Messaggi del 15/01/2012

Scrittori dimenticatii:Tommaso Grossi

Post n°1643 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Figlio di Francesco Grossi e di Elisabetta Tarelli, fece i primi studi a Treviglio, poi a Castello, a Rezzonico e a Milano. Laureatosi in giurisprudenza nel 1810 all'Università di Pavia, fece pratica in uno studio legale di Milano e ottenne l'abilitazione di avvocato nel 1815.

Tommaso Grossi.

Voltosi a interessi letterari, nel 1816 pubblicò anonimamente a Milano la Prineide, un poemetto satirico in milanese e in sestine di endecasillabi: il soggetto è costituito dal caso del ministro delle Finanze del Regno d'Italia, Giuseppe Prina, che fu linciato dalla folla il 20 aprile 1814 perché accusato, ma ingiustamente, di malversazione. Nell'operetta, definita da Stendhal «la maggiore satira che la letteratura abbia prodotto nell'ultimo secolo», si satireggiava tanto il comportamento della folla che quello del potere, così che la polizia austriaca, scoperta l'identità dell'autore, lo fermò e lo interrogò per un giorno, rilasciandolo tuttavia senza ulteriori conseguenze.

Seguì la pubblicazione della novella La fuggitiva, in 59 ottave e ancora in dialetto milanese, che l'anno dopo il Grossi traspose in lingua italiana, con un risultato di minore efficacia per l'uso di forme retoriche e auliche inappropriate alla resa del soggetto. Si narra, in prima persona, la vicenda di una ragazza che abbandona la famiglia per seguire segretamente il fidanzato e il fratello, arruolati nella Grande Armée impegnata nella campagna di Russia. I due militari muoiono in battaglia - ma il fidanzato avrà il tempo di riconoscerla - e la giovene, tornata in Italia, muore a sua volta nella sua casa, chiedendo perdono ai genitori.

L'amicizia con Carlo Porta fu di grande importanza per la scelta del dialetto e del genere satirico - col poeta milanese scrisse nel 1818 il Giovanni Maria Visconti e le Sestinn per el matrimoni del sur cont don Gabriel Verr con la sura contessina donna Giustina Borromea nel 1819 - oltre ad avere in comune il rifiuto del classicismo. Quando il Porta morì, Grossi lo ricordò con una breve biografia e con le sestine In morte di Carlo Porta, pubblicate nell'edizione del 1821 delle poesie di Carlo Porta.

Il successo de La fuggitiva - dovuto al favore di cui godeva allora presso il pubblico borghese il genere sentimentale e avventuroso - stimolò nel 1820 il Grossi a scrivere in italiano un'altra novella in 326 ottave, Ildegonda. Ambientata in un medioevo di maniera, è la vicenda dell'amore di Ildegonda, contrastata dal padre e dal fratello, per il nobile cavaliere Rizzardo; Ildegonda muore in un convento.

Il poema storico nazionale I Lombardi alla prima crociata, del 1826 (in cui Grossi tentò, pur senza sortire l'effetto sperato, di effettuare una sorta di "rivisitazione", secondo i propri intendimenti più scorrevole e aggiornata, della Gerusalemme liberata di Tasso) che con le sue 3500 copie risultò l'opera letteraria con più alta tiratura del tempo e che ispirò, alcuni decenni più tardi, il melodramma omonimo di Giuseppe Verdi (1843).

Poi si dedicò al romanzo storico Marco Visconti (1834) che ebbe subito delle traduzioni in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Nel 1838 dopo il matrimonio si dedicò alla professione di notaio e lasciò la letteratura. Nel 1848 stese l'atto ufficiale della fusione tra Piemonte e Lombardia in seguito alla prima guerra di indipendenza. Morì a Milano per una meningite il 10 dicembre 1853.

 
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Sscrittori dimenticati:Mauriac

Post n°1642 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

rançois Charles Mauriac (Bordeaux, 11 ottobre 1885Parigi, 1º settembre 1970) fu uno scrittore e giornalista francese, premio Nobel per la letteratura nel 1952; vincitore del Grand Prix du Roman, fu anche membro dell'Académie française, giornalista e critico letterario per Le Figaro e decorato con la Legion d'onore.

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Cenni biografici [modifica]

Nacque in una famiglia composta da cinque fratelli, un padre agnostico e repubblicano, e una madre, Claire, cattolica, che rimasta vedova all'età di ventinove anni educò i figli in una austera atmosfera religiosa.

Mauriac studiò al Grand-Lebrun diretto dai religiosi Marianisti e mostrò una grande passione per alcuni grandi autori francesi, come Pascal, Baudelaire, Balzac e Racine.

Il suo esordio avvenne grazie ad un articolo scritto per La vie fraternelle, voce del movimento cattolico Sillon, di impronta oparaia e popolare.

Ottenuta la licence in lettere nel 1906, si trasferì a Parigi per partecipare al concorso all'École des Chartres, che vinse e che gli aprì la carriera di insegnante.

Ma nel 1909 decise di dedicarsi anima e corpo alla letteratura, pubblicando la raccolta di poesie intitolata Les Mains jointes (1909), seguita dal romanzo L'Enfant chargé de chaînes. Già in queste prime opere si delineò l'ispirazione religiosa anche se i toni furono ancora sfumati.

Nel 1913 si sposò con Jeanne Lafon e, dopo l'inizio della prima guerra mondiale, ottenne l'esenzione per motivi di salute.

In quegli anni Mauriac si dedicò con passione anche all'attività di giornalista, collaborando con Gaulois e Le Figaro e si impegnò come promotore di un manifesto destinato ai cattolici affinché si dissociassero dal franchismo.[1]

In romanzi come Il bacio al lebbroso (1922), Teresa Desqueyroux (1927), Groviglio di vipere (1932), si fece denunciatore spietato e giudice intransigente di sentimenti quali avarizia, orgoglio, odio, sensualità, avidità, materialismo e brama di dominare, che travolgono la borghesia di provincia, lontana da ogni possibilità di riscatto. Temi che permeano anche la sua produzione teatrale: ricordiamo Asmodeo del 1937 al quale fecero seguito Amarsi male (Mal aimés, 1945) e Passaggio del diavolo (Le passage du Malin, 1947), Il fuoco sulla terra (Le feu sur la terre, 1950).

