Creato da silvio.battistini il 10/02/2009
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Rapporto Eurispes 2009

Post n°58 pubblicato il 31 Gennaio 2010 da silvio.battistini

Stipendi più bassi dell'Ocse, gli italiani faticano ad arrivare a fine mese

La crisi continua a influire negativamente sugli italiani, per i quali la situazione economica del Paese è di molto peggiorata - prova ne sono i salari più bassi dell'area Ocse - ma allo stesso tempo le prospettive di ripresa spingono verso una maggiore fiducia per il futuro. Insomma, l'oggi preoccupa ma il domani si profila migliore. Anche se quasi quattro su dieci vedono ancora nero. A dirlo sono i risultati di un sondaggio dell'Eurispes, pubblicato nella 22/a edizione del rapporto Italia 2009. Rispetto ai risultati del medesimo sondaggio realizzato nel 2008, si registra, infatti, una crescita dei pessimisti: la percentuale degli italiani che considera la situazione economica del nostro Paese "nettamente peggiorata" è del 47,1% nel 2010 contro il 37,6% di due anni prima. Però, dallo stesso confronto emerge come sia quasi raddoppiata la percentuale di quanti si dicono convinti di un futuro economico migliore per il Paese: il 18,3% rispetto al 10,9% del 2008.

La laurea non garantisce più un lavoro stabile - Nel nostro Paese, infatti, solo il 16% degli occupati in età compresa tra i 25 e i 34 anni è laureato (a fronte della media Ocse del 32%) e per la popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni il rischio di rimanere disoccupati, aumenta al crescere del titolo di studio, tendenza che trova espressione anche nella bassa percentuale di laureati rispetto alla popolazione adulta (circa il 15% rispetto alla media europea del 22,3%).

Aumenta il gap salariale - La popolazione compresa tra i 24 e i 30 anni, oltre a riscontrare maggiori difficoltà nel trovare un impiego a tempo indeterminato (alla fine del 2007 su 381.127 contratti a progetto registrati, 201.901 coinvolgono giovani tra i 15 e i 34 anni), subisce anche l'ampliarsi del gap retributivo con i lavoratori più adulti. I lavoratori precari, inoltre, subiscono un divario retributivo generazionale ancora più ampio (i collaboratori over 60 guadagnano in media sei volte in più degli under 25), il che è dovuto dalla relazione inversa tra età e reddito.

Difficoltà ad arrivare a fine mese - I prezzi dei beni di prima necessità salgono e, per far quadrare i conti, si taglia sul resto. A partire dalla stretta su regali e ristoranti, attuata in sette casi su dieci, mentre la spesa si fa low cost. Il 48,4% del campione confessa che, "ad un certo punto del mese", incontra "difficoltà" a far quadrare il proprio bilancio familiare. Un dato che risulta comunque in calo rispetto al 2009 quando raggiungeva il 53,4% (-5%). Interpellati sull'andamento dei prezzi, più della metà degli italiani (56,8%) sostiene che nel corso dell'anno appena passato questi siano aumentati. Un dato in netta diminuzione rispetto alla scorsa rilevazione, quando si attestava all'83,4%, ma che comunque ha determinato un cambiamento dei consumi.

Italia fanalino di coda per i salari percepiti e nella top ten per il cuneo fiscale. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Eurispes "Italia 2010", in cui si riprende la classifica 2008 dei trenta paesi industrializzati dell'organizzazione parigina. Infatti, dice il rapporto, ammonta a poco più di 14.700 euro (21.374 dollari) il salario medio netto annuo percepito da un cittadino italiano. Una cifra che pone il Paese al ventitreesimo posto; in coda dopo gli altri paesi europei dove le retribuzioni nette annue si aggirano in media intorno ai 25.000 dollari, tra i quali Germania (29.570), Francia (26.010), Spagna (24.632) e superando, invece, solo Portogallo (19.150), Repubblica Ceca (14.540), Turchia (13.849), Polonia (13.010), Slovacchia (11.716), Ungheria (10.332) e Messico (9.716). I lavoratori italiani incassano dunque ogni anno retribuzioni pari al 17% in media della media Ocse. Al contrario, il cosiddetto cuneo fiscale (la differenza tra costo del lavoro e retribuzione netta) arriva a pesare - nel caso di un lavoratore dal salario medio single e senza figli - per il 46,5%, che determina la sesta posizione dell'Italia tra i 30 paesi Ocse.

