Messaggi del 04/01/2012

Maria D'Avalos

Post n°1536 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nella piazza San Domenico Maggiore in Napoli, in cui sorge il celebre palazzo di Raimondo Sangro dei Principi di Sansevero, dal 1590 l’urlo agghiacciante della splendida e sfortunata Maria d’Avalos, per secoli ha raggelato il quartiere. Da allora, nelle notti senza luna, la sua ombra evanescente pare riapparire muta, aggirandosi silenziosa, dolente, e l’incidere spettrale sembra riecheggiare i versi ispirati al Tasso dalla sua tragica vicenda: Piangete, o Grazie, e voi piangete, o Amori! La bella e irrequieta Maria. La tragica fine di Maria D’Avalos, detta la più bella signora di Napoli, e del cavaliere Fabrizio Carafa dei duchi di Andria, uomo di rara bellezza ed incontrastato valore, amanti forse consapevoli di andare incontro ad un destino già scritto, ha innescato nella storia una fiammeggiante potenza immaginativa che li ha resi immortali. Era 17 ottobre 1590 quando Maria e Fabrizio, in una delle stanze del palazzo S. Severo, rinnovavano l’eterno incantesimo dell’amore. Erano giovani, belli, innamorati. Erano felici, tra quelle mura discrete che celavano agli occhi del mondo l’estasi e la paura di una relazione adultera. Il desiderio, colpevole per quanti non conoscano le tempeste dei sentimenti, li aveva vinti, dimentichi degli obblighi, dimentichi di un marito: Carlo Gesualdo, principe di Venosa, legittimo consorte di Maria. Un uomo troppo orgoglioso per tollerare l’onta di un tradimento, troppo innamorato per invocare la giustizia della legge. A Napoli tutti erano a conoscenza della tresca tra la bella Maria e Fabrizio Carafa. La nobiltà sussurrava, il popolo commentava, con divertita indulgenza l’audacia dei clandestini amati. La passione tra i due cresceva ogni giorno di piu’, e presto anche la prudenza venne messa da parte. Fabrizio e Maria si amavano, contro tutto, malgrado tutto. Don Carlo per qualche tempo non vide o non volle vedere quel che gli succedeva intorno. Scriveva d’amore pensando alla sua donna, le dedicava malinconiche melodie, e chiudeva gli occhi su una verità troppo dura da accettare. Col tempo i mormorii della città si erano trasformati in un coro indignato: tutti vedevano, tutti sapevano, tutti parlavano. Solo Carlo continuava a starsene chiuso nel suo silenzio, meditando la tragedia. Finchè un giorno, informato in ogni particolare della relazione tra Maria e Fabrizio da un “premuroso” amico, pazzo di dolore e di gelosia, finse di partire per poi ritornare a notte fonda, forse nella segreta speranza di trovare, sola e casta, la donna che amava.

