il pastorello del re; anche il re lo riconobbe, ed esclamò, in un modo non troppo allegro: "Oh Santo Cielo, tu guarda che razza di genero mi tocca!" Ma il giovane principe, avvicinatosi al re, disse: "Maestà, non datevi pena per questo, e tranquillizzatevi, poiché vostra figlia sta per sposare un uomo alla sua altezza: perché dovete sapere che in realtà io sono figlio di re." Così dicendo, si tolse il mantello, e in quell'istante, la stessa moltitudine che poco prima aveva riso di lui, ora taceva, poiché in quell'istante essi riconobbero nel giovane pastore il valoro cavaliere in armatura d'oro, che quel giorno aveva compiuto l'impresa, salendo sulla vetta della montagna di vetro, e che aveva preso la mela d'oro dalle stesse mani della principessa. E così, in tutta la sala fu un'esplosione di ammirazione e di gioia, come mai prima d'allora era successo. Il principe prese la sua amata tra le braccia, e le raccontò tutto del suo passato e della sua famiglia. Il re diede subito il via ai preparativi delle nozze, alle quali fu invitata tutta la gente del regno, compresi i pretendenti che la principessa aveva avuto fino allora. Le nozze furono celebrate con grande fasto, e fu dato un glorioso banchetto. E così, ecco come il principe aveva conquistato la bella principessa e metà del regno del padre di lei, e dopo i primi sette giorni dei festeggiamenti, il principe prese con sé la sua sposa e con lei tornò al palazzo di suo padre, dove entrambi piansero di gioia e di commozione per aver ritrovato il loro figlio che credevano perduto per sempre. Il principe e sua moglie vissero a lungo felici e contenti, ma nessuno seppe più nulla del buon nanetto.
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In un reame lontano di un paese lontano viveva un noto mercante che aveva un figlio: Ivan. Il mercante caricò le sue navi, affidò casa e bottega alla moglie e al figlio e partì per un lungo viaggio. Trascorse sui mari un mese, due, tre, visitò terre straniere, acquistò merci d'oltremare e fece buoni affari vendendo le proprie.
Nel frattempo una grossa disgrazia si era abbattuta su Ivan, figlio del mercante; tutti i mercanti e i borghesi si erano accaniti contro di lui: "Perchè egli è così fortunato? Ci ha tolto tutto il nostro commercio!" Si riunirono tutti in gruppo e scrissero una dichiarazione in cui sostenevano che il figlio del mercante tal dei tali, ladro e fannullone non più degno di far parte della loro corporazione e quindi essi lo condannavano a fare il soldato. Gli rasarono i capelli a lo spedirono al reggimento. Ivan prestò servizio, patì ogni sorta di stenti e non per un anno, ma per dieci; a un certo punto ebbe voglia di tornare a casa, chiese un congedo, ebbe un permesso di sei mesi e si mise in cammino. Il padre e la madre si rallegrarono assai; egli passò da loro tutto il tempo, finché venne il momento di tornare indietro. Il mercante allora lo prese, lo condusse nei sotterranei profondi pieni d'oro e d'argento e gli disse: "Su, figlio mio, prenditi pure il denaro che ti serve!" Ivan, figlio del mercante si riempì le tasche, ricevette dal padre e dalla madre la benedizione eterna, inviolabile, si accomiatò dai parenti e partì per il reggimento; il padre gli aveva anche comprato un ottimo cavallo! A causa della separazione, il buon giovine fu assalito da una grande tristezza; lungo la strada vide un'osteria ed entrò a bere per scacciare 1'angoscia: bevve mezzo litro di vodka ma gli parve poco, ne bevve un altro mezzo litro, si ubriacò e crollò addormentato. Ed ecco che spuntarono degli sfaccendati frequentatori dell'osteria che gli rubarono i soldi, tutti quanti, fino all'ultima copeca.