Mauriac mise il cattolicesimo, il moralismo ed il fariseismo alla base della sua opera. Egli critica il grigio mondo borghese in nome di valori religiosi, ma non esita a contrapporre alla rinuncia cristiana l'istintivo impulso a una vita piena. Soprattutto al centro della sua disamina critica, vi fu la famiglia ed i rapporti famigliari, presi come riferimento emblematico per il degrado e il deterioramento dei valori e del senso della vita. Il pessimismo cronico di Mauriac si rivelò necessario per evidenziare il carattere mostruoso dei suoi personaggi, che l'autore ritiene presenti in ognuno di noi.

Assieme a Georges Bernanos, Karl Barth, Maritain e Gabriel Marcel, redasse articoli per la rivista Temps présent

Ai personaggi avvolti in una nube di zolfo dei romanzi, egli alternò ritratti più distaccati in saggi critici su Racine, Pascal, Gesù.

Numerosi furono pure i suoi studi sui problemi psicologici del credente, tra i quali Sofferenza e gioia del cristiano (1931), Brevi saggi di psicologia religiosa (1933), così come fondamentali risultarono i suoi saggi dottrinali Giovedì Santo (1931) e La pietra dello scandalo (1948).

Durante la seconda guerra mondiale si oppose al governo di Vichy e si avvicinò alle posizioni del generale De Gaulle, al quale dedicherà un'opera biografica intitolata De Gaulle.[1]

Per lo stile fluido e ricco di immagini, per la coerenza e dirittura morale ma soprattutto perché trattò temi universali, gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura del 1952.

Nel maggio 1955 Mauriac stimolò Elie Wiesel a scrivere delle sue esperienze di internato nei campi di concentramento nazionalsocialisti di Auschwitz e Buchenwald - tale pressione portò Wiesel a pubblicare, nel 1958, una delle sue opere più famose: La notte.

Si schierò per la decolonizzazione dell'Algeria.

 
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Scrittrici dimenticate:Edna Ferber

Post n°1641 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

dedicated writer for more than fifty years, Edna Ferber was born in Kalamazoo, Michigan, on August 15, 1885. She celebrated America even as she exposed its shortcomings. Her published work includes twelve novels, twelve collections of short stories, two autobiographies, and nine plays—most in collaboration with other playwrights. Ferber’s novel So Big won a Pulitzer Prize in 1925, while the film Giant and the musical Show Boat, based on her novels, continue to entertain contemporary audiences. World famous in her time, Ferber was, for her readers at home, a beloved chronicler of American working people whose ethnic variety, linguistic idiosyncrasy, toughness, occasional sweetness, and resilience never ceased to fascinate her.

Edna Ferber’s enduring love of America and its workers—as well as the form that this passion gave to her life and work—rose, paradoxically, out of a childhood troubled by frequent moves from one state to another; by the business failures and the early blindness and death of her Hungarian-born father, Jacob Ferber; by the labor of her American-born mother, Julia (Neumann) Ferber, in several family stores; and by a period of seven years in which, Ferber remembered, there was never a day in which she was not called a “sheeny.” From age five to twelve, Ferber lived with her parents and older sister, Fannie, in Ottumwa, Iowa—a town so brutal toward Jews that she held it accountable until the end of her life for everything in her that was hostile toward the world. As Ferber carried lunch to her father every day, she had to run a gauntlet of anti-Semitic abuse from adult male loungers, perched on the iron railing at the corner of Main Street, who spat, called her names, and mocked her in Yiddish accents. Ferber’s parents suffered as well. Her father lost a lawsuit against an employee accused of theft when witnesses who had sworn to the truth of the accusation suddenly, in the courtroom, reversed their testimony.

Ferber herself described the effects of those seven years in various ways. She believed they were “astringent, strengthening years whose adversity” had toughened her. She understood that her terror of legal complications in the course of her writing career—as well as her profound love of justice—owed much to that early experience of injustice. Ferber’s sense of herself as a Jew and her adult responses to antisemitism were also shaped by the pain of those years. Like the five-year-old child who “didn’t run” but “glared” at her oppressors, Ferber confronted directly and caustically the antisemitic comments that occasionally marred her adult professional relationships. Her first autobiography, A Peculiar Treasure (1939), rings with contempt and rage against Hitler for making of Europe a world she could not recognize, in which it was no longer possible to love the human race.

Ferber believed that her identity as a Jew owed more to persecution and to her love of her family than to religious observance or historical tradition. She suspected that, as a child, her pride as a Jew might have reflected her pleasure in self-dramatization, in feeling herself “different and set apart,” in knowing herself to be superior to her persecutors. That sense of superiority stayed with her. As late as 1934, Ferber celebrated the absence of Jewish names among the “despoilers of America”—“paper mill millionaires” and others who had profited from the destruction of America’s forests and rivers. In time Ferber even developed a sense of collective Jewish identity that highlighted the positive compensatory effects of oppression. She believed that the Jew, left in peace, would have lost his “aggressiveness, his tenacity and neurotic ambition.” More important, oppression had yielded to Jews the priceless gift of “creative self-expression.” Jewishly uneducated, she knew nevertheless of “an old Chassidic book” that “says there are three ways in which a man expresses his deep sorrow: the man on the lowest level cries, the man on the second level is silent, but the man on the highest level knows how to turn his sorrow into song.” As a writer, Ferber cherished that knowledge all her life.