 

29 gennaio 2010

 

 

 

 
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Crisi

Post n°57 pubblicato il 08 Gennaio 2010 da silvio.battistini

La cassa integrazione si moltiplica per tre

Tratto da Rassegna.it

I dati Inps sul 2009: autorizzate 918 mln di ore di cig, in aumento del 311,4% rispetto ai 223 mln del 2008. A novembre chiesti 114mila assegni di disoccupazione, +11,6% su base annua. Dicembre, +2,2% mese e +230% anno

 

L'anno scorso la cassa integrazione in Italia è più che triplicata. Nel 2009 l’Inps ha autorizzato 918 milioni di ore di cig, con un aumento del 311,4% rispetto ai 223 milioni del 2008. I dati sono riferiti alla cassa ordinaria, straordinaria e in deroga e sono stati diffusi oggi (7 gennaio) dall'Istituto, in una nota in cui sottolinea che “le risorse messe in campo sono state almeno il triplo di quelle realmente utilizzate”.

"Quasi un quarto
delle richieste di cassa integrazione - commenta il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua - è riferita a una platea di aziende e di lavoratori che nel 2008 non avevano diritto allo strumento. La cig in deroga ha esteso le tutele al mercato del lavoro, ma continua a rendere difficile il confronto con l'anno precedente".

A novembre,
prosegue l'istituto previdenziale, le richieste di assegno di disoccupazione sono state 114mila, con un calo del 5% rispetto alle 120mila arrivate a ottobre e un aumento dell'11,6% rispetto alle quasi 103mila del novembre 2008. Circa 4.400 le domande di mobilità a novembre a fronte delle quasi 4.800 dello stesso mese dell'anno precedente. Il picco massimo di richieste di disoccupazione si è registrato a luglio con 166mila domande.

A dicembre, infine,
la cassa integrazione è cresciuta del 2,2% rispetto al mese precedente del 230% su base annua.

Camusso (Cgil), dati confermano emergenza

“Il forte ricorso alla cassa integrazione straordinaria, e a quella in deroga, dimostrano come la crisi produttiva continui a incidere pesantemente sui lavoratori e che la vera emergenza per il paese rimane l'occupazione”. A dirlo in una nota è la segretaria confederale Cgil, Susanna Camussso. "L'aumento delle ore di cigs mentre cala il ricorso alla cassa integrazione ordinaria - osserva la dirigente sindacale - è dovuto all'esaurirsi delle 52 settimane di cassa ordinaria con tutti gli effetti che ne conseguono”. A suo giudizio, dunque, “mentre il governo continua a ignorarla, la realtà emerge in tutta la sua durezza e ci dimostra, ancora una volta, che è più che mai fondamentale intervenire da una parte sui redditi da lavoro e da pensione e dall'altra per ridare al paese una missione produttiva”.

 

 
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Il peggio è passato? Non per il lavoro

Post n°56 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da silvio.battistini

Tratto da: Eguaglianza e Libertà
Nel terzo trimestre il Pil è salito dopo cinque dati negativi, ma per l’occupazione è ancora buio pesto. Siamo già tornati indietro di anni come percentuale di lavoratori attivi e si continua a perdere il posto al drammatico ritmo di mezzo milione di persone al trimestre

Carlo Lucarelli*

 

I dati diffusi qualche giorno fa dall’Istat relativi alle forze di lavoro cominciano a dipingere a tinte già molto forti le ripercussioni della crisi economica e finanziaria sul mercato del lavoro. Le previsioni di economisti e operatori del settore, che ad una sola voce rappresentavano un quadro dell’occupazione in Italia fortemente critico anche nel momento in cui i primi segnali di ripresa si sarebbero affacciati all’orizzonte, sono state ampiamente confermate.

Nel terzo trimestre 2009 la variazione congiunturale del Prodotto interno lordo torna a segnare un valore positivo (+0,6%) dopo che per 5 trimestri consecutivi l’indicatore era arretrato pesantemente, tanto che su base annua il calo oscillava intorno al 6%. Dire che la recessione è finita è quantomeno prematuro e certamente irresponsabile ma il dato deve essere indiscutibilmente accolto come un segnale positivo.

