Creato da silvio.battistini il 10/02/2009
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Rapporto CENSIS: Crisi, bruciati oltre 760mila posti

Post n°53 pubblicato il 06 Dicembre 2009 da silvio.battistini

Per l’84% sono lavoratori dipendenti. Male soprattutto edilizia e industria. "Il sistema italiano ha retto meglio di altri paesi Ue, ma ci sono preoccupanti segnali di affanno". Soffrono Nord e Sud, tiene il Centro. Sono oltre 760mila i posti di lavoro persi in un anno a causa della crisi tra licenziati, messi in mobilità, contratti interrotti o chiusure di aziende. Dipendente (83,9 per cento), uomo (56,4 per cento) e residente al Nord o al Sud, questo l’identikit di chi soffre di più. Circa il 42 per cento di chi oggi è senza impiego lavorava nell’industria della trasformazione (27,1 per cento) e nell’edilizia (15,1), il 14,5 per cento nel commercio e il 9,1 nei servizi alle imprese. È quanto emerge dal 43esimo Rapporto Censis sulla situazione del paese. A questa platea “già numerosa - sottolinea il rapporto - si aggiungono quanti, pur occupati, lavorano a regime ridotto”: sono risultate infatti circa 310mila le persone che nella settimana in cui sono state intervistate non hanno lavorato, mentre circa 415mila l’hanno fatto ma per meno ore del solito. Si tratta per lo più di lavoratori dipendenti, in cassa integrazione o mobilità (quasi 350 mila) e sono concentrati soprattutto al Nord (65 per cento), segno di come in quest’area del Paese “il sistema, che pure ha tenuto - viene sottolineato - stia però registrando preoccupanti segnali di affanno”.

“IL SISTEMA TIENE”. Fino a oggi “il mercato del lavoro in Italia ha tendenzialmente retto, o almeno non ha reagito alla crisi peggio di quello di altri paesi”, afferma poi il Censis ricordando i dati Istat secondo cui lo a giugno scorso risultavano persi, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, 378mila posti di lavoro, con una diminuzione dell’occupazione dell’1,6 per cento. “Un dato esattamente in linea con quello medio europeo - si evidenzia - e migliore di paesi come la Spagna, che ha bruciato 1 milione 480 mila posti di lavoro, con una perdita del 7,2 per cento”. Tuttavia, la tenuta non c’è stata in tutto il paese né in tutti i settori. Al Sud i posti di lavoro bruciati sono stati 271mila, segnando un 4,1 per cento in meno rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Al Centro l’occupazione è addirittura cresciuta, anche se di poco (+0,2 per cento). Anche a livello settoriale non mancano le differenze: a fronte di comparti che hanno visto ridurre sensibilmente i propri livelli occupazionali, come l’industria, il turismo e il commercio (rispettivamente del 4 per cento i primi due, del 3,5 per cento il terzo), altri hanno registrato invece una crescita: i servizi pubblici, sociali e alle persone (+6,6 per cento), istruzione, la sanità e altri servizi (+0,4 per cento).

SOFFRE IL ‘PARALAVORO’. Il lavoro autonomo ha registrato una perdita di 277mila unità (-5,8 per cento), interessando in misura più significativa il mondo del professionismo e del lavoro in proprio (-11,3 per cento), piuttosto che i piccoli imprenditori alla guida di aziende (-4,2 per cento). Grande sofferenza per il "bacino del paralavoro", ovvero quelle formule occupazionali cresciute a metà strada tra lavoro dipendente e autonomo, che costituiscono una quota ormai importante del mercato (a giugno erano 3 milioni 565mila lavoratori) e hanno registrato una perdita del 4,3 per cento (162mila posti). In particolare, sono colpite le forme di lavoro a termine (-229mila in un anno, con una contrazione del 9,4 per cento), seguite dalle collaborazioni a progetto (-12,1 per cento) e da quelle occasionali (-19,9 per cento).

SALE IL POPOLO DELLE PARTITE IVA, dei collaboratori senza addetti e monocommittenti, che raggiunge quasi quota un milione (+132 mila, con una crescita del 16,3 per cento); un dato, quest’ultimo, secondo il Censis imputabile alla sostituzione di contratti flessibili con formule ancora più esternalizzate e a basso costo. Continua a crescere il lavoro tradizionale, dipendente e a tempo indeterminato, registrando tra il mese di giugno 2008 e il mese di giugno 2009 un +0,4 per cento (con un incremento di oltre 60 mila posti di lavoro), in linea con le tendenze già riscontrate a marzo, quando la crescita era stata ancora piu’ significativa (+1,5 per cento).