At first Ferber sought her own path toward “creative self-expression” in the theater. She called herself “stage-struck,” a passion nourished not only by her grandfather’s puppet plays, by her grandmother’s daily reenactments of encounters with tradesmen and neighbors, and by “playing show” with her sister, but also by the Ferber family’s frequent attendance at local performances in Ottumwa. Minstrel shows and shoddy traveling theater companies, as well as the earliest versions of what would become movies, dazzled the child. The adult recognized that they afforded “color, escape, in that dour unlovely town.” In time Ferber’s collaborations with George Kaufman and Jerome Kern on such plays as Dinner at Eight, The Royal Family, and Show Boat produced successes that gratified her lifelong love of theater.

At age seventeen, however, Ferber abandoned her plans to become an actor to help support her family. They had left Ottumwa for Appleton, Wisconsin, in 1897. Forbidden to study elocution when she graduated from high school, Ferber stomped out of her house and into the office of the Appleton Daily Crescent, where the editor hired her as a reporter. Thus, in a moment of stormy reaction, Ferber ended her formal education and entered the profession that was to engage her for the rest of her life. Although she would come to know very well the drudgery and loneliness of a writer’s life, and although she sometimes worried that the “gift of writing” might be taken from her at any moment, she cultivated that gift by habitually transforming every detail of sensory and emotional experience into words. The sounds of hangers striking one another in a moving train, the musings of a lonely teenager feeling sorry for herself, the graceful movement of a young gardener as he turned from his work, all went into storage in her imagination, to be pulled out like the spangles and feathers of an antique costume from a trunk in the attic when her stories required them. In love with the work of reporting, she moved from the Appleton paper at age eighteen to a larger paper in Milwaukee, where she relished the company of other reporters and “worked like a man” to the point of breakdown at age twenty-two.

The lifelong habit of writing, grown partly out of the “sorrow” of Ottumwa and poverty, enriched Ferber immeasurably but developed in her, as well, a perspective that alienated her to some extent from engagement in ordinary life. After she came to New York in 1912, she enjoyed an extraordinarily wide circle of friends, among whom were Katharine Hepburn, Moss Hart, George Kaufman, Robert Sherwood, Louis and Mary Bromfield, and William Allen White. But as a reporter, she had learned early to look on life rather than participate in it. She could project herself into “any age, environment, condition, situation, character or emotion” that interested her. However, she also acquired the writer’s ability to feel a sensation and to analyze a feeling while having it—a “gift” that she believed was “deathly hard” on romance. Thus she lived a writer’s life, socializing and traveling with other writers, editors, producers, performers, and artists. She took as a companion her widowed mother, whose own unhappy marriage served, perhaps as powerfully as her jealous maternal protectiveness, to guard Ferber from matrimony.

After her breakdown, Ferber began to write and publish the short stories that would lead her to New York. Her most famous early character, the businesswoman Emma McChesney—whose fortunes even Teddy Roosevelt followed with relish—was succeeded in time by a multitude of personae whose misfortunes and triumphs showed America to itself. The habit of loving America and Americans, which distinguishes virtually all of Ferber’s work, originates—like her ability to observe without participating and her unfettered contempt for bigotry—in the seven painful years she lived in Ottumwa. On Saturday nights in those years, after the matinee, Ferber’s pleasure was to watch the crowds passing on Main Street. She liked to see them without being seen. As she watched, she realized that “the passer-by does not notice you or care about you; they, the people, are intent on getting somewhere, their faces are open to the reader; they betray themselves by their walk, their voices, their hands, clenched or inert; their feet, their clothes, their eyes.” In the watching child, reading people as they passed, the reportorial eye that would later describe essentials of human behavior peculiar to Texas (in Giant), Alaska (in Ice Palace), Oklahoma (in Cimarron), and the Mississippi River (in Show Boat) was developing.

Ferber’s pleasure in the rich multiplicity of American character was also rooted partly in her early experience of Ottumwa. When her father’s illness drew her mother more and more deeply into the labor of supporting the family, Edna and her sister were cared for by a series of “hired girls”—farmgirl daughters of immigrant parents or new immigrants themselves. Such women, Ferber realized, “influenced the manners, morals and lives of millions of American-born children,” introducing them to Old World cooking and costume, folktale, and song. Unhindered by gender in her own ambitions and aware of ways in which her mother had surmounted the trials of her early life, Ferber had little patience with women who allowed themselves to be limited by the constraints of femininity. Like Jews, she believed, women developed special strengths because of their subjection to social limitations. Thus she often wrote about women whose energy and talent made them successful in business, like Fanny in Fanny Herself or Emma McChesney in Roast Beef, Medium. The “variety” and “fun” brought to Ferber’s early life by the hired girls of her childhood inspired an enduring interest in the “vigor and native tang” of working people’s talk. To her the conversation of a truck driver was always “more stimulating, saltier” than that of a man who “drove his own Cadillac.” As late as 1933, Ferber believed that working people still retained “a kind of primary American freshness and assertiveness,” and her stories attempted to do justice to them and their lives. She was one of them. She felt she understood them and America—“its naiveté, its strength, its childishness, its beauty, its reality.” Until she died on April 16, 1968, in New York City, Edna Ferber’s idea of “the ultimate in exciting luxury” still mimicked the early experience of the parade-watching child on Main Street in Ottumwa. She loved to lie back among pillows in an air-conditioned train compartment, “watching the United States of America slide by.” This unabashed love of America seems dated now, for it speaks of a simpler time than our own. Ferber’s stories and novels, films, and plays continue to make accessible that moment of our collective national experience.

