Messaggi del 26/02/2012

Scrittori dimenticati:De Queiros

Post n°2013 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

osé Maria Eça de Queirós (Póvoa de Varzim, 25 novembre 1845Neuilly-sur-Seine, 16 agosto 1900) è stato un giornalista, diplomatico e scrittore portoghese.

Biografia [modifica]

Massimo esponente del realismo portoghese, ha innovato profondamente la lingua portandola agli esiti attuali. Grande viaggiatore, ha composto all'estero la maggior parte della sua opera anche se con un occhio costantemente attento alla realtà portoghese di cui è anche un profondo critico.

La produzione letteraria di Eça De Queirós non si riduce ai romanzi, come Il cugino Basilio (1878), di impronta veristica, Il crimine di Padre Amaro, I Maia, L'illustre casata Ramires, La capitale (1880) di gusto satirico e umoristico, ma comprende anche molti racconti, come Il Mandarino (1880), che sono spesso esperimenti che costituiscono un laboratorio di nuovi romanzi.

Tra gli impegni più rilevanti dell'autore vi fu il progetto di redigere una serie di dodici romanzi definiti come: Scene della vita portoghese, da Lisbona a Oporto, dalla provincia, ai professionisti, ai commercianti, agli uomini politici, agli avventurieri, ai nobili, alle prostitute, ai banchieri; quindi una completa galleria di tipi sociali avrebbe dovuto apparire in questi racconti, per fornire al lettore un quadro completo della vita contemporanea portoghese.

Eça preparò i titoli delle dodici opere: il primo sarebbe risultato La Capitale e l'ultimo I Maia, e dopo tre anni di lavoro quello che avrebbe dovuto essere un breve racconto en che invece divenne un volume di seicento pagine. Il suo romanzo, che si occupava prevalentemente della vita letteraria di Lisbona, dai giornalisti agli artisti, suscitò scalpore e scandalo, al punto da attendere cinquant'anni prima di pubblicarlo.[1]

Negli anni seguenti Eça si impegnò nella stesura de I Maia, dove tracciò un quadro di Lisbona un po' meno crudo rispetto all'opera precedente. Grazie al suo estro ricco di fantasia, impregnata di un gusto romantico, l'autore mise in ridicolo l'ambiente e la società contemporanea partendo dallo spunto di una storia di un incesto avvenuto tra i due protagonisti.

Pur seguendo nelle sue opere la linea tradizionale del romanzo dell'Ottocento, basata sull'intreccio e sui dialoghi efficaci, su una galleria di tipi e di caratteri descritti con acume e profondità di analisi, non mancano spunti originali, sinceri ed autentici che rendono ancor più gradevole l'intreccio.

 
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Scrittrici dimenticate:Teresa Albarelli

Post n°2012 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Nacque a Verona da Francesco e da Anna de Rouer nel 1788 e morì il 19 ottobre 1868. Ebbe come maestro di studi l’abate Giuseppe Barbieri. Scrisse sermoni, sonetti, canzoni ed epistole molto apprezzate dai suoi contemporanei tra i quali l’abate Antonio Cesari, Giuseppe Maffei e Vincenzo Monti che lodò la sua opera intitolata Visione.


 
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Scrittrici dimenticate:Marie Corelli

Post n°2011 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Nata con il nome di battesimo di Mary Mackay, la Corelli (1855-1924) era la figlia illegittima di Charles Mackay, famoso giornalista, poeta ed autore di canzoni scozzese, e di Mary Elizabeth Mills (probabilmente la sua governante).

