Creato da silvio.battistini il 10/02/2009
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ECONOMIA

Post n°39 pubblicato il 11 Aprile 2009 da silvio.battistini

Italia, paese troppo disuguale

Chi già oggi sta peggio (lavoratori, pensionati, precari), con la crisi non potrà che peggiorare. La quota di reddito nazionale assegnata al lavoro dipendente si è ridotta notevolmente a fronte di una crescita della rendita.

di Riccardo Sanna

Oggi in economia domina, quasi del tutto incontrastata, la teoria neoclassica basata su un’impostazione che raccoglie il consenso della stragrande maggioranza sia degli economisti sia dei policy makers, sebbene divisi loro stessi sul piano politico, che condividono un metodo scientifico e alcuni principi e strumenti teorici per l’analisi del comportamento dei singoli individui, raggruppati in due grandi categorie: i consumatori e i produttori. Gli uni e gli altri sono considerati come soggetti che “massimizzano” il loro obiettivo. I consumatori l’utilità, i produttori il profitto. Il modello di sviluppo neoliberista prevalso negli ultimi decenni, proprio seguendo questo schema, ha assorbito come componente strutturale l’alterazione della distribuzione del reddito e l’accentuazione delle diseguaglianze sulla base di una massimizzazione dei profitti fondata su uno spirito di deregolazione dei mercati e talvolta di innovazione finanziaria selvaggia sostenuta da una cultura del debito. L’equilibrio economico è stato così ricercato con l’indebitamento delle famiglie e con le distorsioni delle bilance commerciali, inducendo alla modellazione di politiche economiche e distributive sostanzialmente irresponsabili, basate sull’autoregolazione dei mercati e la dismissione della responsabilità pubblica. A questo si sono aggiunte le interazioni tra trasformazioni nei mercati del lavoro e trasformazioni nei mercati dei capitali per garantire l’efficienza economica prima ancora che l’equità. In un’intervista su Repubblica del 2 aprile, l’economista Jean-Paul Fitoussi, nel richiamare l’esigenza di un ripensamento degli affari politici, economici e sociali, sostiene che “la dottrina è arrivata ad accettare che le disuguaglianze fossero considerate un fattore positivo di crescita e dinamismo economico”. Il rapporto capitale-lavoro su cui si sono costruiti i modelli di economia appare sostanzialmente modificato. La quota di reddito nazionale assegnata al lavoro dipendente si è ridotta notevolmente a fronte di una crescita della rendita, nemmeno del rendimento del capitale (nell’accezione classica, appunto). Per evitare la crisi e le disuguaglianze all’origine della stessa bisognava rompere l’alleanza tra rendita e profitto a scapito del lavoro. Eppure, è dentro la scelta di sostenere i maggiori profitti all’insegna di una rivoluzione tecnologica che si è scelto di ridimensionare il welfare e la rappresentanza sociale. Il quotidiano Le Monde, ispirandosi a un famosa pubblicazione della Graduate School of business di Chicago, scriveva a ottobre 2008 “Salviamo il capitalismo dai capitalisti”. Senza entrare dunque nel giudizio del “mito” di un’economia dei profitti in grado di soddisfare i bisogni, oggi è necessario ammettere che l’irrazionalità dei rapporti tra produzione e consumo non tiene conto in sé di alcuna garanzia di sviluppo e, in un momento di crisi come questo, nemmeno di crescita. L’Italia è il sesto paese più diseguale tra quelli Ocse nella distribuzione del reddito, grazie alla forbice nella distribuzione del reddito dettata, da un lato, dalla sistematica riduzione sul valore aggiunto della quota dei redditi da lavoro a fronte di un aumento di quella dei redditi da capitale; dall’altro, dall’allargamento – all’interno della quota di reddito nazionale andata al lavoro – del ventaglio delle diseguaglianze, lungo tutta la scala distributiva delle retribuzioni. Elaborando i dati dei Caaf Cgil sui redditi da lavoro dipendente, emerge un’asimmetria nella distribuzione del reddito a sfavore delle classi di reddito medio - basso, in cui si trova la massima concentrazione di lavoratori. In Italia, pertanto, la percentuale di persone che non supera i 30mila euro netti individualmente