Ivan figlio del mercante si svegliò, fece per prendere il denaro, ma non aveva più un soldo; afflitto, si rimise in cammino. La cupa notte lo sorprese in un luogo deserto; proseguì ancora e ancora, finché vide una locanda; vicino alla locanda c'era un cartello, sul cartello una scritta: chi vuole passare qui la notte deve pagare cento rubli. Che fare? Non poteva certo morire di fame; bussò alla porta, uscì un ragazzino, lo accompagnò in camera e portò il cavallo nella scuderia. Alla locanda gli diedero tutto quello che potesse desiderare; mangiò, bevve a sazietà, poi si sedette e divenne pensieroso. "Perchè, soldato, sei così pensieroso?" gli chiese il padrone: "Forse non hai i soldi per pagare?" "Non è questo, padrone! E che io qui sono ben nutrito, mentre il mio buon cavallo se ne sta là.." "No, soldato! Vieni pure a vedere, esso ha fieno e avena a volontà." "Non è questo il punto. I nostri cavalli sono abituati in un certo modo: se io gli sto vicino, mangia, ma senza di me non tocca nulla." Il locandiere corse alla scuderia, guardò, era proprio così: il cavallo stava lì con la testa bassa, ma 1'avena non la guardava neanche. "Che cavallo intelligente! Conosce il suo padrone" pensò il locandiere e ordinò che preparassero il letto per il soldato nella scuderia. Ivan figlio del mercante si sdraiò lì a dormire, ma a mezzanotte in punto, quando tutti dormivano, si alzò, sellò il cavallo e galoppò via. La sera del giorno seguente arrivò a una locanda dove prendevano duecento rubli a notte; riuscì a farla franca anche lì. Il terzo giorno arrivò a una locanda ancor migliore delle prime due; c'era un cartello con la scritta: chi vuol passare 1a notte qui, deve pagare trecento rubli. ' Beh, ' pensò ' vada come vada, tenterò la fortuna anche qui! ' Entrò, mangiò e bevve abbondantemente, poi si sedette e rimase pensieroso. "Perchè, soldato, sei così pensieroso? Forse non hai i soldi per pagare?" chiese il padrone. "No, non è questo! E che io sono qui ben nutrito, mentre il mio buon cavallo se ne sta là.." "Ma come puoi pensare... Io gli ho dato fieno e avena in abbondanza." "Sì, ma i nostri cavalli sono abituati in un certo modo: se io gli sto vicino, mangia, ma senza di me non tocca nulla." "Quand'è così, vai pure a dormire nella scuderia!" Ma quel locandiere aveva una moglie maga, essa andò a guardare nei suoi libri e venne subito a sapere che il soldato non aveva una copeca; mise due lavoranti alla porta e ordinò loro severamente di sorvegliare che il soldato non se la svignasse. A mezzanotte in punto Ivan figlio del mercante si alzò e si preparò a tagliare la corda, guardò e vide i lavoranti che facevano la guardia; si sdraiò e si addormentò. Quando si svegliò era già l'alba, sellò alla svelta il cavallo, ci montò sopra e si preparò a lasciare il cortile. "Ferma!" gli intimarono le guardie. "Non hai ancora pagato il conto al padrone! Sgancia i soldi!" "Ma che soldi? Andate al diavolo!" rispose Ivan e tentò di galoppare via; ma quelli là lo agguantarono e lo bastonarono sulle gambe. Sollevarono un tal baccano che tutta la casa corse fuori. "Dategliele, ragazzi, di santa ragione!" disse il padrone "Ora basta!" aggiunse dopo un pò "Lasciatelo vivo, lavorerà da noi per tre anni e così si guadagnerà i trecento rubli."
Non c'era niente da fare, Ivan figlio del mercante dovette fermarsi alla locanda; passa un giorno, due, tre. Il padrone gli chiese: "Dì un pò, signor soldato, sei capace tu di sparare?" "Altrochè! Non ci insegnano altro, al reggimento!" "Beh, allora và a sparare alla selvaggina; dalle nostre parti si trova ogni specie di fiere e di uccelli." Ivan figlio del mercante prese i1 fucile e andò a caccia; vagabondò a lungo nel bosco, ma non gli capitò nessuna preda, solo verso sera vide una lepre sul ciglio del bosco, prese la mira, ma quella era già sparita. Il cacciatore provò a inseguirla e capitò in un grande prato verde sul quale si ergeva un magnifico palazzo, tutto di marmo bianco, coperto da un tetto d'oro. La lepre saltò nel palazzo e Ivan dietro; guardò da una parte e dall'altra, ma della lepre non c'era più traccia. ' Beh, darò un'occhiata al palazzo! ', pensò Ivan. Entrò; girò dappertutto: tutte le stanze erano arredate in maniera così sontuosa che è impossibile immaginare o indovinare, solo nelle fiabe raccontare; in una stanza c'era una tavola apparecchiata con antipasti vari, vini e ricche posate. Ivan figlio del mercante bevve un bicchierino da ogni bottiglia, prese un bocconcino da ogni piatto e, quando fu sazio, si sedette comodamente. D'improvviso arrivò una carrozza, scese una principessa; era tutta nera, anche i servi erano neri e i cavalli corvini. Ivan si ricordò della disciplina militare, scattò in piedi e si mise sull'attenti accanto alla porta; appena la principessa entrò in camera egli fece il saluto militare. "Salve, soldato!" lo salutò la principessa. "Come mai sei qui, per volontà tua o per volontà altrui? Vai cercando l'avventura o vai sfuggendo la sventura? Siediti qui accanto che abbiamo da dirci tanto." E poi gli chiese: "Potresti rendermi un grande servigio? Se me lo renderai, ne avrai grande felicità! Dicono che i soldati russi non abbiano paura di nulla; il fatto è che questo palazzo è posseduto dagli spiriti maligni.." "Maestà, sarò felice di servirvi fino all'ultima goccia del mio sangue." "Allora ascolta: fino a mezzanotte canta e balla come ti pare, ma appena scoccherà la mezzanotte vai a coricarti nel letto appeso alle cinghie che si trova in mezzo alla grande sala e qualunque cosa ti accada intorno o qualunque cosa ti capiti di vedere, rimani sdraiato in silenzio." Così disse la principessa, lo salutò e se ne andò;