Ma spalancata la porta di casa, ogni illusione si infranse miseramente contro l’immagine dei due amanti perdutamente avvinti. L’ira e la disperazione, troppo a lungo represse, esplosero ferocemente. Si gettò su di loro brandendo un pugnale e li colpì ripetute volte, accecato dall’odio e dalla passione, fino ad ucciderli. Consumato l’atroce delitto, pazzo di dolore, sporco di sangue, Carlo camminò poi per ore lungo le vie del centro, piangendo disperato e fuggendo poi via. Quando il giorno dopo i Regi Consiglieri ed i Giudici Criminali della Gran Corte della Vicaria entrarono nella stanza trovarono Fabrizio Carafa morto a tre passi dal letto nel quale, insanguinato, c’era il cadavere di Maria. I corpi dei miseri amanti furono esposti la mattinata seguente in mezzo alle scale e tutta la città corse a vederli.
La tragica fine dei due amanti ci è giunta tramandata da diverse fonti. Di prima mano sono le scarne e lapidarie note di un osservatore esterno coevo, l’ambasciatore veneto a Napoli. L’atto giudiziario originale, allora denominato “informatione” prodotto dalla Gran Corte della Vicarìa, il tribunale napoletano di ultima istanza per materia criminale e civile, è andato perduto, ma sono state rinvenute numerose copie che hanno fornito il materiale da supporto per la leggenda e la letteratura successiva, e di queste due paiono essere le più attendibili. L’una, del tutto ignorata sinora, conservata nella Biblioteca Provinciale di Avellino, è tratta dall’Archivio della Casa Teora, in data imprecisata, ma (dalla calligrafia) probabilmente della seconda metà del Settecento: il lessico, l’ortografia, la punteggiatura, nonché alcune parole proprie della seconda metà del Cinquecento danno a questa informatione un carattere di fedeltà all’originale che non hanno le altre, numerose, conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli. L’altra informatione, meno ignorata, conservata nella Biblioteca Nazionale di Napoli, redatta nel 1682 in modo del tutto indipendente da un tale Onofrio Santavita, è una conferma indiretta della fedeltà all’originale della precedente.
Ma la veridicità documentaria di entrambe non significa attendibilità nella ricostruzione dei fatti, né tantomeno semplicemente scavo istruttorio di un qualche rilievo perché ai ministri della Gran Corte della Vicarìa, in forza delle prammatiche vigenti a quel tempo e per probabile disposizione del Vicerè, interessato alla salvaguardia dell’ordine pubblico, compromesso dalla morte e dallo scandalo che riguardava tre fra le prime dieci famiglie blasonate del Regno, interessava semplicemente procedere alla ricognizione della morte e del movente, ossia chiudere subito il caso, riconoscendo la legittimità della vendetta per adulterio, ritenuta, nella mentalità del tempo, un fatto tanto dovuto quanto del tutto privato. Ritenere, come ha fatto la letteratura postuma che la informatione dovesse ricostruire antefatti, retroscena, premeditazione, falsità o parzialità delle testimonianze, complicità plurime è semplicemente una proiezione antistorica del presente. La informatione della Vicarìa è, in definitiva, volutamente superficiale e monca come atto istruttorio, è più un atto notarile che l’avvio di un processo da parte dell’autorità vicereale. L’unico documento coevo ed originale resta dunque la comunicazione dell’ambasciatore veneto al senato, datato 19 ottobre del 1590, a due giorni del duplice omicidio: Don Carlo Gesualdo, figliolo del prencipe di Venosa, et nipote dello illustrissimo cardinale [Alfonso Gesualdo, decano del collegio cardinalizio], appostatamente salito martedì alle sei ore di notte con sicura compagnia alla stanza di donna Maria d’Avalos, moglie et cugina sua carnale, stimata la più bella signora di Napoli, ammazzò prima il signor Fabricio Caraffa [sic], duca d’Andria, che era con essa, et lei appresso, di questa maniera vendicando l’ingiuria ricevuta. Abbracciano queste tre principalissime famiglie quasi tutte le altre maggiori case del regno, et ognuno pare stordito per lo stupore di questo caso, et se ne sbigottì di molto all’avviso l’Illustrissimo signor Viceré che amava et stimava infinitamente il Duca come persona, che per natura et per studio era dotato di tutte le altre più belle et degne parti, et condizioni che si relevano in signor principale, et in valoroso cavaliere. Questi ministri
Stemma dei Carafa
con la corte sono stati alla casa, et fatte alcune inquisitioni, comandarono che fossero fermati, et custoditi nelle proprie case li famigliari di tutti gl’interessati sopra detti; ma fin qui non si sente altro.
Coloro che nei secoli successivi hanno ripreso il mito, non hanno potuto far altro che accelerare in forma impoverita il degrado, ammantando di macabro ai limiti della perversione il duplice omicidio: congiunti di Carlo o servitori che, respinti dalla seducente Maria, avrebbero istigato Carlo al delitto; sacerdoti che si sarebbero abbandonati ai loro più bassi istinti e che avrebbero addirittura abusato del cadavere ancora caldo della d’Avalos, Carlo Gesualdo che avrebbe ucciso in un secondo momento un secondo figlioletto, ritenuto a torto non suo, facendolo morire d’asfissia su un’altalena nel cortile del castello di Gesualdo; domenicani e gesuiti, mentori ed istigatori occulti mossi da cupidigia di danaro e di potere. Si racconta anche che il quadro di san Michele Arcangelo che si trova ai piedi di Posillipo, nella chiesa di Santa Maria del Parto, sopra l’altare della famiglia Carafa, fu fatto a somiglianza del ritratto dei due amanti, e che l’Arcangelo alato è ad immagine del duca di Andria, mentre il viso del Demonio, tormentato a rapirlo, è quello di Maria D’Avalos.
La tragica fine di Maria D’Avalos e Fabrizio Carafa, amanti forse consapevoli di andare incontro ad un destino già scritto, ha certo innescato nella storia una fiammeggiante potenza immaginativa che li ha resi immortali: la passione dirompente, il senso del rischio e la ribellione all’andante quotidiano della vita furono le scintille della loro esistenza.