 
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Scrittrici dimenticate:Brunella Gasperini

Post n°1640 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Bianca Robecchi, questo il suo vero nome, nasce a Milano da madre «autonoma, creativa agguerrita, senza tabù di sorta, con laurea nel cassetto, un sacco di interessi che non aveva tempo di coltivare e un talento di pianista che non aveva tempo di esprimere» e da padre «medico, miscredente, libero pensatore, pecora nera (peraltro rispettata) della nobile famiglia peraltro ripudiata» [1] .
Ha quattro fratelli e una sorella, cresce in una famiglia profondamente antifascista. Ogni tanto andavano a prendere il padre, soprattutto in occasione di qualche visita del Duce o del Re, per portarlo dentro. «Abbia pazienza Professore, facciamo la nostra passeggiatina, eh?» dicevano. «Volentieri.» Rispondeva lui. [2]
I fratelli, morti nella seconda guerra mondiale, erano tutti partigiani. Aiutavano a scortare gli amici ricercati, specialmente gli ebrei, fino al confine svizzero, nascondendoli nel canotto della darsena della amatissima casa di San Mamete in Valsolda.
Bianca si laurea in lettere classiche e filosofia e sposa Adelmo Gasperini dal quale ha un primo figlio, morto tra le sue braccia durante un bombardamento e poi altri due, Massimo e Nicoletta.
Dopo la guerra comincia la stagione delle sue «disastrose supplenze: non ero un’insegnante abbastanza repressiva né abbastanza equilibrata, nelle mie classi c’era sempre quella che allora si chiamava russia, ero eternamente nei guai coi presidi, coi professori, coi bidelli»[3].
Camilla Cederna, amica di infanzia, le dice che i giornali femminili hanno bisogno di racconti da pubblicare a puntate. E Brunella comincia a scrivere, ma il primo glielo rimandano indietro sbalorditi: troppo progressista. Occorre tagliare, rivedere, rettificare, siamo nei primi anni Cinquanta… e Brunella taglia, rivede, rettifica, ma non troppo: è il successo.
Le viene affidata così la rubrica della posta del cuore su «Novella» con lo pseudonimo di Candida (da Bianca a Candida).
Passa poi ad «Annabella» firmandosi Brunella. Eugenia Roccella [4] interpreterà questa virata (da Candida a Brunella) come un voler abbandonare le simbologie della purezza «che per le donne ha per lungo tempo crudamente coinciso con la verginità, identificata socialmente dai segni del pudore e della modestia».
Brunella in 25 anni riceve centinaia di migliaia di lettere, attraverso le quali si potrebbe ricostruire la storia delle donne del XX secolo.
Nel suo libro I fantasmi nel cassetto dice: «Mi scrivono fantasmi in carne, ossa e nervi fragili, come me. Mentre rispondevo pensavo a mio padre che senza mai forzarci, per il solo fatto di essere quello che era, ci aveva trasmesso ironia, cultura, senso critico, libertà intellettuale. Pensavo a quando diceva che il mondo aveva bisogno di menti aperte, di spiriti liberi, come sarebbero stati i suoi figli. Adesso i suoi figli maschi erano morti, e quel liberissimo spirito della sua figlia minore pubblicava risposte edificanti sui giornali femminili degli anni Cinquanta, più realisti del re, conformisti, oscurantisti, filoclericali, dove l’umorismo andava subito ucciso con la melassa e le casalinghe avevano sempre la meglio su quelle modernastre che lavoravano fuori. Potevo dire solo una piccola parte di quel che pensavo, non ero obbligata a dichiararmi cattolica però mi era vietato dire che non lo ero…».
Brunella risponde alle lettere da casa sua dove ha una stanza tutta per sé. Il suo Aventino, la sua mongolfiera, la sua “prigione sospesa nel buio”.
Sulle pareti ha scritto : “NON ROMPETEMI IL FILO”. Mentre lavora è costantemente interrotta dai figli, dai numerosi animali che popolano la sua casa, cani, gatti, canarini, merli indiani… e dal marito, o “compagno della mia vita” come ama definirlo lei e dalle telefonate delle lettrici (o “dementi” come ama definirle il compagno della sua vita).
«Usano il mio telefono come urna confessionale, passatempo, ufficio informazioni, assistenza sociale, psicoterapia e strumento terroristico (uccideremo i tuoi figli stronza abortista)»[5].
“E’ DURO DOMARE UNA SCRIVANIA” stava scritto sul muro davanti al suo tavolo.
Ma Brunella, come dirà Camilla Cederna, «in pieno regime democristiano, mentre le altre piccole poste parlavano dell’angelo della casa che arrivava con la zuppiera fumante e quel buon profumo che ristabilisce un accordo turbato, mentre le donne in crisi erano dirette verso il porto tranquillo della religione, lei spingeva le donne frustrate, tradite, innamorate di un uomo impossibile, verso la totale autonomia, spiegando che vivere sole non è una maledizione. Parlava del lavoro che dà libertà e della dignità acquistata smettendo di correr dietro al fidanzato o al marito fedifrago. Incoraggiava i giovani ad occuparsi di politica e dalle sua pagine, seppur guardata male dai direttori, fece la sua brava campagna a favore del divorzio. Parlò dell’aborto prima di ogni altra, mai suggerito o consigliato, diceva meglio pensarci e non averlo un figlio non desiderato o di troppo.»
Spesso Brunella davanti a problemi posti dalle lettrici si mette da parte ed invita le lettrici stesse al dibattito, cercando di promuovere, attraverso il dialogo e il confronto, una crescita di queste donne imbavagliate che sembrava impossibile all’interno delle mura domestiche.
Negli anni sessanta, al culmine della rivoluzione giovanile, lei, donna tra i quaranta e i cinquanta, invece di guardare dall’alto questo esercito di contestatori, come facevano la maggior parte delle persone della sua età, ha provato a capirlo. Nel 1965 ha chiesto e ottenuto sul suo giornale uno spazio dedicato alle lettrici giovanissime che le chiedevano: «Si può rimanere incinta con un bacio?». Affronta il tema della verginità, della droga e di tutti quei tabù dei quali nella maggior parte delle famiglie era vietato parlare.
È stata etichettata “scrittrice rosa” ed è stato per sempre un suo cruccio. Voleva scrivere un libro che la facesse uscire da quello che viveva come un ghetto della letteratura “marchiata” femminile. Forse ci è riuscita col suo ultimo, Una donna e altri animali, cronaca familiare dove parla di gioie e dolori ma, come dirà sua figlia Nicoletta «con un senso dell’umorismo e una certa leggerezza che sono sempre stati una caratteristica di tutta la nostra famiglia e in particolare di mia madre, che ci ha insegnato che non c’è coraggio più grande dell’allegria».
Brunella era spesso ammalata, somatizzava tutte le sofferenze, le inquietudini, le angosce delle sue lettrici, se la portò via a 61 anni l’ulcera.
Sopra il divano del suo studio aveva scritto:

