Il labirinto
blog diarioMessaggi del 07/02/2012
Nato a Vicenza nel 1907 da una nobile famiglia, Piovene compì i suoi studi a Milano, laureandosi in filosofia. Iniziò giovanissimo l’attività di giornalista: corrispondente dell’”Ambrosiano” dalla Germania, poi del “Corriere della Sera “ da Londra e da Parigi, collaboratore ed inviato della “Stampa” che lascerà nel giugno del 1974, anno della sua morte, per divenire responsabile della sezione culturale e letteraria del “Giornale Nuovo” diretto da Montanelli. Già i racconti di La vedova allegra (Torino 1931) definiscono la narrativa di Piovene come sottile ricerca di sottili atmosfere psicologiche, indagate con un moralismo acuto e amaro, sullo sfondo di una provincia veneta limpidamente descritta e incisivamente rievocata nei suoi costumi, dominati da una rigida tradizione cattolica, dove la religiosità sfuma in sospetto e in sensualità repressa. Questo è il grande tema della seconda opera di Piovene Lettere di una novizia (Milano 1941) romanzo epistolare che resta il suo capolavoro. Seguiranno poi altri testi: La gazzetta nera (Milano 1943), Pietà contro pietà (id 1946), I falsi redentori (id 1949) e i grossi libri di viaggi De America (1953), Viaggio in Italia (1957) Madame la France (1967) La gente che perdé Gerusalemme (1968), saggi politici e morali. Piovene ritorna alla narrativa nel 1963 con Le furie e il salto qualitativo nettissimo del suo stile si ha con Le stelle fredde (Milano 1970), un’analisi morale mirabilmente esemplare cucita attorno ad un’esilissima trama. Guido Piovene muore a Londra il 12 novembre 1974 ed è sepolto nel famedio del cimitero di Vicenza.
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Hans Fallada, pron. Fàllada, pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen (Greifswald, 21 luglio 1893 – Berlino, 5 febbraio 1947), è stato uno scrittore tedesco.
È uno fra gli autori di lingua tedesca più conosciuti del XX secolo. Le sue opere, tradotte in diverse lingue, hanno riguardato essenzialmente scritti a sfondo sociale. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati postumi.
Il suo lavoro più noto è il romanzo E adesso, pover'uomo? (titolo originale Kleiner Mann, was nun?), scritto nel 1932. Quest'opera è conosciuta in Italia anche attraverso la riduzione per la televisione che ne fu fatta nei primi anni sessanta con il titolo Tutto da rifare pover'uomo e con l'interpretazione, fra gli altri, di Ferruccio De Ceresa, nel ruolo del protagonista, Paolo Poli, Luigi Vannucchi, Carlo Romano e Laura Betti.
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Lo scrittore adottò il suo pseudonimo ricavandolo da due fiabe dei fratelli Grimm: Hans im Glück (contenuta nella raccolta Kinder und Hausmärchen, composta fra il 1812 ed il 1822) e Die Gänsemagd (in Italia pubblicata con il titolo La guardiana delle oche), scritta intorno al 1815 e catalogata con il n. 89 in cui si narra di un cavallo di nome Fallada.[1]
Nato in una famiglia agiata, che trasferì la propria residenza più volte (a Berlino prima, nel 1899, e a Lipsia, successivamente, nel 1909) Fallada ebbe una gioventù caratterizzata da conflittualità con il padre che avrebbe desiderato per lui una carriera da giurista .
Nel 1911, all'età di diciotto anni, si iscrisse al Fürstliches Gymnasium a Rudolstadt (Saalfeld-Rudolstadt, Turingia). Fu in quell'anno che tentò il suicidio (secondo talune fonti fu invece coinvolto in un duello) insieme al suo amico Hanns Dietrich von Necker. Ferito gravemente, riuscì a salvarsi dalla morte ma fu internato in una clinica psichiatrica a Jena.
Lasciato il liceo senza diplomarsi, per emanciparsi dalla famiglia lavorò successivamente dapprima come agricoltore e poi come giornalista. Dal 1917 al 1919 si sottopose a diversi periodi di cure disintossicanti dalla dipendenza da alcool e sostanze stupefacenti. Trascorse anche periodi più o meno lunghi in carcere: nel 1924 (tre mesi, nel 1926 (due anni e mezzo) e nel 1933 (undici giorni).