Nel 1866 venne inviata in un collegio a Parigi per la sua educazione e fece ritorno in patria quattro anni dopo. All’eta' di trent’anni muto' il suo nome in Corelli, che divenne il suo nome d’arte quando esordi' nel mondo dell’arte come musicista, sostenendo di essere figlia di un conte italiano e di avere vent’anni.
Dopo aver abbandonato la musica, inizio' a scrivere pubblicando nel 1886 il suo primo racconto dal titolo 'A Romance of Two Worlds'.
Divenne famosa in Inghilterra per tre motivi fondamentali: la Regina Vittoria prediligeva i suoi romanzi e dichiaro' apertamente di attenderne con impazienza l’uscita; la sua personalita' era autenticamente eccentrica e i suoi libri facevano epoca. Fu ammirata da molti personaggi famosi tra cui Gladstone, Lord Randolph Churchill, Re Edoardo VII e la Regina Alexandra.

 
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Gaetano Bresci

Post n°2010 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Gaetano Bresci (Prato, 10 novembre 1869 - Isola di Santo Stefano, 22 maggio 1901), è stato un anarchico italiano, condannato a morte (poi la pena sarà commutata ai lavori forzati) per aver messo in atto una pratica d'azione diretta (che Bresci stesso chiamò «un fatto»): aver colpito a morte il Re Umberto I





Biografia

Gaetano Bresci nacque il 10 novembre 1869 a Coiano, frazione di Prato, in una famiglia piccoli contadini. Lavorò molto giovane in un'azienda di filatura e divenne rapidamente operaio qualificato. Fin da l'età di 15 anni militò nel circolo anarchico di Prato. Condannato una prima volta nel 1892 a 15 giorni di prigione per «oltraggio e rifiuto di obbedienza alla forza pubblica», fu schedato come «anarchico pericoloso» e relegato nel 1895 (ai sensi delle leggi speciali di Crispi) a Lampedusa. Amnistiato a fine 1896, emigrò negli USA. Giunse a New York il 29 gennaio 1898, si recò a Paterson (New Jersey), dove trovò lavoro in industria tessile e frequentò l'importante Comunità anarchica di emigrati italiani .
E' negli USA allorché gli giunse la notizia dei gravi fatti del maggio 1898 di Milano, quando i cannoni del generale Bava-Beccaris spararono sulla folla causando 80 morti e 450 feriti.
A. Beltrame, L'assassinio del re Umberto I da parte dell'anarchico pratese Gaetano Bresci, disegno di copertina de La Domenica del Corriere, 6 agosto 1900
Fu allora che decise che sarebbe rientrato in Italia per uccidere il re Umberto I: egli aveva infatti autorizzato Bava Beccaris a sparare sulla folla inerme, decorandolo poi con la "Gran Croce dell'Ordine Militare di Savoia" (5 giugno 1898) per i servizi resi al paese.
Il fatto


Gaetano Bresci uccise a Monza, la sera di domenica 29 luglio 1900, sparandogli contro tre colpi di pistola (o quattro, le fonti storiche non concordano) re Umberto I di Savoia. Il sovrano stava rientrando in carrozza nella sua residenza monzese dopo una premiazione in una società sportiva. L'assassinio - immortalato in una celebre tavola del pittore Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» - avvenne sotto gli occhi della popolazione festante che salutava il monarca. Bresci si lasciò catturare senza opporre resistenza.
Il processo, la condanna e la morte

Il processo contro Bresci fu istruito in brevissimo tempo. Il 29 agosto 1900, cioè un mese esatto dopo il delitto, Bresci comparve nella corte d’Assise di Piazza Beccaria a Milano. La sentenza era scontata in partenza. Gaetano Bresci aveva chiesto come difensore il deputato socialista Filippo Turati, ma questi aveva declinato l’incarico e fu sostituito dall’avvocato anarchico Francesco Saverio Merlino.


L’imputato mantenne un contegno conforme al personaggio che rappresentava. Freddo e distaccato, quasi sereno, ascoltò la lettura del capo d’accusa (per la verità retorico fino all’inverosimile) senza mostrare nè pentimento né spavalderia.