Ben diverso è il quadro sotto il profilo dell’occupazione. Stando all’Istat nel medesimo trimestre del 2009, il terzo, sono stati bruciati più di mezzo milione di posti di lavoro in un anno con una forte caduta dell’occupazione soprattutto al Nord e nel Mezzogiorno. Secondo i dati destagionalizzati anche rispetto al trimestre precedente il calo risulta sensibile (120 mila unità in meno che rappresentano un -0,5%). In un solo anno i tassi di occupazione sono tornati ai livelli del 2005 nel Nord e di anni ancora precedenti nel Mezzogiorno. Dopo anni di crescita graduale ma costante una retromarcia così brusca ed evidente può essere determinata soltanto da un evento di enormi proporzioni com’è la crisi economica che stiamo vivendo. Inoltre, proprio in questi ultimi giorni sempre l’Istat ha diffuso le prime stime mensili relative a occupati e disoccupati per il periodo che va da gennaio 2004 a ottobre 2009: un’informazione molto preziosa per la sua tempestività,  ancora di più visti i tempi. Sulla base di queste ultime stime, seppur provvisorie, anche per il mese di ottobre non si intravedono segnali di schiarita nell’incerto orizzonte lavorativo nazionale.

Tornando al dato trimestrale (ovviamente più ricco e dettagliato), la debacle dell’occupazione si manifesta sotto tutti i punti di vista delle posizioni professionali e coinvolge pesantemente sia gli indipendenti (-3%), che registrano il sesto calo consecutivo, che i dipendenti (-1,9% nell’ultimo anno). La novità di questo trimestre risiede nel fatto che la diminuzione dell’occupazione alle dipendenze non riguarda soltanto le posizioni a tempo determinato (-220.000 unità in un anno) ma anche quelle permanenti (-110.000) che hanno sofferto delle difficoltà incontrate dalle piccole imprese. E’ proprio sulla scorta di queste stime che si prefigura uno scenario in cui la flessibilità diviene precarietà anche se la crisi sta erodendo abbondantemente anche la componente stabile dell’occupazione dal momento che a questo punto è significativa anche la flessione di chi deteneva una posizione a tempo indeterminato. La recessione sta quindi determinando un’estensione del concetto di precariato che, ora come non mai, non coinvolge più soltanto chi precario lo era anche in periodi di espansione dell’occupazione, come chi aveva un contratto a termine, ma anche chi deteneva una posizione che fino a ieri veniva definita come occupazione permanente (i contratti a tempo indeterminato) e che ora non lo è più. La logica conseguenza che portava a definire stabile quell’occupazione certificata da un contratto a tempo indeterminato e cioè senza limiti di tempo prefissati, deve necessariamente essere riconsiderata nell’ottica dell’incertezza e cioè nella semantica stessa del termine (indeterminato = non determinato = non certo). A questo punto è d’obbligo chiedersi dove è andata a finire l’occupazione. Sempre dai dati dell’Istituto nazionale di statistica emerge chiaramente che la crescita della disoccupazione (al settimo rialzo consecutivo) non è sufficiente a contenere da sola la pletora degli ex-lavoratori e, infatti, si assiste ad un’espansione consistente degli inattivi in età da lavoro (fino a 64 anni).

I disoccupati, sempre nel terzo trimestre del 2009 ammontano a 1milione e 814mila unità con una crescita di 286 mila unità nell’ultimo anno. Il fenomeno è ancora più preoccupante se letto in chiave mensile che per ottobre lo proietta a oltre 2 milioni di unità. I dati della rilevazione confermano che l’allargamento della disoccupazione è interamente dovuto alla schiera degli ex occupati che nell’ultimo trimestre ha registrato un incremento superiore al 40%. Ma se questo è un risultato ampiamente prevedibile, il massiccio aumento del numero degli inattivi (+392.000 nell’ultimo anno) è un dato ancora più preoccupante. Il passaggio diretto da occupato a inattivo nasconde una realtà fatta di attesa di risultati di precedenti ricerche, di un ritardato ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani, oppure più semplicemente che passi la tormenta.