I suoi primi romanzi furono pubblicati nel 1920, Der junge Goedeschal, e nel 1923, Anton und Gerda.
Nel 1929 si sposò con Anna Margarete Issel.
Il suo primo libro di successo è stato Bauern, Bonzen und Bomben, del 1931. In esso l'autore evoca le rivolte popolari di Neumunster avvenute durante la crisi del biennio 1928-1929.
"E adesso, pover'uomo?" [modifica]Il suo secondo romanzo fu Kleiner Mann, was nun? (del 1932), pubblicato in Italia con il titolo E adesso, pover'uomo?: acuminato profilo della società tedesca fra le due guerre, gli garantirà una notorietà al di fuori dei confini tedeschi.
Il romanzo narra le vicissitudini di un giovane contabile tedesco, Johannes Pinneberg, rappresentante della borghesia onesta e laboriosa, che viene avvinto nelle spirali della miseria a causa della grave crisi economica in cui versa il suo paese durante gli anni venti. L'unica risposta possibile al quesito posto dal "E adesso?" del titolo sembra essere insita per lo sventurato contabile nel suo rifugiarsi fra le rassicuranti mura domestiche.
Nel 1933, con l'ascesa al potere di Adolf Hitler, Fallada si ritira a Carwitz, nel Meclemburgo. Per lo scrittore ha inizio un periodo di prolificità che lo porta a scrivere molti dei suoi più conosciuti lavori: Wer einmal aus dem Blechnapf frißt e Wir hatten mal ein Kind nel 1934, Das Märchen vom Stadtschreiber, der aufs Land flog, nel 1935, Wolf unter Wölfen, nel 1937, Der eiserne Gustav, nel 1938, Der ungeliebte Mann, nel 1940 (nell'edizione italiana pubblicato con il titolo Senza amore), Ein Mann will hinauf, nel 1943.
Nel 1944 Fallada si separa dalla moglie intraprendendo una relazione con Ursula Losch, che sposerà poi nel 1945. Nel 1944 aveva iniziato a scrivere il romanzo Der Trinker, che sarà pubblicato solo nel 1950, sorta di racconto autobiografico in cui riassume fin dalla gioventù la sua attività di scrittore, alcolista e morfinomane.
Nel 1945, Johannes R. Becher lo invita a raggiungerlo a Berlino Est a lavorare al giornale Täglichen Rundschau. Potrà continuare la sua carriera di scrittore e dare alle stampe nel 1946 i suoi ultimi lavori: Der Alpdruck e Jeder stirbt für sich allein (tradotto in italiano come: Ognuno muore solo), l'ultimo romanzo, definito da Primo Levi "uno dei più bei libri sulla resistenza tedesca contro il nazismo". Ha pubblicato anche per i ragazzi Un tasso di nome Fridolino [2]
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Irene Brin, all'anagrafe Maria Vittoria Rossi (Sasso, 1911 – Bordighera, 31 maggio 1969), è stata una giornalista e scrittrice italiana.
Fu giornalista di costume e scrittrice, viaggiatrice, mercante d'arte e donna di grandissimi cultura e stile.
Indice
Le origini e gli esordi
Il padre di Irene Brin era un generale di carriera; la madre una donna austriaca di origine ebraica, poliglotta, da cui Irene apprese le lingue (ne parlava correntemente cinque) ed ereditò la passione per l'arte e la letteratura. Già dal 1934, a ventitrè anni non ancora compiuti, Maria Rossi esordì sulle colonne del quotidiano Il Lavoro di Genova, chiamatavi per iniziativa di Giovanni Ansaldo (che nel 1937 la segnalò a Leo Longanesi quale notista di costume per il nuovo settimanale Omnibus), con lo pseudonimo Mariù, successivamente mutato in Oriane in omaggio al personaggio creato da Marcel Proust
L'incontro con Gaspero del Corso
Già fidanzata con un caro amico di Montanelli, il genovese Carlo Ròddolo , fu in questo periodo che, in occasione di un ballo all'hotel Excelsior di Roma, conobbe Gaspero del Corso, un giovane ufficiale con il quale scoprì di condividere l'intensa passione per la Recherche, per l'arte in genere e i viaggi. Fu un amore improvviso tanto che i due si sposarono dopo pochissimi incontri.
