da "I feuilleton di Terronia Felix"
Post n°588 pubblicato il 12 Febbraio 2008 da vocedimegaride
di Marina Salvadore Il Riscatto Notte senza luna su Napoli. Spiccioli di stelle lontane punteggiano di fioche scintille la coltre di velluto nero riflettendosi tremule nella seta increspata del golfo. Palazzo Donn’Anna, Capri, Ischia, Procida e il Vesuvio dormono abbandonati dietro il polveroso sipario di velo da sposa del vuoto palcoscenico. La luce dei lampioni anima nelle strade montagne e colline di putrescente monnezza. Squittii, fischi e rantoli di topi, sovrastati da agghiaccianti miagolii e dai latrati di cani randagi spaventati, si confondono alle note lontane dello stereo a manetta di una BMW truccata che suona un adenoidico Gigi D’Alessio d’annata, impazzando in una folle corsa contromano tra semafori spenti e cartoni a dimora di solitari barboni. Nanninella, nell’ombra, fa ritorno agli Spagnoli, dopo il turno di sera alla cassa del fast-food americano, sorto da qualche anno accanto ad un pub irlandese di fianco ad un rinomato ristorante giapponese confinante con un Happy Hour dirimpetto ad una jeanseria, là dove un tempo c’erano una storica pizzeria, una trattoria con cantina di vini del Vulture, la rivendita di mozzarelle di un caseificio dell’Aversano, una libreria, una liuteria e la botteguccia di un guantaio… Qualcosa, da piazza Carità e per tutta via Toledo, suggerisce intimamente alla ragazza di non svoltare in vico D'Afflitto ma di proseguire oltre il Teatro Augusteo per Largo ‘e Palazzo e oltre. Non avverte neppure più il dolore alle articolazioni dei piedi, costretti in due stivaletti da tortura cinese dai tacchi a spillo di venti centimetri e piante e punte lunghe e affusolate in rostri come arti posticci, à la page, derniere vogue, ridondanti di borchie, frange e catene. Procede lieve, come un fantasma, non s’ode neppure l’offesa dei tacchi sui cazzimbocchi distribuiti per Santa Lucia. Va, levita sul selciato. Sente l’improrogabile impegno del rientro a casa, eppure si lascia trascinare in quella solitaria, piacevole passeggiata, spinta da braccia invisibili, come risucchiata - zigzagando agile tra cassonetti bruciati che sanno di acre veleno - dal cielo nero sopra di lei. In un batter d’occhio, Nanninella si ritrova abbracciata ad un masso frangionde della barriera sotto il pontile di Megaride. Castel dell’Ovo. “Vuoi vedere che s’è scassato l’uovo di Virgilio?” pensa, da fatalista qual è. Poi, s’interroga sul come sia riuscita a giungere con quel supplizio di tacchi e punte fin là, dove solo a piedi nudi e aiutandosi peraltro con le braccia e le mani, a culo rasoterra come un primate, si può arrivare. Ispirata, alza i suoi scuri e grandi occhi al cielo, perdendosi nella notte che incombe. Via via le minuscole stelline lontane si stagliano lucenti e definite nel suo sguardo indagatore. Estatica, Nanni’ dint’’o silenzio. Silenzio cantatore. Alle sue spalle il declino, l’offesa, la lordura; davanti, il mistero insondabile… sopra, un indizio pacificatore di beatitudine. Le pupille si dilatano e cercano nel buio punteggiato di sabbia di stelle una risposta a quella melanconia di Napoli, come una pucundria atavica che ora l’avvolge. Un lampo di luce…due, tre…quattro…cinque… otto fragori di luce intermittente, dal Vesuvio occultato, da Capri, Ischia, palazzo Donn’Anna… come nei fuochi d’una volta dei falò di Sant’Antonio nei vecchi Sedili della città… e la pioggia di luce, come all’alba di una nuova Napoli, la inonda, avvampandola di roseo bagliore. Sono le due di notte a Napoli, non c’è gente in strada, le claire dei locali abbassate, non un turista non un tardivo esule rimpatriato non un viandante. NESSUNO più a cantare struggente ninna nanna alla Napoli insonne il cui corpo ferito s’agita nel letto del suo tragico destino, ormai da troppo tempo, in una infinita e maledetta agonia da inferno dantesco. Un tonfo, una zampillante fontana d’acqua s’alza potente dal mare sotto Megaride. Nanninella intrisa d’acqua guarda la cresta dell’onda anomala, discovrendo enormi code pescine alzarsi e inabissarsi e, a pelo d’acqua, baluginii frizzanti che scolpiscono corpi di grandi pesci, come