Ecco il testo del suo interrogatorio in aula :

Presidente: «L’imputato ha qualcosa da aggiungere alla sua deposizione testé letta?»
Bresci: «Il fatto l’ho compiuto da me, senza complici. Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. Bisogna andare all’estero per vedere come sono considerati gli italiani! Ci hanno soprannominati “maiali“... »
Presidente: «Non divaghi...»
Bresci: «Se non mi fa parlare mi siedo.»
Presidente: «Resti nel tema.»
Bresci: «Ebbene, dirò che la condanna mi lascia indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione proletaria.»
Presidente: «Ammettete di avere ucciso il re?»
La vita di Gaetano Bresci nei fumetti di Santin e Riccomini (clicca sull'immagine per ingrandirla)
Copertina del libro di Santin e Riccomini dedicato a Gaetano Bresci

Bresci: «Non ammazzai Umberto; ammazzai il Re, ammazzai un principio! E non dite delitto ma fatto!»
Presidente: «Perché lo avete fatto?»
Bresci: «Dopo lo stato d’assedio di Sicilia e Milano illegalmente stabiliti con decreto reale io decisi di uccidere il re per vendicare le vittime.»
Quando il Presidente gli chiese perché aveva compiuto quel gesto, Bresci rispose:
«I fatti di Milano, dove si adoperò il cannone, mi fecero piangere e pensai alla vendetta. Pensai al re perché oltre a firmare i decreti premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.»

Ascoltati i testimoni, i giurati si ritirarono per decidere e dopo pochi minuti il capo giuria ragionier Carione lesse il verdetto che dichiarava l’imputato colpevole e lo condannava ai lavori forzati.

Scontò la pena nel penitenziario di S. Stefano, presso Ventotene (Isole Ponziane) e per poterlo controllare a vista venne edificata per lui una speciale cella di tre metri per tre, priva di suppellettili.

Morì il 22 maggio 1901 "suicidato" dallo Stato e probabilmente venne ucciso anche prima di questa data ufficiale. Le autorità divulgarono la notizia del suo suicidio: impiccato per mezzo di un lenzuolo o un asciugamani.

Alcune coincidenze: un carcerato di Santo Stefano condannato all'ergastolo ottenne la grazia, il direttore raddoppiò il suo stipendio.

Vi è incertezza anche sul luogo della sua sepoltura: secondo alcune fonti, fu seppellito assieme ai suoi effetti personali nel cimitero di S. Stefano; secondo altre, il suo corpo venne gettato in mare. Le sole cose rimaste di lui sono il suo cappello da ergastolano (andato distrutto durante una rivolta di carcerati nel dopoguerra) e la rivoltella con cui compì il regicidio.
Contesto storico in cui maturò l’uccisione di Umberto I di Savoia

Nel 1898, a circa 30 anni dall’annessione della Lombardia al Regno d’Italia, la situazione economica era gravissima. Si ricorda che in questi 30 anni emigrarono circa 519.000 lombardi .

A Milano, a seguito dell’aumento del costo della farina e del pane, gravati dall’esosissima tassa sul macinato, imposta dal regno sabaudo, il popolo affamato insorse e assaltò i forni del pane. L’insurrezione durò vari giorni e fu repressa nel sangue con i fucili e i cannoni dai Carabinieri al comando del generale piemontese Bava Beccaris , che poi per questa azione di ordine pubblico fu insignito con la Croce di grand'ufficiale dell'ordine militare di Savoia, «per rimettere il servizio reso alle istituzioni e alla civiltà" da Umberto I re d’Italia». Nella feroce repressione militare si calcola che vi furono piú di trecento insorti uccisi (i dati non sono precisi) e centinaia di feriti.

Gaetano Bresci, secondo la filosofia di un certo anarchismo militante, intese vendicare l’eccidio e rendere giustizia, perciò uccise il Re Umberto I di Savoia in quanto responsabile in capo di questi tragici avvenimenti.