Ivan figlio del mercante si mise a bere e a spassarsela, ma appena scoccò la mezzanotte si sdraiò nel posto indicato. Di colpo si scatenò la tempesta, echeggiarono scoppi e tuoni, i muri sembravano voler crollare da un momento all'altro e sprofondare all'inferno; nella stanza fecero irruzione mille diavoli che si misero a urlare, strepitare, a scatenarsi nelle danze e appena videro l'ospite cominciarono a inveire contro di lui in tutti i modi. Da qualunque parte si girasse, saltava fuori il suo sergente maggiore che gli gridava: "Ehi, Ivan figlio del mercante! Cosa credevi? Lo sappiamo che sei un disertore! Vattene al piu presto, altrimenti sarà peggio per te".Dietro i1 sergente maggiore arrivava di corsa il comandante della compagnia, dietro di lui il comandante di battaglione, dietro ancora quello del reggimento: "Che ci fai qui, vigliacco? È chiaro che volevi squagliartela dai ranghi! Su, portatemi le verghe fresche!" I diavoli si diedero da fare e trascinarono in gran fretta montagne intere di verghe, ma Ivan figlio del mercante non faceva una piega, restava sdraiato in silenzio. "Ah, farabutto!" esclamò il comandante del reggimento. "Se le verghe non gli fanno paura, deve aver visto ben altro, durante il servizio! Mandatemi subito un plotone di soldati con i fucili carichi, bisogna sparare a questa canaglia!" Apparve un plotone di soldati, come spuntato da terra; risuonò l'ordine, i soldati presero la mira e stavano già per sparare, quando il gallo si mise a cantare e tutto scomparve in un baleno: soldati, comandanti, verghe.
Il giorno seguente arrivò a palazzo la principessa; era già diventata bianca dalla testa al petto e, insieme a lei, i servi e i cavalli. "Grazie, soldato!" disse la principessa. "Hai visto cose terribili, ma ne vedrai di peggiori. Resisti, per favore, altre due notti e io ti renderò felice." Mangiarono, bevvero, si divertirono; poi la principessa se ne andò e Ivan figlio del mercante si sdraiò al solito posto. A mezzanotte si scatenò di nuovo la tempesta, scoppi, tuoni; arrivarono urlando i diavoli, si scatenarono nelle loro danze. "Ehi, fratelli, quel soldato è ancora qua!" gridò un piccolo diavolo zoppo e con un occhio solo "guardate come se ne sta lì stravaccato! Vorresti, per caso, cacciarci di casa? Ora vado a dirlo al nonnino." Ma ci pensò il nonnino stesso a chiamarli, ordinò ai suoi servi di portare un'intera fucina e di arroventare le mazze di ferro: "Ecco, con quelle mazze entrategli fin nelle ossa, cosicchè impari cosa vuol dire andare in casa altrui!" I diavoli però non fecero in tempo ad allestire la fucina che i galli si misero a cantare e tutto scomparve in un baleno.
Il terzo giorno la principessa arrivò a palazzo, Ivan la guardò e rimase di stucco: sia lei che i servi e i cavalli erano diventati bianchi fino alle ginocchia. "Grazie soldato, per il leale servigio che mi hai reso; il Signore ti ricompenserà" "Per ora sono sano e salvo, Maestà!" "Beh, cerca di farcela anche l'ultima notte; eccoti un pellicciotto, indossalo, altrimenti i diavoli ti graffieranno con le unghie... Questa volta saranno terribilmente cattivi!" Si sedettero poi insieme a tavola, mangiarono, bevvero, si divertirono; quindi la principessa salutò e andò via, mentre Ivan figlio del mercante si mise addosso il pellicciotto, si fece il segno della croce e si sdraiò al suo solito posto. Scoccò la mezzanotte, si scatenò la tempesta, scoppi, tuoni, tutto il palazzo tremò; arrivarono di corsa i diavoli, una quantità indescrivibile e ce n'erano di tutti i tipi: zoppi, storti e quant'altri. Si scagliarono contro Ivan figlio del mercante: "Prendete il vigliacco! Acciuffatelo, trascinatelo!" E giù a graffiarlo con le unghie: uno lo afferrava, l'altro lo tirava, ma le unghie non attraversavano mai il pellicciotto! "No, fratelli! Con lui non c'è niente da fare; prendiamo piuttosto suo padre e sua madre e scortichiamoli vivi!" In quello stesso istante trascinarono due tipi identici ai genitori di Ivan e si misero a graffiarli con le unghie; quelli piangevano: "Ivan, figliolo caro! Abbi pietà, togliti di lì; per colpa tua ci scorticheranno vivi". Ma Ivan figlio del mercante, restava sdraiato, senza muoversi, senza dir nulla. A quel punto cantarono i galli e tutto svanì di colpo, come non ci fosse mai stato.