di sirenidi: quelli di cui diceva mammà buonanima, autodidatta, raccontando dell’amata diva Partenope, venerata madonna insieme con altre più giovani Marie in quella Chiesa di san Giovanni a Mare, nell’antico quartiere delle origini, al Mercato. Istintivamente, in quella luce, Nanninella adagiata sul masso bianco si guarda le mani e i piedi, senza sapere perché. Insiste una danza di luci sideree, quasi d’aurora boreale, sull’ampiezza del golfo e nessuno a bearsene; solo Nannina e Nero, un muto randagio di mare rifugiatosi come ogni notte sotto una scassata barca rovesciata, dimenticata di qua della banchina dall’ultimo Luciano d’’o rre, ambedue consapevoli e placide, le creature, come al cospetto di cosa ordinaria, naturale. Ora, sospesa in aria, una grande nave volante, come un’aureola gigantesca, si fissa a mezza altezza e dalla sua stiva un amplissimo raggio luminoso si effonde, toccando come un occhio di bue il suolo e i frangionde. Così da quel tunnel luminoso due figure scivolano in piedi accanto a Nanninella: doje vecchi prufessori ‘e concertino ca ‘n’Paraviso jettero a sona’, tanto tempo prima, abbandonando il Paradiso Napoletano per andare ad arricchire di bellezza partenopea senza eguali addirittura l’Eden. Stringono, infatti, tra le braccia una chitarra e un mandolino, ambedue antichi e con quasi tutte le corde spezzate dall’usura. Guardano il golfo, riconoscendone commossi i contorni familiari. Nannina fa loro segno di guardarsi alle spalle, laddove la città vorace incombe putreolente e sciatta, abbandonata morente, buia e ferale. Nero sguscia da sotto la barca e corre a leccar loro le mani, lieto d’averli ritrovati dopo tantissimi anni, quando li aveva tristemente salutati, in quel medesimo luogo, allorché partirono per l’altissima missione. Ma i due vecchi, straniti e spaventati, non hanno sorrisi; grondano un atroce pianto di dolore, tra mille singhiozzi, per cui è costretto a leccargli dai volti le copiose lacrime che ancora serbano l’aroma e il sapore del benedetto mare primordiale di Partenope. Un immenso globo luminoso emerge dall’acqua e si apre lento come un fior di loto di opale. Al centro, in posizione eretta il dinoccolato e ossuto pifferaio magico della piccola città prussiana di Hamelin saluta la piccola comitiva, gentilmente levandosi e ricalzando il suo buffo copricapo per tre volte. Con un agile balzo si fionda sui massi, a carezzare il manto arruffato di Nero. Nannina lo osserva beata: è identico alla figurina del pifferaio di quel libro di fiabe che la buonanima di mammà le aveva regalato nel suo primo giorno di scuola media… cui non seguirono altri giorni di scuola perché papà morì il giorno dopo, cadendo da un’impalcatura nel cantiere edile al Vomero dove lavorava in nero e mammà, per sopravvivere, prese a fare la badante notte e giorno di una vecchia contessa a Chiaia mentre Nannina fu mandata a mezzo servizio presso una ricca famiglia in via Cappella Vecchia. Altri due fratellini, più piccoli di lei, furono invece ricoverati a tempo pieno, per tre lustri, in un collegio a Castellammare… Che tristi ricordi!… Però, la figura del pifferaio di Hamelin le suscita comunque allegria, se così può chiamarsi, com’è nella partitura musicale quel vuoto puro, quell’assenza di suono che concorre all’armonia, iscritta quale muta pausa tra una nota dolente e l’altra. Che ci fanno qui, con lei ed un cane dal pelo ruvido, dunque, i due professori di concertino e il pifferaio? L’alba scolora il cielo e finalmente il Vesuvio si staglia viola e definito a corona del golfo. Navi volanti, luci sideree e globi luminosi… lo stesso spumeggiante mare di seta crespata ed i corpi sirenidi… in un lampo svaniscono ed in quel rosa napoletano tanto decantato dai celebri pittori di un secolo fa di “un’alba non più quella” che svilisce ormai nel grigio e giallo di sprazzi di diossina e polveri grasse, muti i musicanti, Nero in testa, si incamminano verso la città, invitandola a seguirli. Incredibilmente consapevole, in tutta la sua pura innocenza di bambina mai cresciuta non ha necessità di porre domande. Si lascia, fiduciosa, condurre. Superato Largo di Palazzo, risalita via Toledo