Reazioni

Tutti gli amici più stretti e i parenti di Bresci vennero arrestati nel tentativo di dimostrare che Bresci non aveva agito individualmente ma aveva presto parte a un vastissimo complotto anarchico internazionale. Anche la polizia di Paterson fu mobilitata per dimostrare l'esistenza di tale complotto, ma non trovò assolutamente nessuna prova. «L'Avanti», divenuto capro espiatorio nonostante non fosse affatto vicino agli anarchici, subì un'aggressione da parte dei conservatori, in seguito alla quale vennerro arrestati alcuni lavoratori del giornale e nessun aggressore. Molti anarchici in tutta Italia vennero arrestati, colpevoli di apologia di regicidio. In effetti a Bresci venivano dedicate feste e brindisi, in Italia quanto a Paterson.
Gli intellettuali di fronte al regicidio

Molti intellettuali si mostrarono addolorati per la morte del re. La regina ricevette le “sentite condoglianze” di personalità quali Carducci, De Amicis, Bissolati, Don Albertario, Pascoli (scrisse un Inno al re) e Gabriele D’Annunzio (anch’egli scrisse un ode al re).

Ben pochi ebbero il coraggio di andare oltre la triste retorica di regime e tra questi, merita una citazione il frate francescano Giuseppe Volponi che manifestò pubblicamente la propria solidarietà a Bresci e per questo fu condannato a 7 mesi di galera. Lev Tolstoj analizzò in maniera più approfondita l’origine della violenza, sostenendo che questa viene dall’alto: «Se Alessandro di Russia, se Umberto non hanno meritato la morte, assai meno l’hanno meritata le migliaia di caduti di Plevna o in terra d’Abissinia».
Reazioni della stampa

La carta stampata si schierò contro il regicida in maniera dura e risoluta: «L’Avanti» definì Bresci «un pazzo criminale»; il «Corriere Mercantile» di Livorno auspicò la pena di morte e la tortura; Francesco Crispi ne «La Tribuna» invitò le istituzioni alla dura repressione dei nemici interni della nazione.

Nessuno però raggiunse la triste retorica del quotidiano di Torino «La Stampa», che annunciò la morte di Umberto con queste parole:

«Mostruoso! Orribilmente mostruoso! Il sovrano più popolare, più buono, più mite, affezionato al suo popolo... il nostro re Umberto assassinato! Ma fin dove può ancora trascendere la pazzia di una belva umana se osa puntare una rivoltella contro un cuore così pietoso, così leale, Povero re! Povera patria nostra!».

 
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Giovanni Passannante

Post n°2009 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Giovanni Passannante (Salvia di Lucania, 19 febbraio 1849 – Montelupo Fiorentino, 14 febbraio 1910) è stato un anarchico repubblicano italiano. Fu autore di un attentato fallito alla vita di Re Umberto I di Savoia nel 1878. Condannato a morte, la pena gli fu commutata all'ergastolo. La sua prigionia fu dura e vi è chi ritiene che ciò l'abbia condotto alla follia, per la quale fu trasferito in manicomio, dove passò il resto della sua vita.
Biografia
Infanzia e formazione

Nacque a Salvia di Lucania (oggi Savoia di Lucania), da Pasquale e da Maria Fiore; fu l'ultimo di dieci figli, quattro dei quali morti in tenera età. Le condizioni economiche difficili della famiglia influirono sulla sua formazione. Svolse lavori occasionali sin dall'infanzia per aiutare la famiglia e poté frequentare solo brevemente la scuola.

Cresciuto, svolse lavori saltuari come bracciante o guardiano di greggi. Per migliorare le proprie condizioni si recò a Potenza, trovando lavoro come sguattero presso un'osteria. Più tardi, un capitano dell'esercito, nativo come lui di Salvia ma residente a Salerno, notato l'interesse del ragazzo per gli studi, lo prese a servizio presso di sé e gli assegnò un vitalizio per consentirgli di integrare la propria istruzione. Passannante alternò così la lettura della Bibbia a quella dei giornali e degli scritti di Giuseppe Mazzini.