Al mattino arrivò la principessa: i cavalli erano tutti bianchi, così i servi e lei stessa era tutta bianca a cosi bella che è impossibile immaginare qualcosa di più bello: si vedeva scorrere il midollo da un ossicino all'altro. "Ne hai visti di orrori," disse la principessa a Ivan "ma ora è tutto finito. Grazie per il tuo servigio ed ora andiamocene di qua." "No, principessa!" rispose Ivan figlio del mercante "dobbiamo prima riposarci un paio d'ore." "Ma che dici! Se ti riposi, sarai perduto". Uscirono dal palazzo e si misero in cammino. Allontanatisi un pò, la principessa disse: "Buon giovine, guarda un pò cos'è successo dietro!" Ivan guardò e del palazzo non c'era più traccia, era sprofondato sotto terra e, al suo posto, bruciava una fiamma. "Così saremmo sprofondati anche noi, se avessimo indugiato!" disse la principessa e gli diede un borsellino. "Tieni! Questo non è un borsellino qualunque, quando avrai bisogno di soldi, basterà che tu la agiti e subito scenderanno tutte le monete che vorrai. Ora vai, paga il conto a1 locandiere a poi raggiungimi nell'isola tal dei tali, ti aspetterò in chiesa. Assisteremo alla funzione e ci sposeremo: tu sarai mio marito e io tua moglie. Ma bada di non arrivare in ritardo; se non arriverai oggi, ti aspetterò domani, se non domani ti aspetterò il terzo giorno, ma se mancherai al terzo, non mi vedrai più." E così si lasciarono; la principessa andò da una parte e Ivan figlio del mercante dall' altra.
Arrivò alla locanda, agitò il suo borsellino davanti al padrone e, da lì, cominciò a scendere oro: "Ebbene, fratello? Tu pensavi: il soldato non ha soldi, e così posso sfruttarlo per tre anni; e invece ti sei sbagliato! Fai il conto di quello che ti devo!" Gli diede trecento rubli, poi montò a cavallo e partì per il luogo che gli era stato indicato. ' Che prodigio è mai questo? Dove ha preso tutti quei soldi? ' pensò la locandiera; corse a guardare i suoi libri magici e vide che egli aveva liberato la principessa stregata e che lei gli aveva regalato il borsellino dove c'erano sempre soldi. Chiamò immediatamente un garzone, lo mandò nel campo a pascolare le mucche e gli diede una mela stregata: "Verrà un soldato, ti chiederà da bere; tu digli: «di acqua non ce n'è, ma eccoti una mela succosa!»
Il garzone portò le mucche al pascolo; era appena arrivato sul posto, quando gli si avvicinò Ivan figlio del mercante: "Ehi, fratello, disse, non avresti un pò d'acqua? Ho una sete terribile!" "No, soldato, da queste parti non c'è acqua; però ho una mela succosa, se la vuoi, prendila, ti rinfrescherà!" Ivan figlio del mercante prese la mela, la mangiò e cadde in un sonno profondo; dormì per tre giorni di seguito. Invano la principessa lo aspettò quei tre giorni: "Si vede che non sono destinata a diventare sua moglie!" Sospirò, salì in carrozza e partì; vide un garzone che pascolava le mucche: "Pastorello, pastorello, non hai visto, per caso, un buon giovine, un soldato russo?" "Si, è lì che dorme da tre giorni sotto la quercia." La principessa guardò e vide che era proprio lui. Si mise a scuoterlo, cercò di svegliarlo, ma per quanto facesse, non riuscì a destarlo. Prese allora un foglio di carta, una matita e scrisse questo messaggio: «Se non andrai al tal traghetto, non raggiungerai mai l'ultimo dei reami e non potrai più diventare mio marito!». Gli mise in tasca il biglietto, lo baciò mentre dormiva, pianse lacrime amare e se ne andò lontano lontano; sparì così com'era comparsa.