La nascita di Irene Bri
Fu nel 1937 che Maria Vittoria Rossi divenne Irene Brin: lo pseudonimo le fu attribuito da Leo Longanesi, che invitò la giornalista a collaborare al rotocalco settimanale Omnibus, sul quale compariva -novità per l'epoca- una rubrica di cronache mondane scritte con malizia e raffinatezza, lontane dallo stile agiografico dell'epoca (sui rapporti con Longanesi, Irene scriverà, in morte dell'amico, un eccellente articolo, sul "Borghese" del 27 settembre 1957: "Un nome inventato"). Fu un'attività che Irene Brin svolse contemporaneamente ai suoi frequenti viaggi con il marito: viaggi che portarono la coppia a intrecciare rapporti con la migliore società cosmopolita.
La guerra
Nel 1943 i due coniugi tornarono a Roma. Formalmente dopo l'armistizio Gaspero del Corso era un disertore e quindi si nascose in casa, insieme a una quarantina di altri ufficiali e soldati sbandati per evitare i rastrellamenti tedeschi. In tale periodo le uniche entrate erano costituite dai compensi per le traduzioni di Irene, peraltro sempre più scarse via via che Irene smettava di lavorare per gli editori che collaboravano con gli occupanti. Fu così che la Brin iniziò a vendere i propri regali di nozze: a partire da una borsa di coccodrillo, per poi proseguire con stampe e disegni, e non da poco, dato che parliamo di artisti quali Picasso, Matisse, Morandi...
Poco dopo Irene Brin trovò una sistemazione come commessa nella libreria d'arte La Margherita, coadiuvata dal marito che sotto la falsa identità di Ottorino Maggiore le procacciava libri, disegni e clienti. Sulla loro attività, c'è l'eccellente racconto dell'americano Henry Furst "La morte di Mozart" (Longanesi, Milano 1957)
La galleria L'Obelisco
Durante l'attività presso La Margherita si presentò a Irene un allora sconosciuto artista, Renzo Vespignani, con un nutrito portafoglio di disegni. Irene e Gaspero comprarono in proprio i lavori e li rivendettero in brevissimo tempo, confermando così la propria vocazione di mercanti; fu questo il loro primo acquisto e anche la prima vendita per Vespignani.
Nel 1946 la coppia affittò un locale in Via Sistina, nel quale nacque la "Galleria l'Obelisco di Gaspero e Maria del Corso", che in breve tempo assunse un'importanza primaria nel panorama culturale della capitale, come si può evincere dall'elenco delle mostre organizzate nel corso del tempo.
Stile, arte, moda
L'attività di gallerista non impedì a Irene di continuare a coltivare con passione l'arte di una scrittura colta e raffinata.
la Settimana Incom
Nell'immediato dopoguerra infatti Irene Brin iniziò una lunga collaborazione con La Settimana Incom illustrata di Luigi Barzini Junior, la versione a rotocalco del più famoso cinegiornale del dopoguerra. Su quelle pagine Irene, con la scusa di dispensare alle lettrici consigli di stile, portamento, vita sociale, moda e così via, produceva dei minuscoli pezzi letterari ricchi di ironia e citazioni sotterranee per un pubblico colto e raffinato. I suoi articoli erano firmati con lo pseudonimo di Contessa Clara Ràdjanny von Skèwitch, personaggio che Irene impersonava fingendo d'essere un'anziana, aristocratica esule da un non meglio precisato paese d'oltrecortina, citando qua e là episodi riguardanti propri incontri con altezze reali, scrittori celeberrimi. così, alla voce sonno raccontava di una conversazione sull'insonnia tra Bergson e Proust; mentre alla voce taxi richiamava un incontro con un amico d'infanzia, esule a Parigi, che sbarcava il lunario con tale mestiere. Il personaggio della Contessa Clara ispirò ad Alberto Sordi la parodia radiofonica del Conte Claro.