METTETE LE MIE CENERI
SOTTO IL MIO GELSOMINO
E SCRIVETE SULL’URNA:
“VIAGGIO’ TUTTA LA VITA
INTORNO A UN TAVOLO”

Ma ancora una volta l’ironia ebbe la meglio, di colpo deve esserle sembrata una frase un po’ troppo melodrammatica. Decise quindi di aggiungere:

SENZA PER ALTRO COMBINARE UN CAVOLO

 
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Azincourt

Post n°1639 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Figlio primogenito di Enrico IV di Lancaster salì sul trono inglese nel 1413 dopo la morte del padre. Anche se istruito ad una dura scuola di guerra non si lasciò scappare una vita frivola e leggera, tanto che Shakespeare nell'Enrico IV lo aveva descritto come frequentatore di bettole accanto a Falstaff, mentre nell'Enrico V, lo ripresenta come un giovane-simbolo dell'eroismo patrio.
Venne nominato cavaliere ad appena 12 anni da re Riccardo, ottenne giovanissimo il comando delle truppe inglesi impegnate in Galles, e successivamente condusse diverse campagne in Scozia ed in Inghilterra. La campagna contro Carlo VI fu preparata con scrupolosa attenzione, e nonstante la sua giovane età i nobili del regno anglosassone gli furono molto devoti, visto soprattutto il cambiamento, che aveva portato quel giovane da una vita "leggera" ad un altra vita assai più morigerata e pia.
La guerra dei cent'anni fu la prima occasione in cui gli inglesi si muovevano per la costruzione di una grande flotta, impresa mai tentata fino ad allora, ed anche per consolidare il potere dei Lancaster nell'isola, ma non solo; con la vittoria di Azincourt e il seguente trattato di Troyes, Enrico V si garantirà anche il titolo di re di Francia visto che aveva sposato la figlia dell'ex-reggente Carlo VI, Caterina. Enrico V, morirà poi nel 1422 per un male misterioso, contratto mentre combatteva contro gli Armangnacchi, ma lasciò a suo figlio la corona di un paese la cui pace interna non era più in discussione, e che aveva aumentato notevolmente il suo prestigio anche agli occhi dell'intera diplomazia europea.


Carlo VI (1368-1422)

Figlio di Carlo V e di Giovanna di Borbone, ascese al trono del suo paese quando era ancora minorenne, vista la morte del padre(1380), che però aveva decretato come maggiorenni i regnanti che avessero compiuto almeno 14 anni.
Era logico che appena due anni più tardi il piccolo Carlo dovesse prendersi il trono e il potere, senza più aver bisogno della tutela degli zii, che invece mantennero il potere nelle veci del giovane fino al 1388.
Dopo aver allontanato gli zii dal potere, riuscì finalmente a ristabilire l'ordine sociale (sconvolto da povertà, carestia e guerre) e fiscale, facendo di Parigi uno dei maggiori centri finanziari d'Europa. Nel 1392 tuttavia venne colpito da follia e fu quindi costretto a cedere il potere nuovamente nelle mani degli zii e di suo fratello Luigi duca d'Orleans, che ne approfirttarono subito per arricchire i loro interessi. Ma l'apparente intesa fra questi "principi" non doveva essere così solida come sembrava, visto che il duca d'Orleans fu assasinato e che, dopo questo crimine, vi fu la frattura del paese in due "parti": gli Armagnacchi e i Borgognoni.
Di questa guerra intestina non poteva che approfittarne il re d'Inghilterra che impose al sovrano l'umiliante pace con il trattato di Troyes con il quale Carlo VI diseredò suo figlio Carlo VII. Alla battaglia di Azincourt "il re folle" non partecipò, e morì nel 1422 lasciando il suo regno a suo nipote Enrico VI di Lancaster.

La guerra dei cent'anni

Come noto i re inglesi si trovavano in quei secoli in una situazione abbastanza particolare: erano sovrani di uno stato (l'Inghilterra appunto) ma al tempo stesso erano feudatari in Francia, cosa che li rendeva vassalli del re transalpino. La situazione era chiara: se da un lato gli inglesi facevano di tutto per tenere sotto il prorpio dominio le terre francesi, gli stessi francesi tentavano in tutti i modi di indebolire il potere "straniero" nel continente.
Ma la situazione diventò critica quando il re di Francia Carlo IV morì senza avere eredi diretti, e così al trono salì Filippo VI di Valois discendente della originaria dinastia capetingia alla quale anche il re deceduto apparteneva. Ma si presentò sulla scena anche lo stesso re d'Inghilterra Edoardo III, figlio di Isabella di Francia sorella dello stesso Carlo IV, che rivendicò per sè il trono di Francia poichè il suo legame di parentela con il defunto era più stretto del re che era stato incoronato. E così fu guerra (1337) tra Francia ed Inghilterra.....

Gli inglesi uscirono vittoriosi da Crècy come ad Azincourt e poterono quindi dettare le condizioni di pace a Brètigny(1360-1413). Condizioni che perdurarono fino a che in Inghilterra salì al potere Enrico V di Lancaster.