Ivan si svegliò la sera tardi e non sapeva che fare. Il ragazzo cominciò a raccontare: "Èstata qua una bella fanciulla, tutta elegante. Ha cercato in tutti i modi di svegliarti, ma non ci è riuscita, allora ti ha scritto un biglietto e te lo ha messo in tasca; poi è salita in carrozza ed è sparita." Ivan figlio del mercante pregò Iddio, s'inchinò ai quattro angoli e galoppò verso il traghetto. Galoppa, galoppa, arrivò al traghetto e gridò ai barcaioli: "Ehi, fratelli! Traghettatemi dall'altra parte il più presto possibile; vi pago anticipato!" Tirò fuori il borsellino, cominciò a scuoterlo e riempì tutta la barca di monete d'oro. I barcaioli rimasero esterrefatti! "Dove devi andare, soldato?" "Nell'ultimo dei reami." "Beh, fratello, se prendi la strada curva ci impieghi tre anni, se prendi la strada diritta, tre ore; solo che un passaggio diritto non c'è!" "Cosa devo fare allora?" "Il nostro consiglio è questo: di solito passa di quà l'Uccello Grifone, grande come una montagna, prende le carogne che ci sono e le porta sull'altra riva. Allora tu taglia la pancia al tuo cavallo, puliscila, lavala e noi, poi, ti cuciamo dentro. L'Uccello Grifone prenderà la carogna, la porterà nell'ultimo dei reami e la butterà ai suoi figli; tu, a quel punto, uscirai dalla pancia del cavallo e te ne andrai dove vorrai." Ivan figlio del mercante tagliò la testa al suo cavallo, gli aprì la pancia, la pulì e ci si infilò; i barcaioli la ricucirono e poi andarono a nascondersi. Improvvisamente arrivò l'Uccello Grifone, grande come una montagna, afferrò la carogna, la trasportò nell'ultimo dei reami e la gettò ai suoi figli, poi volò via a cercare altre prede.
Ivan scucì la pancia del cavallo, sgusciò fuori e andò dal re a offrirgli i suoi servigi. Ora, in quel reame, l'Uccello Grifone procurava molti guai, ogni santo giorno bisognava offrirgli un uomo da mangiare, tanto che alla fine il regno si era quasi spopolato. Pensa e ripensa, il re non sapeva come sistemare quello straniero. Alla fine ordinò che fosse offerto, come cibo, all'uccello cattivo. Le guardie del re lo presero e lo condussero in giardino, lo sistemarono accanto a un melo e gli dissero: "Fai la guardia a che non sparisca una sola mela!" Ivan figlio del mercante rimase lì a far la guardia; improvvisamente arrivò l'Uccello Grifone, grande come una montagna. "Salve, buon giovine! Non sapevo che c'eri anche tu dentro la pancia del cavallo, altrimenti ti avrei già mangiato da un pezzo." "Lo sa Iddio se mi avresti mangiato oppure no!" L'uccello spalancò il becco cosicchè la parte inferiore toccò terra e l'altra toccò il tetto e si preparò a mangiare il buon giovine. Ivan figlio del mercante prese la baionetta e inchiodò pesantemente all'umida terra la parte inferiore, poi prese l'accetta e cominciò a colpire l'Uccello Grifone dove capitava. "Oh, buon giovine," disse l'Uccello, "non colpirmi, io ti far diventare un eroe, prendi la boccetta che è sotto la mia ala sinistra, bevi quello che c'è dentro e vedrai!" Ivan figlio del mercante prese la boccetta, bevve, sentì crescere in sè una grande forza e si scagliò contro l'uccello con impeto ancora maggiore: giù botte da orbi! "Ah, buon giovine, non colpirmi; ti darò un'altra boccetta miracolosa, quella sotto l'ala destra." Ivan figlio del mercante bevve anche l'altra boccetta, sentì in sè una forza ancora maggiore e non smetteva mai di menar colpi. "Ah, buon giovine, non colpirmi, io ti porterò fortuna: ci sono in un posto dei prati verdi, su quei prati crescono tre alte querce, sotto quelle querce ci sono delle porte di ghisa, dietro quelle porte ci sono tre valorosi cavalli; verrà il momento in cui ti saranno utili!" Ivan figlio del mercante ascoltò l'uccello, però non smise di colpirlo; finì che lo fece in mille pezzi e li riunì in un gran mucchio.