Abbracciate le idee repubblicane, frequentò circoli mazziniani e per questo venne arrestato e trattenuto in carcere per due mesi. Uscito di prigione, tornò brevemente presso la famiglia a Salvia, quindi si recò nuovamente a Potenza, lavorando come cuoco. Nel 1872 si trasferì a Salerno, ove continuò a svolgere la stessa professione e si iscrisse alla locale società operaia, operandovi attivamente. Frattanto Passannante si orientò verso idee anarchiche e si trasferì a Napoli.
L'attentato


Il 17 novembre 1878, Re Umberto I di Savoia e sua moglie Margherita erano in visita a Napoli. Quando il corteo reale giunse all'altezza del Largo della Carriera Grande, Passannante si avvicinò alla carrozza del sovrano, che incedeva lenta tra la folla, e, simulando di voler porgere una supplica, salì sul predellino, scoprì un pugnale che teneva avvolto in uno straccio rosso e tentò di accoltellare il monarca.

Questi riuscì a deviare l'arma, rimanendo leggermente ferito a un braccio. L'attentatore venne afferrato dal primo ministro Benedetto Cairoli che rimase ferito da un taglio alla coscia destra. Al momento dell'attacco, Passannante gridò: «Viva Orsini, viva la repubblica universale». L'attentatore aveva compiuto il suo gesto con un pugnale avente una lama di 8 cm circa che aveva ottenuto barattandolo con la sua giacca. Nel fazzoletto rosso nel quale aveva nascosto l'arma, Passannante aveva scritto: «Morte al Re, viva la Repubblica Universale, viva Orsini».


Passannante, colpito con una sciabolata alla testa dal capitano dei corazzieri Stefano De Gioannini, venne tratto in arresto. Affermò di aver agito da solo; fu interrogato e torturatonel tentativo di fargli confessare una supposta congiura
Conseguenze politiche

La notizia dell'attentato produsse in tutta Italia opposti sentimenti, da una parte, con cortei di protesta contro il tentato regicidio, cui si contrapposero coloro che invece si opponevano al Re e al Governo. Il giorno successivo, a Firenze, alcuni anarchici lanciarono una bomba contro un corteo: due uomini e una ragazza restarono uccisi e più di dieci persone furono ferite. Lo stesso accadde a Pisa e la notte del 18 novembre venne assalita una caserma a Pesaro. Accanto agli attentati, si registrarono manifestazioni favorevoli all'attentatore.

Il poeta Giovanni Pascoli, intervenendo in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti a Bologna, diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante. Di tale ode si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi, di cui è stata tramandata la parafrasi: «Con la berretta d'un cuoco faremo una bandiera». Subito dopo la lettura, Pascoli distrusse l'ode; in seguito fu arrestato per aver manifestato a favore degli anarchici che erano stati a loro volta tratti in arresto per i disordini generati dalla condanna di Passannante.

All'agitazione che scuoteva il Paese, che aveva anche indotto la caduta del Governo Cairoli I, si era tentato di fare fronte con un'opera di repressione: la magistratura istruì su tutto il territorio italiano circa 140 processi contro appartenenti a circoli anarchici.

L'intera famiglia dell'attentatore - madre, due fratelli e tre sorelle - fu arrestata già il giorno dopo l'attentato e condotta nel manicomio criminale di Aversa dove fu internata fino alla morte. Solo il fratello Pasquale fuggì.

Il sindaco del paese di origine di Passannante, Salvia di Lucania, fu costretto a recarsi al cospetto del re implorando perdono e proponendo di mutare il nome del comune in Savoia di Lucania, nome che porta ancor oggi. Parenti e omonimi. Successivamente, con Regio Decreto del 29 marzo 1879, la pena gli fu commutata in ergastolo, che Passannante scontò a Portoferraio, sull'isola d'Elba. Rinchiuso in una cella alta 140 cm, priva di latrina, posta sotto il livello del mare, rimase senza poter parlare con nessuno e in completo isolamento per anni.
« Passannante è rimasto seppellito vivo, nella più completa oscurità, in una fetida cella situata al di sotto del livello dell'acqua, e lì, sotto l'azione combinata dell'umidità e delle tenebre, il suo corpo perdette tutti i peli, si scolorì e gonfiò … il guardiano che lo vigilava a vista aveva avuto l'ordine categorico di non rispondere mai alle sue domande, fossero state anche le più indispensabili e pressanti. Il signor Bertani … poté scorgere quest'uomo, esile, ridotto pelle e ossa, gonfio, scolorito come la creta, costretto immobile sopra un lurido giaciglio, che emetteva rantoli e sollevava con le mani una grossa catena di 18 chili che non poteva più oltre sopportare a causa della debolezza estrema dei suoi reni. »