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Eusapia Palladino

Post n°1535 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

alermo,estate del 1902


Siamo all’interno di una stanza,con un gruppo di docenti universitari della città.

Si sono radunati in quella stanza per esaminare una persona,che al momento è seduta su di una sedia,legata con delle corde.

E’ una prassi necessaria,perché gli studiosi devono accertare che quella persona,una donna,sia realmente in possesso di alcuni particolari poteri,che la gente magnifica e amplifica.

Si spegne la luce,ed all’improvviso uno dei docenti si sente sfilare la sedia da sotto;pochi istanti ancora,e la sedia inizia ad andare via come spinta da una forza misteriosa.

Si riaccendono le luci,e la sedia viene ritrovata al centro della stanza;pochi attimi,la lucev iene spenta,e la sedia ritorna misteriosamente al suo posto,mentre lo studioso che vi era seduto precedentemente,viene tirato per la giacca e invitato rudemente a sedersi.

Seduta spiritica con la Palladino (dal libro “Ricerche” di Lombroso

Sembra un racconto di fantasy,uno di quei racconti di pura fantasia peraltro anche molto dozzinale;eppure in questo caso siamo di fronte ad un fatto vero,annotato regolarmente dai presenti all’accaduto,che ne stesero una relazione abbastanza attendibile,tenendo conto della loro posizione di studiosi.

La donna legata a quella sedia è ormai una celebrità,e non soltanto in Italia;si chiama Eusapia Palladino.

Eusapia Palladino

Su di lei le notizie biografiche sono abbastanza contraddittorie,anche perché provengono,per la maggior parte,da lei stessa.

Era nata nel 1854 in Puglia,in un centro dell’interno,Minervino Murge;raccontava che la mamma era morta nel darla alla luce e che il padre era stato ucciso dai briganti sotto i suoi occhi;da piccola aveva subito un forte trauma alla testa,che aveva,a suo dire,amplificato i poteri della sua mente.

o

Esperimento controllato di spostamento degli oggetti

La povertà la spinse ad emigrare dal piccolo centro pugliese;si recò quindi a Napoli,alla ricerca di un lavoro come bambinaia.

Trovò invece la fama quando,casualmente,entrò al servizio di una famiglia napoletana,quella dei Migaldi,in una sera in cui i coniugi,che stavano facendo una seduta spiritica,venuta meno una delle persone che doveva far parte della catena,pensarono di riempire il buco con la giovane Eusapia.

Calco di una mano e volto di un fantasma (da Ricerche di Lombroso)

Quello che accadde sconvolse i presenti alla seduta;all’improvviso,nella stanza,iniziarono a volare oggetti,si udirono,distintamente,voci cavernose provenire da diversi punti della stanza.

Quell’esperienza le cambiò completamente la vita;la contadina povera e ignorante smise di fare la bambinaia,e divenne una medium a tempo pieno.

Il mondo della scienza iniziò ad interessarsi ben presto agli strani fenomeni che avvenivano in presenza della donna;movimenti telecinetici,oggetti che volavano da un capo all’altro della stanza,voci dal nulla,apparizioni di luci misteriose.