Al mattino il re fece chiamare il generale di guardia e gli disse: "Và e ordina di raccogliere le ossa di Ivan figlio del mercante; sebbene si tratti di uno straniero, non è bello lasciare sparse senza sepoltura, delle ossa umane!" Il generate di guardia corse in giardino, guardò e vide che Ivan era vivo, mentre l'Uccello Grifone era ridotto in mille pezzi; riferì tutto quanto al re. Il re se ne rallegrò assai, lodò Ivan e gli diede una lettera scritta di suo pugno, con la quale gli dava il permesso di girare liberamente per tutto il regno, di mangiare e bere gratuitamente in tutte le locande e le osterie. Quando ebbe in mano questo permesso Ivan figlio del mercante si recò nella più ricca delle locande, si scolò tre catini di vino, divorò tre pagnotte, mezzo bue, poi tornò alla scuderia del re e si coricò. Visse lì, nella scuderia per tre anni di fila; poi comparve la principessa, che aveva preso la strada curva. Il padre, felice,le chiese: "Chi ti ha salvato da un amaro destino, figlia mia amata?" "È stato un soldato, figlio di mercanti." "Ma è venuto qua e mi ha reso anche un grande servigio, ha ucciso l'Uccello Grifone!"
Perchè farla tanto lunga? Ivan figlio del mercante sposò la principessa,
diedero un gran banchetto;
se ne stettero, se la godettero
e a me nulla dettero.
Ma poco dopo arrivò al re una lettera del drago a tre teste che diceva: «Se non mi darai tua figlia, brucerò tutto il tuo regno e ne spargerò le ceneri.» Il re s'intristì, ma Ivan figlio del mercante andò a scolarsi tre catini di vino, a mangiarsi tre pagnotte, mezzo bue, poi corse ai verdi prati, sollevò la porta di ghisa, tirò fuori un cavallo valoroso, cinse la spada tagliente, prese la mazza da combattimento, montò sul cavallo e partì per la battaglia. "Ehi, buon giovine," disse il drago, "cosa ti credi? Io ti prendo su una mano, ti schiaccio con l'altra e di te non rimarrà che un'umida polpetta!" "Non vantarti, raccomandati piuttosto a Dio!" rispose Ivan; agitò la spada tagliente e, in un solo colpo, gli tranciò tutte e tre le teste. Poi vinse il drago a sei teste e poi anche quello a dodici teste e per la sua forza e il suo valore divenne celebre su tutta la terra.
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Non si può immaginare dove arriva alta la luce del Signore! In essa vivono ricchi e poveri, e tutti comodamente, e tutti loro premia e provvede il Signore. Vivono i ricchi sfarzosi e festeggiano, vivono i poveracci e faticano, a ciascuno la sua sorte!
Nei palazzi reali, nelle lussuose stanze principesche, in un'alta torre viveva la principessa-triste. Come le si offriva bella la vita, con quanta libertà e lusso! Aveva tutto, proprio tutto ciò che si può desiderare, ma non sorrideva mai, non si divertiva mai e letteralmente niente riusciva a rallegrarle il cuore. Lo Zar suo padre con grande amarezza vedeva la figlia sempre triste. Così aprì il suo palazzo a tutti coloro che volevano essere suoi ospiti : "Che tutti tentino di rallegrare mia figlia! Chi ci riuscirà l'avrà in moglie!" Non appena disse queste parole, come si affollò la popolazione alle porte reali! Venivano da tutte le parti, principi e marchesi, nobili e boiari, ufficiali e plebei; cominciarono banchetti, scorreva il miele, tuttavia la principessa non rideva.
In un'altra parte viveva nel suo cantuccio un onesto bracciante; al mattino puliva il cortile, la sera pascolava il bestiame, in un lavoro continuo e senza fine. Il suo padrone era un uomo ricco e giusto, e non lo frodava sulla paga. Non appena iniziò l'anno, gli mise un sacchetto di denaro sulla tavola: "Prendine quanto vuoi!" gli disse. Poi andò alla porta e uscì. Il contadino si avvicinò al tavolo e pensò: ' È peccato davanti a Dio, prendere più di quello che si è meritato col lavoro. ' Così prese soltanto una piccola moneta, la strinse in mano e gli venne desiderio di bere un pò d'acqua, si chinò sul pozzo, ma il soldino gli scivolò e s'inabissò sul fondo. Rimase così senza sua colpa un contadino povero. Un altro al suo posto si sarebbe messo a piangere, affliggendosi e per la stizza avrebbe incrociato le braccia e non avrebbe più voluto saperne di lavorare, ma lui no. "Ogni cosa è mandata da Dio" disse, "il Signore sa a chi dare e a chi no: a chi ricoprire d'oro e a chi togliere anche l'ultimo soldino. Evidentemente, io mi sono mal adoperato, ho lavorato poco, adesso sarò più volenteroso!" E di nuovo si mise al lavoro e in ogni cosa aveva il fuoco nelle mani!