Harper’s Bazaa
Irene peraltro personificava alla perfezione quell'ideale di stile di cui scriveva: basti pensare che nel 1950, passeggiando per Park Avenue con il marito, fu fermata da una signora che le chiese dove mai avesse potuto comprare un vestito così di classe (si trattava di una creazione di Fabiani). Fu così che Irene fece la conoscenza con Diana Vreeland, la mitica caporedattrice di Harper’s Bazaar’s, della quale Irene fu la prima italiana a collaborare, portando sulle pagine newyorchesi le prime avvisaglie del made in Italy, in un'epoca in cui il mondo della moda parlava soltanto francese.
Scambi culturali
Nella loro frenetica attività a Roma ed in giro per il mondo, Irene e Gaspero ospitarono all'Obelisco dozzine di artisti famosissimi o emergenti, ma destinati a un grande avvenire; e allo stesso modo portarono l'arte italiana nelle principali piazze nord- e sud-americane ed europee.
Gli ultimi giorni
Quando seppe di essere stata colpita da una malattia inguaribile, Irene reagì continuando la propria attività di lavoro e di viaggio esattamente come prima; nella primavera del 1969 infatti i due si recarono come di consueto a Strasburgo per visitare le esposizioni d'arte locali. Sulla strada del ritorno, non essendo in grado di proseguire il viaggio fino a Roma, Irene decise di fermarsi nella casa paterna dove mori' il 31 maggio.
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alla Romano nasce nel 1906 a Demonte (Cuneo), da famiglia di antiche origini piemontesi. Cresciuta in un clima ricco di sollecitazioni culturali, dopo il liceo si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Torino, dove i professori Ferdinando Neri e Lionello Venturi influiscono profondamente sulla sua formazione. Su suggerimento di Venturi frequenta la scuola di pittura di Felice Casorati, e comincia ad occuparsi di critica d'arte. Nel 1928 si laurea a pieni voti in letteratura romanza con una tesi sui poeti del "dolce stilnovo".
Dopo aver fatto la bibliotecaria a Cuneo, si trasferisce a Torino con il marito, Innocenzo Monti, e con il figlio. Qui insegna storia dell'arte in vari istituti, continuando a coltivare la sua passione per la poesia e la pittura. I suoi quadri vengono esposti in diverse mostre personali e collettive. Inoltre il giudizio positivo espresso da Eugenio Montale su alcuni suoi versi, la incoraggia nel 1941 a pubblicare la sua prima raccolta di poesie, Fiore.
Durante la guerra torna a vivere presso la madre a Cuneo, dove entra in contatto con le bande partigiane di "Giustizia e Libertà" e aderisce al Partito d'Azione. Frattanto Cesare Pavese le commissiona la traduzione dei Tre racconti di Flaubert (1943).
Nel dopoguerra raggiunge il marito a Milano. Pertanto riprende l'insegnamento e inizia a lavorare ad una raccolta di brevi testi in prosa, Le metamorfosi, con cui nel 1951 esordisce nella narrativa. Dopo essere stato sottoposto al giudizio di Pavese, di Natalia Ginzburg e di Elio Vittorini, nel 1953 viene dato alle stampe il suo primo romanzo Maria, che ottiene, in seguito all'elogio di Montale sul «Corriere della Sera», un notevole successo di critica; e l'anno successivo vince il Premio Veillon.
Nel 1955 esce un libretto di poesie L'autunno, mentre nel 1957 il suo nuovo romanzo Tetto murato vince il Premio Pavese. Dopo la pubblicazione nel 1960 di un libro di viaggi dal titolo Diario di Grecia, l'anno successivo pubblica il romanzo L'uomo che parlava solo. In quello stesso anno, in seguito alla morte della madre, Lalla Romano ritorna a Demonte, a rivedere i luoghi della sua infanzia; ed inizia la stesura del suo quarto romanzo, La penombra che abbiamo attraversato, con cui nel 1964 si rivela al grande pubblico. Quindi nel 1969 raggiunge un successo ancor più grande con Le parole tra noi leggère, vincitore del Premio Strega e best-seller dell'anno.
Nel '73 pubblica un nuovo romanzo, sempre di natura autobiografica, L'ospite; ed inizia a collaborare a «Il Giorno». L'anno seguente esce la raccolta di poesie Giovane è il tempo, con cui vince il Premio Sebeto. La Presidenza del Consiglio le assegna la "Penna d'Oro" nel 1979, anno in cui Lalla Romano pubblica il capolavoro Una giovinezza inventata, e Lo stregone. Nel '75, oltre al volume di racconti La villeggiante, appare il singolare libro, dove "le immagini sono il testo e lo scritto un'illustrazione", Lettura di un'immagine, ristampato nel 1986 col titolo Romanzo di figure, e ulteriormente incrementato nel 1997 col titolo Nuovo romanzo di figure.