Il fenomeno dello scoraggiamento (non cerco lavoro attivamente, nonostante sia disponibile a lavorare, perché so che non riuscirò comunque a trovarlo) caratterizzava il contingente delle non forze di lavoro quando l’occupazione viaggiava a gonfie vele e il numero dei disoccupati si riduceva a ritmi sostenuti. Nonostante un panorama lavorativo ampiamente in positivo il continuo aumento degli scoraggiati rappresentava un aspetto che poneva degli interrogativi sulla reale capacità di assorbimento dell’offerta di lavoro da parte dell’economia. Una consistente fetta di popolazione attiva, dunque, rimaneva esclusa dal mercato del lavoro perché era in possesso di professionalità scarsamente appetibili. Ora la situazione è decisamente cambiata e sicuramente più grave. Il contingente degli scoraggiati sta subendo consistenti arretramenti da circa un anno mentre si ingrossano le fila di coloro che, seppur disponibili a lavorare e alla ricerca di lavoro, lo fanno in modo non attivo. E’ questo il gruppo di chi aspetta gli effetti di azioni di ricerca operate in tempi recenti ma che a causa della crisi restano al momento inevase, oppure, più semplicemente, che cambi il clima e che si inverta la tendenza.

Un’ultima osservazione va fatta relativamente a cosa ci riserva il futuro. E’ palese che qualsiasi tipo di previsione, in una situazione così drasticamente compromessa in cui qualsiasi dinamica o tendenza viene ad ogni aggiornamento esasperata, risulta azzardata, ma dal dato relativo al ricorso alla cassa integrazione guadagni, sempre desunto dalla rilevazione sulle forze di lavoro, è possibile ipotizzare quante persone nei trimestri successivi sono potenzialmente suscettibili di perdere la loro occupazione. Infatti, il numero di coloro che dichiarano di non aver lavorato oppure di aver lavorato un numero di ore inferiore al consueto perché in cassa integrazione guadagni ha registrato incrementi medi annui del 400% nei primi tre trimestri del 2009. In termini assoluti stiamo parlando di circa 300 mila persone. Inoltre, aumentano sensibilmente anche coloro che dichiarano di aver lavorato poco o per niente a causa di una ridotta attività dell’impresa per motivi economici o tecnici ma che non hanno usufruito della Cig (un incremento medio del 40% nei tre trimestri del 2009 che corrisponde ad un numero di unità di poco inferiore a chi ricorre alla Cig). Complessivamente, quindi, oltre mezzo milione di persone a trimestre soffre gli effetti della crisi e nel trimestre successivo sconta forti probabilità di uscire dall’occupazione. Anche nell’ultimo trimestre la tendenza è purtroppo confermata. In sintesi nessuno dei dati finora considerati fanno presagire ad una imminente uscita dalla crisi. Anzi il mercato del lavoro sta indubbiamente soffrendo degli effetti devastanti che hanno investito il settore finanziario prima e l’economia nel suo complesso poi. L’unica speranza è che si stia vivendo ora la fase acuta del “malanno” e che le conseguenze cicliche della tempesta, che ora si stanno abbattendo sul mondo del lavoro, si esauriscano al più presto. 

 

 L’autore è ricercatore dell’Istat - L'articolo è presentato a titolo personale e non impegna la responsabilità dell'Istituto

 

(05/01/2010)

 
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Lavoro, indietro di cinque anni

Post n°55 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da silvio.battistini

Tratto da Eguaglianza e libertà
Il mercato meno inclusivo dell’area Ocse si è anche confermato il più discriminatorio. Almeno verso i giovani e verso il sud, un po’ meno verso le donne. E’ anche questo un effetto della scelta del governo di affrontare la crisi senza fare quasi nulla

Gianni Principe

Per gli aedi del “nuovo miracolo italiano”, ovvero dei mirabolanti successi del nostro paese nel contrasto della crisi (“siamo i migliori dell’area Ocse”!), la diffusione dei dati mensili Istat sulle forze di lavoro è stato un boccone alquanto amaro da digerire. La notizia che ha più colpito, stando ai commenti, è l’aumento dei disoccupati alla cifra record dal 2004. Non è però la peggiore, né la più importante tra quelle che sono venute alla luce con i dati Istat.

Nel resto del mondo il dato sulla disoccupazione è solo un dato di contorno rispetto a quello, essenziale, sull’andamento degli occupati. Serve a dare un’idea della pressione sul mercato del lavoro e quindi del potere contrattuale dei salariati. In più, nel resto del mondo dove ad ogni disoccupato corrisponde, quasi senza eccezioni, un sussidio (che viceversa in Italia tocca all’incirca al 20% dei disoccupati), segnala il possibile aggravio per i conti pubblici. Quanto ai risvolti sociali, è evidentemente un dato significativo ma coglie solo una parte del problema: rispetto ai disoccupati; i “senza lavoro” sono infatti un insieme molto più ampio, che in alcuni paesi, come nel nostro, può essere addirittura quattro o cinque volte maggiore.