Siamo sul finire dell’ottocento,non ci sono ancora mezzi per riprendere le sedute con la donna,così come non esistono ancora magnetofoni o altri strumenti di registrazione,e tutto ciò che viene registrato è solo in forma cartacea.

Cesare Lombroso

Se alcuni studiosi,sbalorditi,danno credito a Eusapia,altri la credono solo un fenomeno da baraccone;è il caso di Eugenio Torelli Voilleir che,assistendo alle performance della donna,si convince che la stessa usi trucchi per ingannare i presenti.

E pubblica una serie di articoli nei quali svela quali sono,a suo dire,gli espedienti che la donna usa:quando le luci diventano basse o si spengono,si fa tenere il braccio dal vicino,e fingendo di starnutire,libera l’altra mano,con la quale provoca i fenomeni.

Il prestigio della Palladino iniziò ad incrinarsi,e a nulla valse la sua disponibilità a farsi sottoporre ad altri accertamenti da parte di eminenti studiosi.

Fra i quali ci furono,in più riprese,premi Nobel come i coniugi Curie,il Nobel per la medicina Richet,e Cesare Lombroso.

In America il suo prestigio,già scosso,ricevette un colpo mortale quando venne esaminata dal professor Musterberg,docente di Harvard,che la scoprì proprio mentre,con un piede,muoveva il tavolino davanti a se.

Il premio Nobel Richet

Pure,nonostante questi trucchi banali e anche infantili se vogliamo,Eusapia riusciva a sconvolgere la maggior parte degli studiosi facendo sparire oggetti,facendoli riapparire in altre stanze,mostrando poteri che non potevano spiegarsi solamente come frutto dell’inganno.

Ben presto apparve chiaro che la donna viveva una specie di sdoppiamento della personalità:disponeva di doti medianiche particolari,ma aveva la tendenza a esasperare le cose,ad “aiutare” gli eventi.

Cosa che le costò l’ostracismo di buona parte degli studiosi,poco propensi a darle credito.

Tra luci ed ombre,tra accaniti sostenitori della sua autentica capacità di provocare fenomeni medianici e accaniti detrattori,Eusapia visse gli ultimi anni della sua vita lontana dalle luci della ribalta:apri un piccolo negozio a Napoli,che le dette a mala pena da vivere.

Morì dimenticata da tutti nel 1918.

 
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Azzurrina

Post n°1534 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Montebello (Rimini) è la località in cui si svolge la vicenda.
Un bellissimo castello, visitabile tutt’ ora, è stato testimone della tragedia che ha sconvolto la vita della famiglia di Ugolinuccio, allora, Signore del luogo.
Ma ritorniamo al tempo in cui avvennero i fatti. Seconda metà del XIVsec.
Nel castello viveva una famiglia benestante, Malatesta, Signori del posto. La vita scorreva serena, nonostante il periodo controverso (storico).


 



La coppia vive la felicità della nascita di una splendida bambina, Guendalina (Malatesta). Ma la sorte gioca con le loro vite, perché Guendalina nasce con i capelli bianchi (albina). Nel Medioevo, l’albinismo, era segno di sventura e stregoneria. Chi ne era colpito veniva accusato di essere indemoniato e condannato a morte atroce.
I genitori di Guendalina, per farla sopravvivere, le tingono i capelli con una sostanza a base erbe, che scuriscono la chioma, ma al contatto con la luce del sole, emana dei riflessi azzurri. Da questo anomalia, la piccola, ebbe il nome di Azzurrina. I genitori per tutelarla, decidono di non farla mai uscire dal castello, ma cercano in ogni modo di allietare le sue giornate. E’ scortata da due guardie in ogni momento delle sue giornate. Curata amorevolmente da mamma e servitù, la piccola cresce serenamente sino a quel tragico 21 giugno 1375.