Nel 1981 esce Inseparabile, e nel 1986 La treccia di Tatiana, con fotografie di Antonio Ria. Nel 1987 il romanzo Nei mari estremi rievoca la malattia e la morte del marito. Infine nel 1989 vince il premio Procida-Isola d'Arturo/Elsa Morante con Un sogno del Nord.
Negli ultimi anni ha pubblicato Le lune di Hvar (1991), Ho sognato l'Ospedale (1995), In vacanza col buon samaritano (1997), L'eterno presente. Conversazione con Antonio Ria (1998), Dall'ombra (1999).
Muore a Milano, il 26 giugno 2001
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Baliano (o Barisano) di Ibelin "il Giovane" (1140 circa – 1193) è noto come uno dei più importanti cavalieri crociati del Regno di Gerusalemme. Era il terzogenito di Barisano di Ibelin e fratello di Ugo e Baldovino.
Suo padre, Barisano di Ibelin era stato cavaliere al servizio della Contea di Giaffa ed Ascalona, ed era stato ricompensato per i suoi servigi con l'assegnazione del castello di Ibelin dopo la rivolta di Ugo II di Le Puiset. Barisano aveva inoltre sposato Helvis, che aveva portato in dote la ricca Signoria di Ramla.
Baliano, come suo padre, in realtà si chiamava Barisano. Secondo alcuni questo nome rinvia ad un'origine barese (= di Bari) del capostipite della famiglia. La forma Barisano si trova anche in Toscana e in Liguria intorno al 1175. La forma Baliano sembra dovuta ad una semplificazione tipica della pronuncia del francese antico del XII sec. (Balian). È a volte chiamato Baliano il Giovane o Baliano II per distinguerlo dal padre quando quest'ultimo è indicato con il nome Baliano. Viene a volte anche chiamato Baliano di Ramla o Baliano di Nablus, mentre le fonti arabe lo indicano con il nome di Balian ibn Barzan.
La data precisa della sua nascita è sconosciuta, ma raggiunse la maggiore età nel 1158 quando appare nei documenti ufficiali che lo descrivono per la prima volta come infra annos ovvero non ancora adulto nel 1155.
Dopo la morte del fratello maggiore di Baliano, Ugo intorno al 1169, il castello della famiglia Ibelin passò all'altro fratello Baldovino il quale, preferendo mantenere il titolo di Signore di Ramla lo cedette a Baliano, che divenne suo vassallo.
Lotte per la successione nel Regno di Gerusalemme
Sia Baliano che suo fratello Baldovino appoggiarono il conte Raimondo III di Tripoli nel 1174 per la lotta alla reggenza del Regno di Gerusalemme per conto di Baldovino IV contro la fazione favorevole a Milo di Plancy.
Entrambi i fratelli parteciparono nel 1177 alla Battaglia di Montgisard guidando vittoriosi l'avanguardia delle linee crociate contro il grosso dell'esercito musulmano.
In quello stesso anno Baliano sposò Maria Comnena, vedova del re Amalrico I, diventando patrigno della figlia di Maria, la principessa Isabella di Gerusalemme e ricevendo in dote la signoria di Nablus, dono di nozze di Maria.
Nel 1179 suo fratello Baldovino venne fatto prigioniero da Saladino e Baliano si adoperò per raccogliere la cifra del riscatto riuscendo a farlo liberare l'anno successivo, gran parte della cifra venne pagata dall'Imperatore bizantino Manuele I Comneno, zio di Maria.