Si possono estrarre da questi anni di guerra alcune importanti riflessioni: innanzi tutto la guerra fu combattuta interamente sul territorio francese, mai sull'isola britannica; la campagna militare tipica di quegli anni non aveva come scopo principale quello di affrontare il difensore e distruggerlo con una battaglia in campo aperto, bensì quello di utilizzare le truppe "d'assalto" per depredare campagne e città inermi al solo scopo di indebolire la credibilità del regnante "interno", costringendolo a uscire fuori dalle città ed evitando sanguinose perdite con gli assedi delle stesse.
Si può quindi capire facilmente come la chevauchèe (ossia la cavalcata) era un adatto strumento per i re inglesi che in terra francese non potevano certo disporre di armate di numero superiere a quello francese e quindi non potevano rischiare di esporsi troppo, anche perchè le armate francesi erano considerate, non solo per quantità, ma anche per qualità, tra le migliori

L'araldica

L'araldica si compone di una serie di regole standardizzate che venivano utilizzate per riconoscere lo stato nobilare dei combattenti tramite le insegne. Anche se l'uso, formalmente, era già in vigore all'inizio del medioevo, questa tradizione prende piede nel pieno seicento. Degli stendardi utilizzati nelle epoche medievali si riscontrano caratteristiche come: un colore specifico, ma soprattutto dei simboli che contraddistinguevano il casato, come animali (reali o fantastici); luoghi d'origine (un albero per indicare la provenienza da una foresta, o una nave, o una torre).
Questi vessilli erano utilizzati soprattutto nei tornei cavallereschi per identificare il combattente e per rispondere a precise esigenze estetiche, ma anche come strumento di comunicazione durante le fasi di una battaglia.


Oriflamme

L'Oriflamme, era il mitico nome del sacro stendardo da guerra (in origine insegna dell'abbazia di St. Denis) usato dai re di Francia dal XII fino al XV secolo. Il colore era di un rosso vivo, con dei contorni verdi, delle stelle o fiamme d'oro in mezzo, e terminava con 2, 3 o a volte anche 4 punte. Durante la battaglia di Azincourt era stato dato in consegna a Guillaume de Martel che lo lasciò solo dopo la sua morte sul campo di battaglia: da allora non fu più ritrovato.

La guerra "inglese"

Tra il XII e il XIV secolo, in Italia soprattuto ma anche nel resto d'Europa, si erano affrontate in più di una occasione le fanterie cittadine contro le cavallerie feudali. Sia le truppe delle libere città d'Italia che altri (come i fiamminghi), alternavano a fanterie molto pesanti, altre ben più leggere e dotate semplicemente di archi o di balestre. In Germania ed in Svizzera soprattutto si andavano formando reggimenti imponenti di fanterie pesanti ma soprattutto di piccheri: questi grazie alle loro robustissime aste, e al loro schieramento compatto, erano in grado di fermare anche le cariche della cavalleria degli uomini d'arme. Tutte queste evoluzioni però non si verificarono anche in Inghilterra.
Negli anni in cui i re inglesi avevano cercato di consolidare il loro potere sull'intera isola britannica, si erano trovati ad affontare altre popolazioni, come Scozzesi e Gallesi, che avevano caratteristiche militari ben distinte. Gli sscozzesi utilizzavano le poleaxe, aste adatte a colpire sia di botta che di punta, mentre i gallesi si specializzarono nell'uso degli archi.
I regnanti inglesi, col passare degli anni, adattarono quindi le loro truppe alla conformazione del territorio nemico (in genere montuoso) assimilandone gli usi, e andando a sviluppare un tipo di esercito del tutto diverso da quelli continentali. La maggior parte delle truppe era formata da fanti, essenzialmente arcieri, con delle cavallerie molto leggere e mobili dette hobelar miste a quelle più pesanti. Nel tempo gli inglesi impararono a evolvere le armi utilizzate in pricipio dai loro "vicini-nemici": in particolare l'evoluzione dell'arco nel Longbow (arcolungo), capace di penetrare le corazze fino a 200 metri con una cadenza di fuoco tre volte superiore alla balestra genovese. L'esercito inglese riuscì perfino ad esportare un tipo di atteggiamento tattico che venne assimilato da alcuni eserciti continentali, cioè lo schierare in fase difensiva sia le cavallerie leggere che quelle pesanti appiedate e inframezzate a reggimenti di arcieri.
Tuttavia, soprattutto dal punto di vista tattico, l'esercito inglese aveva una grossa lacuna: la pericolosità delle sue truppe diventava alta solo in caso di attacco nemico. Infatti come potenza offensiva e come forza d'urto l'esercito inglese aveva ben poco da offrire e semmai poteva contrattaccare, mai attaccare. Questo è uno dei motivi per cui ad Azincourt furono i francesi ad effettuare la carica.

Il longbow (arcolungo)

L'arcolungo usato dagli inglesi durante la battalia di Azincourt ha forse origine gallese, di sicuro si sa che la sua gittata era pari a quella della balestra ma le frecce potevano essere lanciate con una velocità assai superiore, in rapporto di circa uno a tre (un dardo da balestra = tre frecce arcolungo), ed un rapporto di penetrazione superiore.
In seguito alla sconfitta di Azincourt si ha la sicurezza che i fabbri francesi dovettero lavorare per fabbricare armature di gran lunga più resistenti di quelle allora in uso, soprattutto per proteggere in miglior misura la cavalleria, che era uno degli obiettivi-cardine dei reggimenti di arcieri. Questi ultimi erano formati in pevalenza da normalissimi fanti nonchè da cavalieri smontati da cavallo, che avevano come obiettivo principale la distruzione e lo scompaginamento dei reparti fondamentali dell'esercito nemico, come in questo caso la cavalleria feudale francese.
La costruzione di questa temibile arma da guerra era relativamente facile, si utilizavano di base dei rami di olmo o di frassino, che venivano accuratamente levigati e avevano una lunghezza approssimativa di un metro e mezzo; l'arcolungo sviluppava un peso alla corda di 50-80 libbre. Questi dati fanno capire come il maneggiare un arco di queste dimensioni e potenza non fosse poi così facile come costruirlo, era richiesta una certa forza per tenderlo unita ad una lunga pratica nell'uso. Ed è proprio a questo scopo che, per ordine espresso del re, in molte contee si "pubblicizzavano" gare a premi con l'uso di questa arma.
L'arciere inglese non indossava una protezione molto pesante, poichè una armatura ne avrebbe impedito i movimenti a scapito del tiro, in compenso si ha la quasi totale certezza che ad Azincourt i "longbowmen" fossero equipaggiati con una specie di "giubotto imbottito", buono solo contro gli attacchi più flebili, e altre piccole protezioni che dovevano coprire gambe e braccia. In compenso l'attrezzatura offensiva era di gran lunga superiore, l'arcire esperto infatti poteva usufruire di un grandissimo numero di frecce, e di un palo assai grande e robusto con una punta di ferro che, piantato nel terreno, veniva utilizzato come barriera contro le cariche nemiche.
Ma, nonostante i successi e l'organizzazione raggiunta dagli inglesi con questo reparto, in tutto il resto dell'Europa continentale il Longbow non prese mai completamente piede, mentre avrebbero trionfato, di lì a pochi anni ancora, le armi da fuoco.