Quel giorno, un forte temporale imperversava nella zona, … i lampi squarciavano il cielo, illuminando la campagna circostante. Azzurrina giocava con una palla fatta di pezza e corda, come si usava a quel tempo. Ad un tratto la palla le sfuggì di mano rotolando lungo una scala che conduceva alle cantine del castello. Guendalina scese lungo i gradini con l’intento di recuperare il suo giocattolo. Le guardie non l’accompagnarono, poichè la scala conduceva alla cantina ed alla ghiacciaia, non c’erano pericoli nè altre uscite.
Ma un grido lacerò l’aria! I due soldati si precipitarono verso la scala. Ma…di Azzurrina non c’era traccia. Era come svanita nel nulla.
Per molti giorni, il castello, le campagne e l’intero borgo, furono setacciati nella disperata ricerca della bambina. Ma non fu mai più ritrovata.
(Interno del castello. Scorcio delle cantine)

azzurrina-il-fantasma_01.jpg

Da quel tragico 21 giugno, ogni 5 anni, nella notte del solstizio d’estate, nel castello di Montebello, appare il Fantasma di Azzurrina. La si sente ridere, parlare o piangere. Molti i testimoni, tra cui anche una troup della Rai che casualmente riuscì a registrare suoni e voci durante un servizio svolto sul luogo.
L’Università di Bologna ha registrato nello stesso posto un nastro, ove si odono suoni da cui emerge il pianto di una bambina alternata dal rombare dei tuoni, come se ci fosse un temporale. (1990)
Nel 1995 (21 giugno), l’Università di Bologna, volendo approfondire lo studio sul fenomeno, riesce a captare nuovi suoni: il rumore della palla che rimbalza lungo le scale, il ritocco delle campane, la voce di una bimba (Guendalina?) che chiama “Mamma”. Nel 2000 nuove registrazioni vengono eseguite, ed il fenomeno si ripete creando sconcerto anche nei ricercatori più scettici.

 

Altre testimonianze le ritroviamo in una cronaca del ‘600 presente in uno dei volumi della biblioteca del Castello.
Nel 1989, l’anno precedente alle prime intercettazioni, il Castello fu ristrutturato dagli eredi Giunti, per creare un museo con visite guidate. Durante i lavori, che si estesero anche alle cantine, vennero alla luce molti cunicoli, alcuni portavano ad accessi murati nei secoli precedenti, per scongiurare saccheggi ed attacchi. Tutte le porte murate vennero abbattute, dando libero accesso alle stanze, tranne una. Durante la ristrutturazione, si accorsero che una stanza non era più accessibile. Chi murò l’accesso,fece in modo, che se fosse stato violato, la stabilità dell’intero castello sarebbe stata compromessa.

 

I misteri non hanno fine a Montebello. Durante le visite guidate, numerosi i turisti che sentono voci accavallarsi a quelle delle guide, passi e rumori,…
Spesso i visitatori, si sentono male, vengono assaliti da stati d’ansia, alcuni svengono,…

Sempre nel castello, è presente una panca color rosso-sangue dove vi è raffigurata una donna incinta all’interno di una tenda. La panca pur avendo oltre 1000 anni, si mantiene intatta nel tempo. Alcuni dicono sia stata tinta con il sangue. La panca fu donata al ritorno di una delle crociate.
La storia legata a questa panca è orribile. Si narra che serviva al controllo demografico della tribù a cui fu sottratta. Quando il popolo arrivava ad un numero prestabilito di abitanti, le donne partorienti, venivano legate sulla panca, in maniera tale da impedire loro il parto, condannandole insieme al feto, a morte certa dopo terribili agonie.

 

Uno dei custodi assunti dagli eredi del Castello, qualche anno fa, fu testimone di un fatto sconcertante: nella sala in cui è custodita la panca, mentre era impegnato nelle pulizie serali di routin, sentì dei rumori alle sue spalle. Quando si voltò … una donna scalza camminava sul soffitto, fissandolo. La donna era a testa in giù e la sua lunga chioma sfiorava il pavimento. Il racconto del custode fu avvalorato dalle impronte femminili, ritrovate sul soffitto. Rimaste indelebili per molti anni.