 
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L'autunno delle nuove Innse

Post n°52 pubblicato il 23 Agosto 2009 da silvio.battistini

La crisi e la protesta
"Al rientro 50mila disoccupati"
Stefano Rossi

Già occupate tre fabbriche. A rischio anche i comparti che tirano. La Nokia Siemens (600 addetti) vuole trasferirsi in Cina.
I sindacati: è finito l'ossigeno. La ripresa di settembre sarà costellata di aziende che i lavoratori, al ritorno delle ferie, troveranno chiuse. E potrebbero fiorire molte nuove Innse, con occupazioni e presidi nel tentativo di salvare il posto di lavoro come nella fabbrica di via Rubattino. È la previsione del sindacato, che azzarda una cifra preoccupante: «Cinquantamila nuovi disoccupati a Milano e provincia al ritorno dalle ferie» dice Antonio Lareno, della segreteria della Camera del Lavoro.
Solo che le nuove Innse non saranno una storia romantica alla Ken Loach, che finisce tra brindisi ai lavoratori e a un nuovo padrone che salva la baracca. Saranno, piuttosto, aziendine con pochi addetti che chiudono alla chetichella in queste settimane. «Non succede a causa della cattiveria dei proprietari che approfittano dell´estate, ma perché non ce la fanno più, è finito l´ossigeno - spiega Maurizio Zipponi, responsabile Lavoro e Welfare di Italia dei Valori - e saranno un numero enorme».
Già oggi ci sono tre fabbriche occupate. Quella che più assomiglia alla Innse è la Ercole Marelli Power (idrogeneratori) di Sesto San Giovanni. Per Lares (circuiti stampati) e Metalli Preziosi (metalli nobili per l´elettronica) di Paderno Dugnano, che fanno parte di un unico gruppo, la storia è diversa: sono state dichiarate fallite e si spera che almeno la seconda venga salvata dai soci russi. «Già, se non si fa avanti un russo o un cinese ormai non si trova più nessuno - riflette il segretario regionale Uil, Walter Galbusera - dove sono finiti gli italiani?». «Milano ha manager, azionisti, consulenti, ma mancano gli imprenditori - conferma Zipponi - e non è il solo guaio. Gli altri sono la mancanza di un nuovo comparto produttivo in grado di sostituire quello in crisi, come avvenne con l´information technology al posto della siderurgia, e soprattutto il trasferimento dei centri di ricerca. Le multinazionali li chiudono a Milano a vantaggio di Parigi, Monaco, Francoforte».
La crisi, insomma, oltre a colpire il presente compromette il futuro. Nella ricerca medica, ad esempio, per arrivare al farmaco servono dieci anni di sperimentazione senza profitti immediati. Se alla Cell Therapeutics 55 ricercatori rischiano il posto, e se è in difficoltà il polo di Nerviano, che ha solo tamponato l´emergenza finanziaria e dove sono allo studio farmaci antitumorali, quando arriverà la ripresa si rischia di aver perso troppo terreno. Un pericolo che attraversa tutti i comparti produttivi: a Cinisello e Cassina de´ Pecchi, 600 persone lavorano al centro ricerche di Nokia Siemens: il settore è uno dei pochi ad andare a gonfie vele ma il colosso dei telefoni vuole spostare i laboratori in Cina, Vietnam, India.
Solo il mese scorso, una settantina di aziende milanesi ha avviato procedure di cassa integrazione o mobilità (e sono 400 dall´inizio dell´anno). Ci sono industrie chimiche, agenzie di viaggio e alberghi, filiali di multinazionali che naturalmente tagliano prima all´estero: la giapponese Yokogawa (software per processi industriali), la svizzera Liebherr (noleggio di macchine movimento terra), la tedesca Dürkopp Adler (macchine per cucire). «Siamo in trincea» riassume Lareno, invocando «un´agenzia che rilanci le aziende in crisi alla luce di una politica industriale regionale e metropolitana, senza la quale Milano rischia un pesante ridimensionamento». Richiesta condivisa dalla Uil.
Cinquantamila disoccupati a settembre, fra nuove richieste di mobilità e trasformazione in mobilità della cassa integrazione, secondo Zipponi «porteranno alla rottura sociale». Attualmente in Lombardia ci sono 60mila lavoratori in cassa integrazione, di cui un terzo con cassa in deroga per le imprese con meno di 15 dipendenti. A Milano, nel primo semestre 2009, sono stati autorizzati oltre 19 milioni di ore di cassa integrazione contro i 3,8 milioni del primo semestre 2008. «L´Innse - conclude Zipponi - ci dice che se uno è costretto ad arrampicarsi a venti metri perché non sa che altro fare, il messaggio alla politica e al sindacato è terribile: non abbiamo rappresentanza alla quale affidarci».