Nel 1183 sia Baliano che Baldovino supportarono Raimondo III di Tripoli contro Guido di Lusignano, marito di Sibilla di Gerusalemme, sorella di Baldovino IV e reggente dello stesso, gravemente ammalato di lebbra. Il re Baldovino IV volle che suo nipote di soli cinque anni, Baldovino di Monferrato, venisse incoronato co-reggente mentre era ancora in vita, con l'intento di impedire che Guido di Lusignano diventasse legittimo erede al trono. Poco prima della sua morte nel 1185, Baldovino IV ordinò una cerimonia solenne nella Chiesa del Santo Sepolcro dove suo nipote venne incoronato; alla cerimonia fu lo stesso Baliano che portò sulle spalle il fanciullo per l'incoronazione, come simbolo del sostegno della famiglia di Isabella a suo nipote. Presto il piccolo di soli otto anni divenne l'unico erede legittimo del regno di Gerusalemme, ma quando nel 1186 anch'egli morì ad Acri, subito Maria e Baliano, con il supporto dello stesso Raimondo, reclamarono il diritto alla successione per la figlia di Maria Comnena, Isabella di Gerusalemme allora quattordicenne. Tuttavia il marito di costei, Umfredo IV di Toron, fedele a Guido di Lusignano, rifiutò la corona restituendola a Guido.
Seppur con riluttanza, Baliano dovette prestare omaggio a Guido di Lusignano, al contrario del fratello Baldovino, che preferì piuttosto recarsi in esilio ad Antiochia, affidando la tutela di suo figlio Tommaso, futuro signore di Ramla a suo fratello Baliano.
Lotta tra Raimondo III di Tripoli e Guido di Lusignano
Rimasto nel Regno di Gerusalemme al servizio di Guido di Lusignano, Baliano assistette alla rapida fine del regno. Nel 1186 Saladino divenuto sultano d'Egitto e di Damasco, minacciò l'invasione del regno di Gerusalemme a seguito delle continue scorribande di Rinaldo di Chatillon, signore d'Oltregiordano contro le carovane musulmane. Saladino godeva dell'appoggio delle guarnigioni di Tiberiade ai confini del regno di Gerusalemme e sotto la giurisdizione di Raimondo III di Tripoli. Per sventare la minaccia Guido raccolse un esercito a Nazaret pianificando l'assedio di Tiberiade, ma Baliano sconsigliò un assalto alla fortezza suggerendo invece di inviare un'ambasciata a Raimondo per trattare una riappacificazione prima che Guido si gettasse in un attacco suicida contro l'esercito numericamente superiore di Saladino. Venne inviata una prima ambasciata che però non ebbe buon esito lasciando la situazione in stallo per tutto l'inizio del 1187. Dopo la Pasqua di quell'anno, Baliano, insieme a Gerardo di Ridefort (Gran Maestro dei Templari), a Roger de Moulins (Gran Maestro degli Ospitalieri), a Reginaldo di Sidone e a Ioscio arcivescovo di Tiro, guidò una nuova ambasciata a Tripoli.
Durante il viaggio l'ambasciata si fermò nel feudo di Nablus appartenente a Baliano, il quale decise di trattenersi brevemente mentre gli altri sarebbero ripartiti. Ma il 1º maggio di quell'anno sia i Templari che gli Ospitalieri vennero massacrati alla battaglia di Cresson dal figlio di Saladino, mentre Baliano, a un giorno di viaggio di ritardo, era a Sebastea per celebrare una festività. Dopo aver raggiunto il castello di La Fève dove avrebbero dovuto essere accampati i suoi compagni d'arme, Baliano trovò il castello deserto e seppe della disastrosa disfatta dai suoi superstiti. Dopo aver saputo della sconfitta, Raimondo accettò di incontrare l'ambasciata di Baliano a Tiberiade e di scortarla verso Gerusalemme.