Si deve poi aggiungere che il dato italiano sulla disoccupazione è difficilmente paragonabile, perfino a quello Eurostat, cui pure è uniformato come metodologia di rilevazione, per il semplice fatto che da noi esiste un istituto come la cassa integrazione che sussidia chi, “temporaneamente” (almeno sulla carta), si trova senza un’occupazione ma non ha perso il rapporto di lavoro.

Disoccupati per il resto del mondo (ovvero inattivi, giacché non sono “alla ricerca attiva di un lavoro”, come è invece richiesto che siano secondo la definizione tecnica di disoccupato), nelle nostre statistiche figurano invece tra gli occupati. La differenza, nelle situazioni ordinarie, non è particolarmente rilevante ma quando, come nel caso della crisi attuale, riguarda centinaia di migliaia di persone diventa sensibile.

Al punto che se si sommassero ai disoccupati rilevati dall’Istat i beneficiari della cassa integrazione ne risulterebbe un dato sulla disoccupazione non più inferiore alla media europea ma almeno allineato se non superiore.

Più della disoccupazione, si è detto, conta però il dato sull’occupazione. E qui vengono gli aspetti più preoccupanti, quelli che meriterebbero maggiore attenzione, senza sciocchi funambolismi dialettici per “indorare la pillola”. Sul finire del 2009 in Italia gli occupati scendono al di sotto di quota 58 (in percentuale sulla popolazione in età lavorativa tra i 15 e i 65 anni). Si torna quindi indietro di un quinquennio, al periodo 2003-2005: per una singolare coincidenza, la maggioranza di governo era la stessa. In quegli anni, vale la pena di ricordarlo, aveva segnato una battuta di arresto la crescita iniziata nel 1997, ovvero nell’anno (un’altra singolare coincidenza) del pacchetto Treu, traduzione del primo Patto per il Lavoro tra governo e sindacati (tutti) del 2006. In cinque anni il tasso di occupazione era passato da un imbarazzante 51%, fanalino di coda europeo, al 57% (2002). Un trend che aveva fatto sperare addirittura nell’aggancio della meta europea fissata nel 2000 a Lisbona, in un’epoca di europeismo ambizioso, ricco di progetti e di obiettivi, non ancora rinchiuso su se stesso e ridimensionato: arrivare al 70% di occupati sulla popolazione in età lavorativa nel 2010. Una crescita di sei punti in cinque anni, se mantenuta costante, avrebbe consentito quel miracolo.

A quell’obiettivo si voleva puntare ancora quando, nel 2003, si era varata la seconda riforma, stavolta targata Berlusconi (la legge 30, attribuita a Biagi). Sarà che nel frattempo c’era stata la crisi delle torri gemelle, ma il sogno si è infranto, la crescita dell’occupazione si è arrestata per tre anni. Solo nel 2006 si è rimessa in moto per raggiungere il 59% nel 2008. A meno di un trimestre dal fatidico 2010 siamo costretti a rimuovere collettivamente quel sogno e quella ambizione. Siamo spaventosamente lontani.

Che cosa è successo? Chi ha perso il lavoro? Le risposte sono addirittura banali, a dispetto delle contorsioni dialettiche della propaganda. Hanno perso il lavoro i precari. Non sono stati rinnovati i contratti a termine, né le collaborazioni a progetto. Ai (finti) autonomi, o “professionisti senza albo”, non sono state affidate altre “commesse” (finzione speculare). Al Mezzogiorno, che arrancava sotto il peso della debolezza del tessuto produttivo, con i piedi nel fango del sommerso, è arrivato l’ennesimo colpo alle ginocchia.

Nonostante questo, non si è ritenuto fosse il momento adatto per mettere mano alle riforme; non lo hanno affermato solo dal versante del governo ma lo hanno confermato dall’opposizione e soprattutto lo hanno “rivendicato” i sindacati nelle espressioni più radicali: “primum vivere, fuori i soldi per le casse in deroga”. Per le promesse di giustizia (un sistema universalistico di copertura dal rischio della disoccupazione) i tempi sarebbero stati maturi più in là, a crisi passata. Invece, la crisi sta passando, nelle sue manifestazioni esteriori più evidenti e più drammatiche, senza che nulla sia cambiato nei fattori profondi di ingiustizia, di esclusione, di discriminazione, di inefficienza.