ancora nel deserto di voci, piedi e automobili, istintivamente si libera delle scomode calzature ed a piedi nudi, improvvisamente cinta di una felicità incontenibile, procede in corteo danzando. Il pifferaio di Hamelin trae dalla tasca del suo corto giacchino di velluto verde il suo piffero, i doje viecchi prufessori ‘e‘ concertino, riaccordano al “la” del piffero le residue due corde, una per uno, della chitarra e del violino, non più capaci di partorire musica celestiale. Con il risultato di un sibilo assordante, a tratti gracidante di metallo come una maranzana, i tre suonatori procedono, rapiti, a macinare chilometri di strade, di vicoli, di ponti, di scale, toccando uno ad uno tutti i quartieri della città ormai desta. Quel rumore sgradevole che non può dirsi musica, simile agli squittii, fischi e rantoli di topi, esercita – proprio come nella fiaba – un fascino sinistro sulla popolazione di ratti, blatte, scarafaggi e amebe umane della città… tanto che da ogni strada, da ogni vicolo, da ogni montagna di monnezza, dagli uffici pubblici e dai locali privati, dalle case e dalle chiese, dalle scuole ai bassi alle funnachere ,intere famiglie di ratti, di insetti, di camorristi e di politici, di intellettuali e magistrati, di puttane d’alto bordo e di dirigenti pubblici, ingrossano con le loro fila un imponente esercito in coda a Nero, ai suonatori, a Nanninella… sempre più euforica. Al Centro Direzionale, tutta la Giunta Regionale, governatore in testa, portato in trionfo a tempo di quelle note orrende su una rossa sedia gestatoria, si ammassa urlante e vajassa in strada, dietro i commissari straordinari,i ratti, le blatte, gli scarafaggi e i camorristi, in una sinistra sfilata di maschere di un repellente Carnevale. Dal Palazzo di Giustizia un esercito di “ermellini” e “paglietta”, in una sconcia tarantella, si catapulta danzante nella sguaiata mischia. Lontano da lì, Palazzo S.Giacomo continua a vomitare un fiume di assessori comunali, segretari, consulenti, il sindaco e il consiglio, majorettes e leccapiedi, al quale si mescola il fiume straripante dei funzionari del Palazzo di Rappresentanza della Regione di Santa Lucia con tutti i suoi papponi e lacchè… confluendo e confondendosi con la pletora caciaresca e cafona dei “dignitari” del Palazzo della Provincia che sale da piazza Matteotti, portando in trionfo il presidente e la giunta. Da ogni dove della città si percepiscono quei suoni subliminali che hanno qualcosa in se’ di tribale, di trascinante. Da Scampia alla Sanità, dalla Duchesca al Mercato, da Forcella a San Giovanni camorristi e lavoratori socialmente inutili del consorzio ASIA, in processione dietro le zoccole (esemplari a quattro ed a due zampe, indistintamente) portate in trionfo su cassonetti rovesciati di rifiuti solidi urbani, come in una parodia volgare dei carri di Viareggio. Dai Campi Flegrei, per Fuorigrotta al Vomero, lungo l’antica via percorsa dalla santità del primo vescovo Januario è tutto un brulicare di gambe, di braccia… come un mostruoso millepiedi gigantesco. Nero volta il capo indietro, ogni tanto, abbaiando e incitando la folla a seguirlo. Nannina, nonostante i chilometri, le salite e le scese a piedi nudi si sente sempre più leggera ed energica. I tre suonatori, seri e compassati, sguardi assenti, non cessano la musica da ore e salgono alle colline e ridiscendono al centro storico e al mare, su e giù, febbrilmente, simili agli zampognari di Monte San Biagio che ai bei tempi ogni Natale calavano a Napoli a suonare la Novena in ogni casa, davanti ogni presepe domestico. Dall’aeroporto di Capodichino alla Stazione Centrale, un esercito di nordici commendatori e industriali, mescolato ai parlamentari locali che rientrano grassi e lucidi dalla Capitale, si accoda con una certa eleganza al festoso baccanale, toscaneggiando sul folklore locale purtuttavia totalmente coinvolto, ammaliato dal suono stridente dell’inconsapevole apocalisse .L’abominevole serpentone di uomini, donne, cassonetti, topi ed insetti schifosi, riunito in unico cordone palpitante di folla che si accalca ormai da Posillipo giù a Nisida, al seguito del suono del pifferaio di Hamelin e