La campagna di Enrico V

Nel 1360 si stipulò la pace di Brètigny con la quale Edoardo III si impegnava a rinunciare al trono di Francia in cambio delle terre di Poitou e della città di Calais. Il regnante francese Carlo V si adoperò per riorganizzare la sua patria e cercò di riconquistare gran parte dei territori perduti grazie anche al mitico condottiero Bernard du Guesclin. IL successore di Carlo V, Carlo VI dovette assistere all'uccisione di suo fratello Luigi d'Orleans da parte dell'inglese Giovanni Senza Paura, che riuscì quindi a riportare il caos all'interno della nobiltà francese.
Fu così, infatti, che si scatenò uno scontro (in realtà mai sopito) tra Orleanisti e Borgognoni, questi, ridotti in condizioni esasperate dalla guerra civile, chiesero l'aiuto e il sostegno di Enrico V re d'Inghilterra. Anche in Inghilterra infatti si erano verificati grandi scontri sociali con protagonisti i contadini. Persino clero e nobiltà erano divisi perchè sempre di più in lotta fra loro per ottenere migliori posti nella pubblica amministrazione. Ad aumentare ancora, se possibile, il clima di tensione sull'isola britannica vi era l'ascesa di un nuovo ceto che si andava consolidando a scapito dei due precedenti: la borghesia.

azincourt_1

Dopo aver sistemato i contadini ribelli nel suo paese, Enrico V accettò con favore l'invito dei Borgognoni che prometteva un grande bottino da poter "sevire" ai suoi nobili, che scalpitavano nell'ansia di un'occasione come questa. Fu così che nel 1415 Enrico V sbarcò a Le Havre con un esercito di 10.000 uomini e dopo aver conquistato in settembre la roccaforte di Harfleur, si mise in marcia verso Calais dove poteva raggiungere i rifornimenti necessari per continuare la sua campagna militare. Ma fu costretto dalla piena di un fiume ad addentrarsi verso l'interno dove, presso il castello di Azincourt, trovò l'esercito francese ad aspettarli

Gli eserciti di "mestiere"

Anche se ancora non rivestivano un ruolo di primaria iportanza, le fanterie nel XV secolo avevano assunto dimenmsioni numeriche superiori a quelle della cavalleria. Ma picchieri, arcieri e balestrieri non potevano essere reclutati addestrati e mantenuti perchè gli stati dell'epoca, con la loro caratteristica macchinosità burocratica, erano finanziariamente e logisticamente incapaci a mantenere truppe stabili.
Si andava sviluppando in tutt'Europa l'utilizzo delle truppe mecenarie, che si specializzavano in particolari frangenti della battaglia (mischie in corpo a corpo per i picchieri e i fanti, il tiro per i balestrieri e gli arcieri) e venivano assoldati da coloro che offrivano la paga superiore. Queste truppe di "mestiere" erano abbastanza ben organizzate e di norma comandate dal guerriero più esperto detto Capitano di Ventura (da cui il nome a queste truppe "soldati di ventura"), ma erano altrettanto inaffidabili. Infatti se lo stipendio non era pagato con regolarità abbandonavano il campo di battaglia, e potevano saccheggiare, come compenso, le stesse terre del loro ex-padrone.
Anche quando la guerra si fermava per un pò di tempo, i guerrieri si trasformavano in veri e propri razziatori di campagne, infatti venivano soprannominati dai francesi ècorcheurs ossia gli "scorticatori". Durante le pause della guerra dei cent'anni il fenomeno dei mercenari si diffuse anche in Italia dove giungevano queste compagnie mercenarie in cerca di contratti e di "lavoro" presso i molteplici staterelli presenti nella penisola. Tra le compagnie più famose che hanno combattuto nel nostro paese vi fu la "Compagnia bianca" dell'inglese John Hawkwood (italianizzato in Giovanni Acuto) che stupì per la sua organizzazione e abilità militare. Giovanni Acuto combattè per Milano, per il Papa, per Pisa ed infine nel 1377 perFirenze dalla quale ricevette onore e fortuna.

Jean Le Meingre Boucicault (1366-1421)

Tra i tanti nobili che combattevano per la Francia nelXV secolo spicca il nome di Jean Le Meingre detto Boucicault, cavaliere e maresciallo di Francia. Già da giovanissimo iniziò la sua avventura da guerriero, a soli quattordici anni ebbe il suo primo scontro in Normandia, mentre a sedici era a combattere nelle Fiandre.
Divenne cavaliere nel 1382 per meriti sul campo di Roosbeeke, e da lì cominciò la sua serie di battaglie: nel 1385 combattè in Prussia al fianco dell'Ordine Teutonico (vedi Tannenberg); nel 1386-87 combattè in Spagna; fu nominato Maresciallo nel 1391; nel 1396 era in lotta contro i turchi ma fu fatto prigioniero nella città di Nicopoli dove rimase fino al riscatto; continuò nel 1399, appena liberato, a combattere in Oriente per liberare Costanitinopoli e dal 1403 al 1409 si schierò con la città di Genova nelle sue continue attività guerresche contro Milano.
Fu trovato ad Azincourt ferito sotto una pila di cadaveri inglesi che lo attorniava: morì in prigionia nel 1421 senza che nessuno si offrisse di riscattarlo. In conclusione quest'uomo, uno dei più valorosi cavalieri dell'epoca, non passò un giorno della sua vita fuori dalla battaglia o da una prigione.