Siamo dunque di nuovo ad affrontare, anche partendo dall’andamento dell’occupazione, la questione, ridotta ai suoi termini essenziali, della politica economica del governo Berlusconi-Tremonti a fronte della crisi. Può darsi che aver scelto di non agire in profondità, di non riformare, di non investire e di non mobilitare grandi risorse, sia stato un segno di grande sagacia e di incrollabile fiducia, ben riposta, nelle capacità e nelle abilità dell’imprenditoria nazionale. Con buona pace di quei popoli della terra che si affidavano a leader politici che cercavano soluzioni nuove, mobilitavano risorse enormi, davano vita a scenari inediti, la via italiana per uscire dal tunnel potrebbe risultare la più efficace.

Se però, ammesso che si possa avanzare un simile dubbio, non fossimo i più furbi della terra, se la strada imboccata dai leader cui è stata data fiducia si dovesse rivelare illusoria e fallimentare, potremo anche attutire i colpi, magari già dal 2010, ma non ci risolleveremo. Per un paese che da quindici anni cresce regolarmente meno della media Ocse, sarebbe una prospettiva drammatica. Tale da far consigliare ai propri figli l’espatrio.

Non aver scelto la “via alta” per la ristrutturazione, aver tagliato le spese in istruzione, aver chiesto sconti e rinvii sul rispetto dei parametri ambientali e aver dilapidato risorse preziose per un regalo fiscale ai possessori delle case con più alta rendita (mentre Obama lanciava il più massiccio investimento in conoscenza, soprattutto nel sistema scolastico, e ambiente della storia Usa) si rivelerebbe così un disegno insensato, autolesionistico, un serio colpo per il futuro del nostro Paese.Quel che è certo è che questa “via bassa” è anche una “via iniqua”. Il mercato del lavoro meno inclusivo dell’area Ocse si è anche confermato il più discriminatorio. Almeno verso i giovani e verso il sud, un po’ meno verso le donne. Ebbene sì. Nella sventura è successo che le donne abbiano perso il lavoro un po’ meno degli uomini e che quindi il divario si sia un po’ ridotto. Magra consolazione, in un trend discendente. Se fosse anche un segnale per capire da dove ripartire, la si potrebbe considerare pur tuttavia una buona notizia.

 

(05/01/2010)

 
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UNA EXIT STRATEGY ANCHE PER IL MERCATO DEL LAVORO

Post n°54 pubblicato il 09 Dicembre 2009 da silvio.battistini

da: la voce.it

di Francesco Daveri 04.12.2009

La crisi ha prodotto pochi effetti negativi sul mercato del lavoro fino a questo momento, grazie soprattutto alla cassa integrazione. Ma con il passare del tempo emergono i costi di una strategia che difende solo i posti esistenti. E in Europa come in Italia, penalizza chi è al margine del mercato, in primo luogo i giovani. A confermarlo sono gli ultimi dati sulla disoccupazione. Anche qui ci vuole una exit strategy, non solo sul fronte dei deficit pubblici.

L’Istat, eliminando finalmente un’incomprensibile anomalia, ha pubblicato (e continuerà a pubblicare in futuro) i dati relativi all’occupazione, alla disoccupazione e alla partecipazione al mercato del lavoro con frequenza mensile. Come faceva da tempo il resto dell’Europa. Prima, i dati sulla disoccupazione uscivano ogni tre mesi con un ritardo di circa due mesi e mezzo rispetto alla scadenza del trimestre. Ora invece saremo informati più puntualmente. È un’ottima notizia: d’ora in avanti sarà possibile capire con più precisione come va l’economia italiana sul fronte che più preoccupa le famiglie in questo periodo di difficoltà.
 
CRISI E DISOCCUPAZIONE
 
Dei vari dati pubblicati, due hanno calamitato l’attenzione più degli altri. Prima di tutto si è osservato che i disoccupati in Italia sono arrivati a due milioni, il più alto numero dal gennaio 2004 a oggi. Il governo ha però ribattuto “Siamo comunque meglio della media europea: i disoccupati in Italia sono l’8 per cento delle forze di lavoro, contro circa il 10 per cento della media euro”. Tutti e due i dati sono veri, ma non aiutano molto a rispondere alle due domande cui sarebbe opportuno dare risposte: in che misura la crisi si sia scaricata sul mercato del lavoro e, soprattutto, chi abbia pagato e stia pagando il conto.
La tabella 1 fornisce gli elementi per rispondere alla prima domanda, cioè in che misura la crisi si sia scaricata sul mercato del lavoro. La riposta in breve sembra essere: “per ora poco”. Dalla tabella si vede infatti che la disoccupazione in Italia è salita di un punto percentuale (dal 7 all’8 per cento) nei dodici mesi compresi tra l’ottobre 2008 e l’ottobre 2009. Questo a fronte di una riduzione del Pil italiano tra l’inizio della crisi e il secondo trimestre 2009 del 6,5 per cento