dei due monocorde professori ‘e concertino che procedono puntando sempre la coda di Nero e i piedini di Nannina, si appressa ormai al pontile di Bagnoli. Da Bagnoli Futura, un’ulteriore pletora di artisti moderni della neonata scuola del M.A.D.R.E., si aggiunge anch’essa alla processione, in mano ancora pennelli e scalpelli, fili a piombo, “squadre e compassi”, “falce e martello”. Più indietro, dai salotti buoni, come i frati neri della settimana santa di Sessa Aurunca, gli immancabili intellettuali napoletani, le teste cinte d’alloro e d’acacia, stringendo demipocritamente le mani al volgo,tronfi e pieni di autostima si mescolano con l’autorevolezza maiestatica presa in prestito dai Gigli di Nola al corteo. Nero è all’apice del Pontile e accortamente si sposta sulla sinistra, restringendosi in un angusto spazio non calpestabile. Nannina, parimenti, minuta e agile si accuccia sulla destra. I tre musicanti, continuando impassibili a suonare, si acquattano sotto gli ultimi tre sedili di pietra del molo. La folla continua a procedere, con i topi e gli insetti lungo il pontile, avanzando quasi nell’aria, senza accorgersi dell’assenza di suolo, finendo inghiottita, esercito dopo esercito nell’acqua già satura di mercurio e d’Italsider del mare anemico di Bagnoli, tra i flutti neri di catrame e di morte. Nisida è scossa da un sussulto e allarga le sue braccia riprendendosi la vita e l’amante Posillipo ch’era da millenni scivolato via da quell’abbraccio. Nero, Nannina e i suonatori, nonostante il tremuoto nulla temono e si rimettono in marcia verso il cuore della città finalmente liberata di tutto il lerciume infetto. I pochi napoletani salvati per volontà degli dei da quella vendetta si lanciano in strada lungo tutto il loro percorso, per acclamarli, per abbracciarli. Il cielo su Napoli ha riconquistato l’azzurro dei quadri delle marine di Hackert. Nisida, laggiù, ancora sbuffa nuvole di fuoco e fumo, lapilli e lava, divorando Bagnoli Futura, il Pontile e l’archeologia industriale che la deturpavano da immemore tempo. Il tremuoto è durato poco, pochissimo ma è bastato a riportare Napoli com’era nelle antiche e belle gouaches dei maestri del Grand Tour. Il Centro Direzionale si è letteralmente polverizzato, autodiscaricandosi a centinaia di metri sottoterra. In piazza Mercato è finalmente scomparso l’orribile megacondominio Ottieri ed in tutta la loro magnificenza svettano non più oppressi il campanile di Fra’ Nuvolo sul tetto del Carmine, la cupola maiolicata di Santa Croce al Mercato e la torre dell’orologio abbracciata a Sant’Eligio. Nannina si ritrova con Nero, i suonatori ed altri popolani nell’antico quartiere della buonanima di mammà, così come mammà non l’aveva mai visto in vita sua ma identico a quello dei racconti di sirene e miti che le antiche pietre del quartiere le avevano narrato quando mammà era stata bambina. A San Giovanni a Mare è tornato il mare a lambire d’intorno il vetusto tempio e Nannina non resiste all’impulso di tuffarvisi dentro, ripetendo l’antico rituale sacro e profano della notte magica di San Giovanni. L’acqua profuma delle lacrime benedette dei due vecchi professori di concertino. Fresca e cristallina,composta dalla Creazione in tre parti di sale ed una dell’argilla degli uomini. La minuta fanciulla riemerge senza piedi, con una coda pescina, il volto felice, una corona sul capo, per andarsi a specchiare istintivamente nella grande erma di Partenope che - chissà quando e come - è ritornata al suo posto in San Giovanni a Mare, tra le altre venerate e più giovani Marie, rapita dal Palazzo San Giacomo ov’era stata relegata per anni col nome irridente di Marianna ‘a Capa ‘e Napule. I troppi capi e padroni di Napoli succedutisi nei secoli mai avrebbero consentito ai loro abusi di potere la sottomissione ad una “Capa”, fondatrice e anima della città da loro allegramente depredata; una femmina come un’altra, Marianna o Parthenia si chiami, in questo clima di misoginia imperante e destinata pertanto solo allo sconsiderato stupro, all'offesa!
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il 21/08/2015 alle 14:31
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