è pari a circa il 90% dei dichiaranti (un universo di circa 1.265.000 persone). Circa 13,6 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 6,9 milioni ne guadagnano meno di 1.000, di cui oltre il 60% sono donne. A tutto questo si aggiungono gli oltre 7,5 milioni di pensionati che, secondo i dati dell’Inps, guadagnano meno di mille euro netti mensili. Secondo l’ultima Indagine sui bilanci delle famiglie (Banca d’Italia, 2008) il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% dell’intera ricchezza netta delle famiglie italiane. A una perdita di potere d’acquisto dei redditi delle famiglie con persona di riferimento operaio o impiegato nel periodo 2002-2008 ha corrisposto una crescita dei redditi delle famiglie di imprenditori e liberi professionisti: il reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2008 registra una perdita di circa 1.599 euro nelle famiglie di operai e 1.681 euro nelle famiglie con “capofamiglia” impiegato, a fronte di un guadagno di 9.143 euro per professionisti e imprenditori. Le disuguaglianze alle origini della crisi che stiamo attraversando riguardano perciò soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati. Nella crisi queste disuguaglianze non potranno che accentuarsi. L’impatto della crisi sulla distribuzione del reddito e sull’equità, considerando l’abbattimento delle retribuzioni per effetto del ricorso agli ammortizzatori sociali, produrrà un ulteriore perdita di potere d’acquisto. Nella crisi, infatti, un lavoratore in cassa integrazione a “zero ore” per un mese vede il suo stipendio passare dai 1.430 euro netti in busta paga ad appena 762 euro; una lavoratrice in cig, sempre a zero ore, con uno stipendio mensile di 1.100 euro netti passerà a 634 euro netti. Per capire il perché della scelta della Cgil di sostenere occupazione, redditi e investimenti è sufficiente pensare se quei due lavoratori sono sotto lo stesso tetto. E ancora, se il figlio in collaborazione perde il posto e si trova senza reddito (già basso, mediamente 610 euro netti). Se a perdere il posto è un lavoratore dipendente, ma dei servizi, ad esempio del commercio, se – e solo se – ha i requisiti per l’indennità di disoccupazione, potrà ottenere un sostegno di 693 euro netti, contro il suo salario mensile di 1.155 euro. Non è davvero necessario rimarcare l’inesattezza delle teorie fondate sul trade - off tra crescita e welfare: la stessa Francia ne rappresenta un esempio significativo, con lo Stato sociale che fa da “stabilizzatore automatico” dell’economia. In sostanza, in Italia come in tutti i maggiori paesi industrializzati, bisogna ripensare a una politica dei redditi e dell’acquisizione dei guadagni di produttività, comprendendo in esse anche la regolazione dei mercati de lavoro. In tal senso, per analizzare le cause di bassa crescita strutturale e dell’impoverimento relativo dell’economia italiana, bisogna adottare come punto di partenza un modello che valorizzi il lavoro e la crescita della produttività generata dallo stesso lavoro – come suggeriscono gli economisti “classici” (come Smith o Ricardo) – che si basa sul ruolo del salario come fattore di spinta all’introduzione da parte delle imprese di nuovi macchinari e tecnologie e, al tempo stesso, sulla formazione e la specializzazione dei lavoratori come elemento fondamentale di innovazione e sviluppo. Occorre, inoltre, una rielaborazione dell’intervento dello Stato in termini di politiche fiscali. Avendo in questi anni riscontrato una perdita di potere d’acquisto difficile da recuperare con la contrattazione, appare indubbiamente necessaria una “nuova progressività” del sistema fiscale e un nuovo schema di incentivazione/disincentivazione, in particolare quando si vuole rilanciare la crescita anche attraverso le componenti della domanda interna. Specialmente nelle economie post-industriali, in cui le classi sociali non sono più rigidamente separate tra capitalisti e lavoratori e dove un’ampia fascia di popolazione è estranea ai rapporti tipici del mercato del lavoro, è chiaro che è la distribuzione secondaria (o personale) a rivestire il maggior interesse.

 
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