Le forze in campo

Per quanto riguarda le cifre esatte sulle forze a dsposizione dei due comandanti, bisogna sempre essere assai misurati, in quanto vanno presi in considerazione i numeri riportati dai narratori di entrambe le parti combattenti, i quqli, a seconda della "nazionalità", aumentavano e diminuivano le cifre sulle truppe.

 

Inglesi

Francesi

Totali

7.300

15.000

Arcieri

5.000

3.000

Cavalieri

1.300

2.000

Fanti

?

10.000

E' anche vero che talvolta neanche i generali sul campo avessero un'idea molto precisa su qanti fossero esattamente i loro soldati, e i narratori più che ai dati tecnici dello scontro si interessavano degli avvenimenti drammatici.
Per quanto riguarda le forze schierate in campo dagli inglesi si possono contare 5.000 arcieri, 1.200 uomini d'arme a cavallo ed un centinaio tra nobili e Lord cavalieri. I francesi avevano a disposizione un esercito sicuramente maggiore di numero che poteva contare su 15.000-20.000 uomini, di cui 2.000 erano cavalieri pesanti, e non è del tutto improbabile che quest'ultima cifra potesse essere addirittura maggiore.
Gran parte delle forze transalpine proveniva da guarnigioni delle città e dei castelli, un'altra parte era costituita da mercenari italiani. Di sicuro i generali si sentivano molto coperti come numero di truppe tanto da rifiutare addirittura una guarnigione di 6.000 balestrieri offerta dal Parlamento della città di Parigi

 
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La guerra dei 100 anni

Post n°1638 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Fu un conflitto che vide protagoniste la Francia e l'Inghilterra. Iniziò nel 1336 per terminare nel 1453, sebbene con lunghe tregue. Da quì il nome.
La causa fu il Trattato di Parigi del 1259 che assegnava la Guienna agli inglesi, obbligando la Francia a rivendicare il territorio.
Inoltre nello stesso periodo l'Inghilterra tentava di ottenere il dominio dei Paesi Bassi, satelliti francesi.
Alla morte di Carlo IV, ultimo discendente della dinastia dei Capetingi, il regno francese passò a Filippo VI di Valois, nonostante la rivendicazione di Edoardo III d'Inghilterra, anch'esso imparentato con i capetingi.

Nel 1339 Edoardo iniziò l'assedio di Cambrai e continuò con una serie di successi, come quello navale a l'Écluse nel 1340, come la battaglia di Crécy nel 1346, la presa di Calais nel 1347, e poi ancora la battaglia di Poitiers nel 1356 dove il figlio di Edoardo, detto il Principe Nero si distinse per il valore e l'abilità.
Nel 1360 terminò la prima fase di questa guerra con il Trattato di Brétigny, l'Inghilterra ottenne il Ponthieu e Guines nel nord; la Guienna, la Guascogna, il Poitou e Saintonge, rinunciando però alla corona di Francia.
Il bretone Bertrand Du Guesclin tra il 1372 ed il 1380 riconquistò una parte del territorio occupato dagli Inglesi.

Siamo così arrivati al 1380, anno della morte di Carlo V, al quale seguì una lunga tregua durante la quale si registrarono solamente piccole azioni solitarie.
Il conflitto riprese quando i Borgognoni, in lotta per ragioni dinastiche con gli Amagnacchi, chiesero l'intervento inglese.
I Francesi vennero sconfitti nel 1415 ad Azincourt e divetteri accettare, con il trattato di Troyes nel 1420, che la corona di Francia passasse ad Enrico V d'Inghilterra alla morte di Carlo VI.

Il trattato però non venne rispettato perchè Enrico V morì prima di Carlo VI, lasciando il figlio, Enrico VI, erede.
Gli inglesi riuscirono ad occupare Parigi e ad assediare Orléans.

In questa fase drammatica per la Francia che intervenne Jeanne d'Arc, Giovanna d'Arco.
Ella si impose al re ed al suo consiglio rompendo l'assedio inglese e facenso incoronare Carlo VII a Reims. L'esercito francese non si tirò indietro alla morte della contadina recuperando tutti i territori perduto, tranne Calais.

La guerra terminò senza trattati, contando gravi perdite per entrambe le fazioni sia economiche che politiche. Se la Francia dovette far fronte anche al conflitto interno tra Armagnacchi e Borgognoni, l'Inghilterra ebbe lo scontro che portò alla guerra delle Due Rose.
Così, mentre l'Inghilterrà iniziava il conflitto delle Due Rose, la Francia consolidava l'unità nazionale e rafforzava la monarchia.

 
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Poesia d'amore (Pasternak)

Post n°1637 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Nessuno sarà a casa
solo la sera. Il solo
giorno invernale nel vano trasparente
delle tende scostate.
Di palle di neve solo, umide, bianche
la rapida sfavillante traccia.
Soltanto tetti e neve e tranne
i tetti e la neve, nessuno.
E di nuovo ricamerà la brina,
e di nuovo mi prenderanno
la tristezza di un anno trascorso
e gli affanni di un altro inverno,
e di nuovo mi tormenteranno
per una colpa non ancora pagata,
e la finestra lungo la crociera
una fame di legno serrerà.
Ma per la tenda d'un tratto
scorrerà il brivido di un'irruzione.
Il silenzio coi passi misurando
tu entrerai, come il futuro.
Apparirai presso la porta,
vestita senza fronzoli, di qualcosa di bianco,
di qualcosa proprio di quei tessuti
di cui ricamano i fiocchi.

 
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Libri dimenticati:Groviglio di vipere

Post n°1636 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Stupendo romanzo di Francois Mauriac,da leggere e tenere in libreria

 
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Frase del giorno

Post n°1635 pubblicato il 15 Gennaio 2012 da odette.teresa1958

Amare significa aver cura della solitudine dell'altro senza mai colmarla nè conoscerla (Bobin)

 
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