Passò un altro anno ed il padrone gli mise un sacchetto di denaro sul tavolo: "Prendine quanto ne vuoi!" disse, si avvicinò all'uscio e se ne andò. Il contadino di nuovo pensò, per non dispiacere il Signore, di non prendere più di quello che si era meritato col suo lavoro; prese una piccola moneta, andò a bere e casualmente gli sfuggì dalla mano: il soldino cadde nuovamente nel pozzo. Egli si mise al lavoro con ancor più accanimento: la notte dormiva pochissimo, il giorno quasi non mangiava. Ma guarda: mentre il suo pane si faceva duro e rinsecchito, per il suo padrone tutto era fatto al meglio; mentre il maiale altrui piegava le zampe, il suo scalciava per la strada; i buoi dei vicini si trascinavano sotto il giogo, mentre i suoi a stento si trattenevano con le redini! Il padrone si chiese a chi esprimere gratitudine, a chi dire grazie. Terminò la stagione e passò il terzo anno, egli mise un gran mucchio di soldi sul tavolo e disse: "Prendi, mio fedele servitore, quanto desideri: tuo è stato il lavoro e tuoi sono i soldi!" E uscì. Il contadino prese nuovamente una piccola moneta, andò al pozzo per prendere l'acqua e - guarda! - l'ultima moneta del suo lavoro e le prime due vennero a galla: le raccolse e immaginò che Dio l'aveva voluto premiare per il suo lavoro. Si rallegrò e pensò ' È tempo per me di cambiare vita, di conoscere altre persone '. Ci pensò su e cominciò a camminare là dove lo portavano le gambe.
Passò per un campo e vide un topo che correva: "Salute, caro compare!" disse il topo "Dammi una moneta, io stesso ti sarò utile!" Il contadino gli diede la moneta. Passò poi per un bosco e gli venne accanto uno scarabeo. "Salute, caro compare!" disse lo scarabeo "Dammi una moneta, vedrai che ti sarò utile" Diede anche a lui una moneta. Attraversò poi a nuoto un fiume e si imbatté in un pesce-siluro. "Dammi una moneta" disse il pesce "vedrai che ti sarò utile!" Anche a lui non disse di no e gli diede la sua ultima moneta.
Arrivò così in città; quanta gente e che palazzi! Si guardò intorno, si girò da tutte le parti, ma non sapeva dove andare. Davanti a lui ci sono i palazzi dello Zar, adornati d'oro e d'argento, e la principessa-triste siede alla finestra e guarda verso di lui. Che fare? Gli si annebbiarono gli occhi e gli venne un sonno improvviso e cadde lungo lungo nel fango. All'improvviso, non si sa da dove, arrivarono il pesce-siluro con una pertica, lo scarabeo ed il topolino. E subito si prendono cura del contadino: il topolino prende il vestito, lo scarabeo pulisce gli stivali ed il pesce-siluro allontana le mosche. e vedendo tutte queste manovre anche la principessa-triste si mise a ridere. "Chi è che è riuscito a rallegrare mia figlia?" chiese lo Zar. E subito si sente un coro: "Io, io" dicono tutti. "Eh no!" disse la principessa-triste: "È stato lui!" ed indicò il contadino. Immediatamente lo portarono dentro il palazzo ed il contadino, di fronte allo Zar, divenne subito un bellissimo giovine. Lo Zar mantenne la sua parola: quello che si promette si deve mantenere!
Io mi chiedo: non è che il contadino nel sonno si è sognato tutto? Dicono di no, che questa è la pura verità, e bisogna crederci.
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e porfirie sono un gruppo di malattie rare, per la maggior parte ereditarie, dovute ad un'alterazione dell'attività di uno degli enzimi che sintetizzano il gruppo EME nel sangue. Gli enzimi che sintetizzano il gruppo EME sono: ALA-Sintetasi, Uro–Decarbossilasi, ALA-Deidratasi, Copro-Ossidasi, PBG-deaminasi, Proto-Ossidasi, Uro III-Cosintetasi, Ferrochelatasi. La porfiria è causata da una mancanza di ALA-Deidratasi.
La diagnosi viene effettuata con uno scrupoloso esame delle porfirine nel sangue, nelle urine e nelle feci. Per la precisa analisi del tipo di porfiria si ricorre ad esami più specifici come la valutazione dell'attività dei singoli enzimi nel sangue, anche se non tutti i saggi per ogni enzima sono disponibili. L'analisi genetica permette di confermare la diagnosi con sicurezza. La diagnosi delle fasi acute si effettua attraverso il dosaggio di ALA (acido delta-aminolevulinico) e di PBG (porfobilinogeno) nelle urine.