 
 

Quello relativo all’aumento del tasso di disoccupazione è un dato migliore rispetto alla media europea: sia che la si misuri come area euro che come Unione Europea a 27, in Europa la disoccupazione è salita del doppio che in Italia, cioè di due punti percentuali, dall’8 al 10 per cento. Negli Stati Uniti è salita di 3,5 punti percentuali, dal 6,5 al 10 per cento. In poche parole, in Europa i mercati del lavoro italiano e tedesco – i paesi dove si è fatto un uso più intenso di ammortizzatori sociali che hanno di fatto legato strettamente i lavoratori al loro posto di lavoro (la Cig in Italia) - sono andati decisamente meglio degli altri nella crisi, almeno fino a questo momento. L'estremo opposto è il caso spagnolo dove la disoccupazione è salita di ben sei punti percentuali, dal 13 al 19 per cento. Con la Francia in mezzo, con un +2 del tutto uguale a quello della media europea.
Malgrado l’ampio ricorso alla cassa integrazione guadagni, i dati del mercato del lavoro sono sorprendentemente positivi per chi si ricorda di come è andato il Pil italiano durante la recessione, cioè molto male. L’ultima colonna della tabella mostra infatti che l’effetto della crisi sui redditi complessivi (misurato da ciò che succede al Pil) è stato più forte in Italia (-6,5 per cento) e in Germania (-6,5 per cento) che nel resto dell’Europa, dove il Pil è sceso “solo” del 5 per cento circa (e del 3 per cento in Francia).
“Di regola”, il mercato del lavoro reagisce con un ritardo di circa sei mesi e con una proporzione di circa un mezzo a ciò che succede al Pil. Nel caso dell’Italia e della Germania la correlazione non si vede grazie agli ammortizzatori sociali. Ma non si può escludere un colpo di coda della crisi, e che i lavoratori in Cig finiscano per entrare nelle liste di mobilità. Dopo tutto, anche se ora la recessione è finita, nell’aprile 2008 la produzione industriale era 109 e oggi non arriva a 90: mancano 19 punti di produzione che certamente corrispondono a un certo numero di lavoratori in eccesso.
 
PAGANO I GIOVANI
 
Tra i dati Eurostat però uno è più importante degli altri (vedi tabella 2).
Il prezzo della crisi sul mercato del lavoro lo stanno pagando soprattutto i giovani, in modo pressoché uniforme in tutta Europa. Il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 16 per cento nell’ottobre 2008, è arrivato quasi al 20,5 per cento nell’area euro, con una variazione di circa 4,5 punti percentuali. Se guardiamo agli stessi dati per l’Italia, vediamo numeri molto simili: la disoccupazione giovanile è aumentata proprio di 4,5 punti anche nel nostro paese. Se però incrociamo i dati della tabella 1 con quelli della tabella 2, viene fuori che mentre in aggregato il mercato del lavoro italiano fa molto meglio dell’Europa, non altrettanto riesce a fare con i giovani, dove peraltro già la situazione di partenza era sfavorevole.

Crisi e disoccupazione giovanile

L’analisi dei dati relativi alla disoccupazione giovanile fa emergere il punto debole della strategia di difesa dei posti di lavoro seguita fino a questo momento ed evidenzia la necessità di trovare una exit strategy, una “fase 2”. Se si difendono i posti di lavoro di quelli che il lavoro ce l’hanno già da anni, si ingessa il mercato del lavoro e a lungo andare si finisce per penalizzare le possibilità di ingresso e re-ingresso di quelli che avevano un lavoro precario prima della crisi e ora sono stati i primi a perderlo, e che proprio per questo non hanno trovato niente di meglio da fare che aprire una partita Iva. Offrire una prospettiva a queste categorie di lavoratori è il compito numero uno della politica economica per il 2010. In Europa, ma anche e soprattutto in Italia.
 
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