Anche nel 2005 furono eseguite nuove registrazioni,… ma non hanno dato soluzione … il mistero continua!

(

 
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La sonnambula

Post n°1533 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Cari lettori,eccomi qua!
Ci mancava anche la sonnambula in questa gabbia di matti,eh?
Di chi parlo?
Della colf magrebina Fatima Makiammazzameh,ecco di chi,che col suo sonnambulismo ci ha fatto passare la settimana di passione che mi appresto a raccontarvi
LUNEDI'-Alle tre di notte Berengario,svelgiato da una violentissima scampanellata,si è trovato davanti Fatima che,ancora addormentata,gli ha tirato una scimitarrata nei denti e se n'è andata.Il poveraccio è svenuto.
MARTEDI'-La Fatima stanotte è penetrata nella stalla di Cesarone e lo ha rapito.
Il toro è stato ritrovato stamani con le corna incastrate nel cancello del cimitero.
MERCOLEDI'-La Fatima ha rubato la macchina nuova fiammante del Cuccurullo, (non ha la patente!) è andata fino alla cascata dell'Eremita Deficiente e l'ha buttata di sotto
Telesforo è in stato catatonico
GIOVEDI'- Entrata nella torre campanaria,Fatima si è sbizzarrita fino alle 4 del mattino in un concerto estemporaneo.
VENERDI'- Fatima ha tolto l'acqua alla piscina dello Sgozzaloca.
Anatolio è in gravi condizioni all'ospedale.
SABATO-Fatima stava per decapitare Belva.Ireneo è arrivato giusto in tempo
DOMENICA- I paesani esasperati hanno affrontato Fatima che,udito il resoconto delle sue triste imprese,è svenuta.
Sono passati dieci giorni
Berengario ha ricevuto oggi la dentiera.
I Trogoloni si sono rivolti a Forum perchè Cesarone dopo la brutta avventura miagola.
Cuccurullo è ancora in stato catatonico.
Anatolio è salvo ma ha perso la memoria.
Belva è ricoverato in una clinica veterinaria.
Fatima è in cura presso lo Sperandio per vedere se guarisce.
A S.Tobia (per ora) si dormomo sonni tranquilli

 
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Donne di fabbrica (Hochmann)

Post n°1532 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Donne di fabbrica”
Ho dato la vita
per imparare a vivere.
Ora che ho organizzato tutto
ora che so mettere in ordine
ora che so controllare i miei
impulsi sessuali
ora che so tirar su famiglia
ora che so come farmi sfruttare
ora che so lavorare come vogliono
ora che ho imparato
a essere più vicina al nudo silenzio
la mia vita è quasi finita.

 
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Rosa Vercesi

Post n°1531 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

orte, nudità, femminilità: un silenzio — un silenzio — un silenzio. Il Male. Già ne La carta è stanca c’è un grumo di scrittura con cui Ceronetti ci cala nel gorgo raggelante del caso di una setta d’invasati che uccise una bambina. Pagine indimenticabili e mortificanti. Una lanterna dostoevskijana avventurata a contaminarsi sul luogo nero d’un omicidio non può che spegnere ogni superbia della ragione e ogni pretesa di sapienza. Poiché sapere davvero vorrebbe dire poter curare e guarire, impedendo che l’omicidio ritorni.

Ma il Male riaffiora intatto, latenza che coagula una dismisura, mistero schiacciante già per l’anima cieca che l’ha commesso. Rimane muta la domanda di Seferis su chi «dietro di noi, ordina di uccidere»: da Hitler al fanciullino che ti lapida a caso dal cavalcavia. Mai qualcuno che, come Jago, possa rispondere semplicemente: io.