La battaglia di Hattin
Baliano morì nel 1193 intorno ai cinquant'anni, lasciando quattro figli
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Il 4 luglio, all'alba, l'esercito cristiano tentava disperatamente di rimettersi in marcia verso Hattin. Abu Shama scrisse: «Sirio gettava i suoi raggi su quegli uomini vestiti di ferro e la rabbia non abbandonava i loro cuori ... Speravano di raggiungere l'acqua, ma avevano di fronte le fiamme dell'inferno e furono sopraffatti dall'intollerabile calura». Saladino attaccò la retroguardia. I Cavalieri Templari e gli Ospitalieri contrattaccarono più volte. Intanto Raimondo continuava ad avanzare verso le gole di Hattin. Infine i fanti, in preda allo sconforto, si dispersero sulle colline. Allora i musulmani diedero fuoco alle sterpaglie. Il vento portò il fumo verso l'esercito cristiano già tormentato dalla sete. Saladino approfittava della situazione scatenando il lancio delle frecce, che colpivano ovunque. In mezzo al fumo dei roghi, la polvere sollevata da uomini e cavalli, le grida e il terrore che si propagava di schiera in schiera, ormai nessun ordine era più mantenuto. I cristiani erano in balia del nemico. Raimondo, visto quello che accadeva, ordinò la carica ai suoi cavalieri. Techedino aprì le fila e lasciò passare i soldati di Raimondo, poi richiuse i varchi e contrattaccò. Raimondo si trovò isolato fuori del campo di battaglia. Non gli rimase che allontanarsi con i superstiti. 150 cavalieri cristiani ancora montati, disposti dall'alto del corno meridionale, riuscirono a caricare per ben due volte. Raccolte le energie, si compattarono e caricarono verso il basso. La battaglia si concentrò intorno alla Reliqua della Croce, portata in battaglia a supporto spirituale e protezione dell'armata dal Vescovo di Acri e di Lydda. Il Vescovo di Acri rimase ucciso. La reliquia passò allora al Vescovo di Lydda. Ma anche questi fu sopraffatto e la Croce sparì per sempre. Techedino si impadronì personalmente della Reliquia. Il segnale della definitiva sconfitta dei cristiani, fu la conquista degli islamici della tenda rossa di Guido di Lusignano. Allora gli ultimi cavalieri cessarono di combattere. IN circa sei ore, dalle 9 del mattino alle 3 del pomeriggio, l'esercito del Regno aveva cessato di esistere.
La fuga di Raimondo rappresenta un punto interrogativo. C'è chi vede in questa azione un possibile tradimento, dal momento che riuscì a fuggire attraverso un varco aperto dalle truppe di Saladino.
Entrambe le volte l'esercito musulmano fu rigettato. Una delle due carcihe, addirittura, finì molto vicino a Saladino, sarebbero bastati pochi altri metri per cambiare il destino della battaglia.
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Baldovino IV, il "Re lebbroso" di Gerusalemme, venne incoronato all'età di tredici anni, il 15 luglio del 1174. Questo personaggio fu uno dei più ammirevoli dell'epopea Crociata, per il coraggio, la lealtà e la saggezza dimostrate, nonostante le grandi sofferenze a causa della sua malattia. Nel tentativo di arrestare l'avanzata di Saladino verso la Siria, i crociati di Baldovino IV, comandati da Rinaldo di Chatillon (gia Principe di Antiochia, dal 1153 al 1160) insieme ai Templari, intercettarono l'armata di Saladino nei pressi di Ascalona. Le forze congiunte cristiane ammontavano a circa 500 cavalieri di Baldovino, 80 Cavalieri Templari e poche migliaia di unità di fanteria, mentre Saladino poteva contare su 26.000 uomini. Saladino si spostò verso Ramla e la conquisto. Sottovalutando l'armata cristiana, permise al suo esercito di diffondersi a raggio lungo una vasta area. Lo scontro avvenne a Montgisard, nei pressi di Ramla, nel novembre del 1177, cogliendolo del tutto di sorpresa Saladino. La Battaglia di Montgisard fu una sciagura per Saladino, che perse buona parte del suo esercito. L'epica vittoria (ricordata come la Battaglia di Montgisard) sulle sovrastanti forze musulmane, per Baldvino frutto dell'aiuto divino, dette respiro al Re di Gerusalemme, seguì un (breve) periodo di pace.
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Nella primavera del 1212, papa Innocenzo III aveva proclamato la quinta crociata e a questo scopo aveva ordinato a tutti i vescovi di preparare gli animi, organizzando grandi processioni.
"Eodem anno fuit iter stultorum puerorum", "in quello stesso anno ebbe luogo il viaggio degli stupidi bambini": con questa sprezzante frase un analista del tempo liquida un fenomeno di esaltazione collettiva senza precedenti, al cui confronto le strane apparizioni di angeli e le molte madonnine piangenti dei giorni nostri, seppure esaltate dai media, appaiono ben poca cosa.