Tipi di porfirie e sintomiI diversi tipi di porfirie si possono dividere in due gruppi: Porfirie acute e Porfirie non acute (altra classificazione è la divisione in epatiche e eritropoietica).
Porfirie acute- deficit di ALA-Deidrasi (epatica)
- porfiria acuta intermittente (epatica)
- coproporfiria ereditaria (epatica)
- porfiria variegata (epatica)
Le porfirie acute sono accomunate dall'avere una sintomatologia neurologica anche se la porfiria variegata e la coproporfiria ereditaria possono causare sintomi cutanei. Le Porfirie acute sono causate dall'assunzione di sostanze, da variazioni ormonali o condizioni nutrizionali particolari. Se si riesce a controllare l'assunzione dell'agente che risulta tossico, la malattia rimane nel 90% dei casi allo stato di latenza.
La sostanza tossica scatenante solitamente è un farmaco, anche se a volte possono essere gli ormoni stessi dell'organismo specialmente nelle donne dopo la pubertà. Altre cause responsabili possono essere: infezioni, diete povere di zuccheri, e, secondo alcuni, alcool e fumo. I sintomi più frequenti delle porfirie acute sono: dolori addominali, febbre, leucocitosi (eccesso di globuli bianchi), vomito, stitichezza, tachicardia e ipertensione labile, ritenzione urinaria, sudorazione abbondante, riflessi tendinei profondi diminuiti, carenza di sodio nel sangue (iponatriemia), perdita della sensibilità (iperestesie e parestesie), instabilità emotiva, tetania; nei casi più gravi: coma, paralisi, atrofia del nervo ottico, allucinazioni e disturbi comportamentali, paralisi respiratoria.
Porfirie croniche- Porfiria eritropoietica congenita (eritropoietica) o Morbo di Gunther (CEP) - È molto rara; causa anemia emolitica (distruzione dei globuli rossi) e fotosensibilità: i sintomi sono presenti fin dalla nascita. Le urine sono rosso scuro, per la grande quantità di porfirine eliminate. Particolare di questa malattia è l'eritrodonzia: illuminando i denti con luce ultravioletta questi sono rosso fluorescente. La fluorescenza è dovuta alle porfirine che si depositano nel fosfato di calcio dei denti
- Porfiria cutanea tarda (epatica) (PCT) - La Porfiria Cutanea Tarda è la più frequente. Compare generalmente intorno ai 30-40 anni, quasi mai si riscontra nell'infanzia. Come dice il nome stesso, questo tipo di porfiria presenta effetti cutanei presenti nelle zone esposte al sole che consiste in fragilità cutanea con formazione di bolle, erosioni che si trasformano in croste e cisti. Le persone affette da PCT tendono ad avere problemi epatici più facilmente della media, soprattutto in conseguenza all'eccessiva assunzione di alcool, al sovraccarico di ferro, all'infezione da virus, e qualche volta, a causa dell'assunzione di farmaci, soprattutto gli estrogeni.
- Porfiria epatoeritrocitaria (epatica)
- Porfirie eritropoietiche che sono:
- Porfiria Eritropoietica Congenita
- Protoporfiria Eritropoietica.
La Protoporfiria eritropoietica non è molto frequente. Compare durante i primi anni di vita. La sintomatologia è caratterizzata da bruciore, eritema ed edema delle zone esposte al sole, ispessimento della cute, soprattutto in corrispondenza del dorso delle mani e del naso. Spesso sono presenti problemi epatici dovuti alla stasi di protoporfirine nelle cellule del fegato e nei canalicoli biliari, con conseguente formazione di calcoli nella colecisti.
TerapieNei casi di porfiria acuta è importante la prevenzione: non somministrare farmaci che possano indurre la malattia ed instaurando una dieta ricca di zuccheri. Ci sono alcune terapie farmacologiche che sono in grado di contenere le crisi acute.
Per le porfirie non acute per i malati di Morbo di Gunther si cerca di effettuare il trapianto di midollo osseo o, in alternativa, trasfusioni. Nella Porfiria Cutanea Tarda la terapia iniziale deve essere concentrata all'allontanamento della sostanza tossica (virus, alcool, ferro, farmaci) ed alla protezione dal sole. In seguito, si può intervenire aumentando l'eliminazione di porfirine. Per la Protoporfiria la terapia consiste nella protezione dal sole attraverso creme schermanti e mediante b-carotene
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Isabel Allende in questo libro ci racconta la vita e la morte della figlia Paula,malata di porfiria.
Il coma di Paula è anche un modo per la madre di ripercorrere la sua vita,di raccontarle cose che di solito non si raccontano.
E' un libro dolce,toccante,imperdibile
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Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38