Quante volte l’abbiamo visto? Dopo il crimine, l’assassino si rintana nel suo nulla. L’omicidio ha desertificato, posto che prima ve ne fosse una, l’anima: come se l’incomprensione del gesto restasse a preservare l’ultimo residuo di quel trucco sociale che chiamiamo persona dal precipitare a sua volta nel buco nero in cui s’ingorgò ogni luce.Un raggio di pietas pura e contemplante, il cauto riordino in racconto delle schegge rimaste: potrà almeno questo dare, se non catarsi, lenimenti e placebo per il male commesso? E, in realtà, che vorrebbe poi dire? o dov’è il carnevale che almeno per un giorno possa scambiare le vittime con gli assassini?Il male, ovvero «l’uovo delle circostanze». Uova di pura ferocia, astratta e completa, come spore di tarassaco galleggiano innumerevoli sulla Terra: legioni di latenze criminogene che si può solo sperare e pregare che la vita dispensi dall’impulso di deflagrare. Le circostanze s’ingorgano per liberare ciò che è già qua da sempre a covarsi. Così Rosa Vercesi («a trentanni era già un groviglio di vissuto»), che s’arrangiava tra piccole truffe e usura, si ritrova nella «strepitosa preterintenzionalità» di un gesto. Uccide l’amica Vittoria, ed è un caso da prima pagina. Illuminata dalla fama delle cronache, per un’idea intransigente di se stessa preferisce velarsi dietro un movente banale (il furto) e pagare con l’ergastolo, piuttosto di ammettere l’infamia di un letto saffico, forse non troppo voluto: «crimine erotico, chiodato di passione sadomasochistica, sfiorante l’abisso del consenso della vittima».Fin nella follia di una vecchiaia «sudicia e inavvicinabile», l’omicida non smetterà di cancellare il gesto, «disfacendo con furore la trama del fatto», raccontando, a se stessa e a tutti, altre storie rispetto a quanto accadde: «furore di rimozione», al punto «da rendersi ai propri occhi veridica».Da acrobata lieve e accurato, Ceronetti può permettersi anche di giocare sul filo che stende sul buco nero dell’omicidio, e ci ridà un tempo (gli anni '30) e una città (Torino). Rianima parole e pensieri stinti, nobilitati dall’oblìo e dall’ironia. Si contamina di simpatia per l’assassina, per il suo senso animalesco del teatro («mentiva da grande attrice, con fasto, con convinzione»), per la sua dissennata ostinatezza — «gelida, stupefatta dal sospetto» — a negare. Scrive così un controcanto mirabile al rosario delle frasi fatte dei giornali e degli avvocati, delle memorie dei testimoni e della stessa omicida, scavando fino al Nero che l’autismo dei mille bla bla velava. Chiama a convegno voci morte, oggetti svaniti, medium, pendolini radiestetici…Ne La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Guido Ceronetti può permettersi di giocare sul filo steso sul buco nero dell’omicidio (un fatto di cronaca realmente accaduto) e ci ridà un tempo (gli anni '30) e una città (Torino). Rianima parole e pensieri stinti, nobilitati dall’oblìo e dall’ironia. Si contamina di simpatia per l’assassina, per il suo senso animalesco del teatro («mentiva da grande attrice, con fasto, con convinzione»), per la sua dissennata ostinatezza «gelida, stupefatta dal sospetto» a negare.A cura della Redazione VirtualeMilano, 22 maggio 2003
© Copyright 2003 italialibri.net, Milano - Vietata la riproduzione, anche parziale, senza consenso di italialibri.net
«Un clàcson, dalla camionale: e il vuoto delle cose. Tutto taceva, finalmente. I gatti, all'ora consueta, certo, ecco erano penetrati nella casa, per dove solo loro entrano: vellutate presenze l'affissavano dalla metà delle scale, con occhi nella oscurità come topazi, ma fenduti d'un taglio, lineate pupille della lor fame: e le rivolsero, miaulando, un saluto timido e un appello: � é l'ora�»

(Carlo Emilio Gadda, "La cognizione del dolore")

Censimento Riviste Letterarie


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Libri dimenticati:La vera sotria di Rosa Vercesi

Post n°1530 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Ricostruzione di un fatto di cronaca nera avvenuto a Torino nel 1930

 
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Frase del giorno

Post n°1529 pubblicato il 04 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nessuno può arrivare all'alba senza passare per la via della notte (Gibran)

 
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