(Salvatore Merlino, «L'Italia così com'è», 1891 in "Al caffè", di Errico Malatesta, 1922)

Tali condizioni di detenzione furono oggetto di una denuncia dell'Onorevole Agostino Bertani e della giornalista Anna Maria Mozzoni, a seguito della quale il prigioniero, che nel frattempo aveva contratto una malattia mentale, certificata da una perizia psichiatrica condotta dai professori Biffi e Tamburini, fu trasferito presso il manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, ove morì.


Dopo la sua morte il corpo, in ossequio alle teorie dell'antropologia criminale, miranti ad individuare supposte cause fisiche alla "devianza", fu sottoposto ad autopsia e decapitato e si scoprì che aveva una fossetta dietro l'osso occipitale. Si cominciò pertanto a pensare che quella fossetta fosse il segnale della tendenza all’anarchia di un soggetto.

Il cervello e il cranio di Passannante, assieme a suoi blocchi di appunti, rimasero esposti sino al 2007 presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia di Roma, dove si trovavano dal 1936, dopo essere stati conservati presso l'Istituto Superiore di Polizia associato al carcere giudiziario "Regina Coeli" di Roma.

La permanenza dei resti in esposizione presso il Museo ha causato proteste e interrogazioni parlamentari. Il 23 febbraio 1999 il ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, firmò il nulla osta alla traslazione dei resti del Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che avvenne solo otto anni dopo.

 
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Cesare Batacchi

Post n°2008 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Nato nel 1849, di professione falegname, poi macchinista teatrale, fin dall'inizio del 1874 fu, quasi certamente, in contatto con gli anarchici A. Natta, C. Ceretti, G. Scarlatti che, a loro volta, erano collegati con Bakunin, allora residente a Locarno.

Aveva già subito due condanne per resistenza a pubblici ufficiali, prima di essere sottoposto a un nuovo, più importante processo, quello promosso a Firenze nel 1875 contro anarchici e repubblicani, accusati di aver organizzato un tentativo rivoluzionario.

Firenze era allora una delle città in cui più agguerrito si presentava il movimento anarchico: alla fine del 373 essa era diventata la sede della Commissione di corrispondenza della Federazione italiana anarchica e il centro dell'organizzazione internazionalista in Italia. Per questo il processo assunse una importanza nazionale, anche perché voleva essere una risposta del governo alla fallita insurrezione anarchica di Imola e ai conati rivoluzionari di Firenze, delle Marche, di Roma e della Puglia dei 1874.

Durante il processo il B. si dichiarò estraneo ai fatti e proclamò di non aver mai appartenuto all'Intemazionale: fu assolto per mancanza di prove. Ma pochi anni dopo egli si trovò ad essere il principale protagonista di uno dei più clamorosi processi contro l'Internazionale e il capro espiatorio, non si sa se incidentalmente o premeditatamente, di una operazione poliziesca contro l'organizzazione anarchica che iniziò, da allora, il suo declino definitivo.

Gli internazionalisti, già logorati dal dissidio interno tra gli elementi estremisti "anarchici" e i cosidetti "evoluzionisti", avevano appena cominciato a riprendersi dal colpo subito nel 1874 e a riorganizzarsi (forse fidando anche in una maggiore tolleranza da parte della Sinistra, che nel 1876 era succeduta nel governo alla Destra), quando ricevettero un nuovo, decisivo attacco proprio dal Depretis.