Un giorno d' estate del 1212, infatti, alla corte di Filippo Augusto re di Francia si presentò un pastorello di dodici anni che si chiamava Etienne(Stefano); portava con sè una lettera che diceva di aver ricevuto da Cristo e che gli dava l' incarico di liberare il Santo Sepolcro insieme ad altri bambini come lui. Nessuno a corte lo prese sul serio, ma il piccolo pastorello cominciò a predicare davanti alle chiese di Francia e in breve tempo sollevò un tale entusiasmo da trascinare con sè folle di bambini.
I bambini fuggivano di casa per unirsi al gruppo dei piccoli crociati; in breve tempo questa folla s' ingrossò sino a comprendere molte migliaia di persone.
Stefano li conduceva in direzione del mare: il mare infatti (dicevano le sue visioni) si sarebbe aperto al loro passaggio come era avvenuto con Mosè nel Mar Rosso.
Un gruppo di bambini francesi, guidati dal pastorello Etienne, partì da Cloyes, un paese non lontano da Chartres situato sul cammino di Santiago, mentre un altro, di bambini tedeschi, capeggiato da un giovane chiamato Nikolaus, mosse da Colonia. Lungo il traggitto il corteo si ingrossava a vista d' occhio, a mano a mano che si univano i bambini delle città e delle campagne da esso attraversate; si parla di venti o trentamila persone per ciascuno dei due gruppi, formato non soltanto da bambini e ragazzi, ma anche da giovani donne con i figli al seno, prostitute e poveracci, cioè quasi tutti disperati con poco o nula da perdere, esaltati dalla prospettiva di una missione "santa" per il cui successo la loro stessa condizione di emarginati costituiva un presupposto vincente.
La predicazione francescana fu infatti uno dei motori ideologici di questa pazzesca impresa: il presupposto era che quello che non era riuscito ai potenti della terra, ai nobili e cavalieri, sarebbe riuscito ai bambini e ai loro seguaci, perchè veramente puri di cuore e vicini a Dio.
Inutile dire che l' impresa, se incontrò il massimo appoggio e favore del popolo, fu osteggiata in tutti i modi dal clero e dalle autorità costituite; il re di Francia Filippo Augusto, al quale Etienne e i suoi erano andati a chiedere sostegno a Parigi, ordinò loro di tornarsene a casa, forte del parere di un comitato di "esperti", formato da dottori dell' università.
Come finì? Malissimo, com' era da prevedere, e come tutte le crociate riferiscono. I bambini tedeschi si divisero in due o tre gruppi diretti verso l' Italia; il più importante, quello diretto da Nikolaus, dopo aver passato le Alpi-impresa di per sè già straordinaria, nelle condizioni dell' epoca-arrivò decimato a Genova dove i piccoli crociati si dispersero, demoralizzati e abbattuti, giacchè dopo tante peripezie il mare non si era aperto davanti a loro come il Mar Rosso.
Una parte si imbarcò effettivamente su una nave e se ne persero le tracce; gli altri tornarono a casa o rimasero a lavorare in Italia. Una sorte molto peggiore toccò ai bambini francesi; giunti a Marsiglia vennero imbarcati su sette navi da due mercanti senza scrupoli( dai significativi nomi di Ugo il Ferro e Guglielmo il Porco) che promisero di condurli in Terrasanta e invece li vendettero come schiavi in Egitto, a conclusione di un viaggio spaventoso. Di loro non si seppe più nulla.
Della tragica avventura di quei bambini del XIII secolo è rimasta traccia nella fiaba del pifferaio di Hamelin:"...tutti i bambini uscivano dalle case e lo seguivano come incantati; niente poteva fermarli. Giunsero ai piedi di una montagna, dove improvvisamente si aprì una grande porta; tutti i bambini vi entrarono, la porta si richiuse dietro di loro e nessuno li rivide mai più".
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Libri dimenticati:Ognuno muore solo Romanzo molto particolare di Hans Fallada | |||
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Frase del giorno Dagli amici mi guardi Dio! |
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Inviato da: RicamiAmo
il 01/08/2014 alle 18:11
Inviato da: Dolce.pa44
il 26/07/2014 alle 18:22
Inviato da: do_re_mi0
il 23/04/2014 alle 18:01
Inviato da: odio_via_col_vento
il 14/04/2014 alle 20:57
Inviato da: Krielle
il 23/03/2014 alle 04:38