Dopo l'insurrezione della banda del Matese nel 1877, l'occasione per porre sotto accusa l'organizzazione davanti alla opinione pubblica nazionale, fu offerta al governo dallo scoppio di una bomba avvenuto a Firenze il 18 nov. 1878 in via Nazionale durante una manifestazione organizzata per dimostrare la solidarietà dei Fiorentini con il re, scampato, il giorno prima, all'attentato di G. Passanante. Nel tragico incidente morirono quattro persone, e subito gli anarchici vennero indicati come i colpevoli. Il B. divenne il principale indiziato, malgrado fosse stato rilasciato dalla polizia, che lo aveva trattenuto in carcere per motivi preventivi, due ore prima dello scoppio della bomba, e avesse fornito, anche per quelle due ore, un validissimo alibi.

Secondo il Romano, e l'incidente e il processo hanno tutta l'aria di essere stati una "provocazione poliziesca". Infatti i testi di accusa contro il B. e altri sei anarchici, che vennero in seguito condannati a pene gravissune, furono tutti o confidenti della polizia (un ladro, il Buci) o persone, come F. Alessi e N. Menocci, che, sotto le pressioni e le minacce, deposero il falso.

Il processo, iniziato il 31 marzo 1879, terminò con la condanna all'ergastolo del Batacchi. Soltanto nel 1881, quando entrambi erano riparati all'estero, F. Alessi ad Alessandria d'Egitto e N. Menocci a Nizza dichiararono, di loro spontanea volontà, davanti a pubblici ufficiali, di aver inventato le loro accuse per istigazione della polizia e sostennero l'innocenza dei condannati.

In seguito a queste rivelazioni clamorose gli internazionalisti iniziarono una agitazione per la revisione del processo, e nel 1882 Francesco Pezzi pubblicò un opuscolo sul B. con le dichiarazioni dell'Alessi e del Menocci. Il giornaletto anarchico La lanterna promosse una campagna di stampa a suo favore. Ma, dopo la fine dell'Intemazionale a Firenze, il caso B. cadde in dimenticanza, finché nel 1899, per iniziativa del giornale socialista fiorentino La difesa, fu costituito un comitato pro B. a cui parteciparono rappresentanti di tutti i partiti e di cui fu segretario l'avv. A. Angiolini. Durante le elezioni del 1900 i socialisti presentarono il B., ultimo dei condannati del 1879 rimasto a scontare la pena nel Mastio di Volterra, come candidato nel collegio di Pietrasanta: egli venne eletto e il suo caso fu discusso in parlamento il 10 marzo 1900. Quattro giorni dopo veniva graziato. Dopo gli echi suscitati dalla sua elezione, peraltro invalidata, non si hanno più tracce di una sua attività politica, né notizie sulla sua vita.

 
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Il libro dell'inquietudine (Pessoa)

Post n°2007 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Ho avuto desideri, ma mi è stata negata la ragione di averli. Per ogni cosa ho esitazione, spesso senza sapere perché.. Non ho mai avuto l'arte di vivere in maniera attiva. Ho sempre sbagliato i gesti che nessuno sbaglia. Ho sempre fatto il possibile per tentare di fare quello che tutti sanno fare. Voglio sempre ottenere ciò che gli altri riescono a ottenere senza volerlo. Fra me e la vita ci sono sempre stati dei vetri opachi... Non ho mai saputo se era eccessiva la mia sensibilità per la mia intelligenza o la mia intelligenza per la mia sensibilità.
Ho tardato sempre. Non so per quale delle due ho tardato: forse per entrambe, o per l'una o per l'altra. O forse la terza ha tardato.

 
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Libri dimenticati:Di chi è figlio Baby Brett

Post n°2006 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Bellissimo e toccante romanzo di Henry Denker,da leggere

 
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Frase del giorno

Post n°2005 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da odette.teresa1958

Dio ci ha fatto il torto peggiore dandoci la capacità di amare

 
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