(20 agosto 2009)

 
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QUANTI SONO I LAVORATORI SENZA TUTELE

Post n°51 pubblicato il 23 Agosto 2009 da silvio.battistini

Tratto da: www.lavoce.it

di Fabio Berton , Matteo Richiardi e Stefano Sacchi 15.06.2009

Due milioni nello scenario peggiore, un milione e mezzo in quello più favorevole: sono questi i numeri dei lavoratori senza tutele. Gli interventi del governo hanno sì ridotto la platea dei coloro che in caso di perdita del posto resterebbero privi di qualsiasi forma di sussidio, ma sono ben lungi dall'averla annullata. Tanto più che le indennità di disoccupazione e in deroga si esauriscono in fretta, mentre la crisi occupazionale potrebbe essere lunga. Tutto il sistema è da riformare in mercato del lavoro caratterizzato da carriere sempre più frammentate.

Il governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali ha lanciato l’allarme: “si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento” (p. 12). Il presidente del Consiglio Berlusconi, dal canto proprio, ha replicato dicendo che “la sua informazione sui precari non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana”, e ha  sottolineato come i fondi messi a disposizione dal governo e dalle regioni per la concessione di ammortizzatori sociali in deroga e per l’erogazione di indennità di disoccupazione alle categorie di lavoratori che ne sono tradizionalmente escluse serviranno a fornire una tutela a tutti. Chi ha ragione? Abbiamo provato a dirimere la questione attraverso un approccio diverso da quello utilizzato dai ricercatori di Banca d’Italia. Il risultato è univoco: ha ragione il governatore.

QUANTI ESCLUSI?

Grazie alla ricostruzione delle storie lavorative individuali effettuata attraverso i dati di fonte amministrativa della banca dati Whip, nel nostro volume Flex-insecurity mostriamo come, in caso di perdita del posto di lavoro, i requisiti vigenti escludano dal godimento delle indennità di disoccupazione molti lavoratori, soprattutto se con storie lavorative brevi e frammentate (tabella 1, colonna 2). (1) Sono la totalità dei lavoratori parasubordinati, dal 38 al 79 per cento dei lavoratori dipendenti con contratti di durata prefissata, ma anche oltre il 10 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato. Applicando tali percentuali di esclusione allo stock di occupati rilevato dall’Istat per il quarto trimestre del 2008 e utilizzato anche da Banca d’Italia per le proprie stime (colonna 1), calcoliamo in almeno 3,2 milioni i lavoratori esclusi dalle indennità di disoccupazione (ordinaria e a requisiti ridotti; colonna 3). (2)
Per ovviare a questa situazione il governo è intervenuto in tre direzioni: a) concedendo l’indennità di mobilità in deroga rispetto alle limitazioni settoriali e di dimensione di impresa nonché ai requisiti della forma contrattuale e dell’anzianità aziendale del lavoratore previsti dalla legge; b) erogando, per tre mesi, l’indennità di disoccupazione ordinaria agli apprendisti con almeno tre mesi di anzianità aziendale che vengono licenziati; c) introducendo un’indennità una tantum per i lavoratori a progetto (un sottoinsieme dei parasubordinati) che rispettino determinati requisiti.

Tabella 1: lavoratori senza tutela in caso di perdita del posto di lavoro (dati in migliaia)

Forma di contrattoStock di soccupatiPercentuale di esclusi dalle indennità di disoccupazioneEsclusi dalle indennità di disoccupazionePercentuale di esclusi nel primo scenarioEsclusi nel primo scenarioPercentuale di esclusi nel secondo scenarioEsclusi nel secondo scenario
Tempo indeterminatoa11.30210,51.1872,52832,5283
Tempo determinato1.96838,175038,175018,3360
Apprendistato26078,920510,52710,527
CFL b140c50,07050,0705,07
Somministrazione11647,85547,85523,327
Lavoratori a progettoa560100,056087,549087,5490
Co.co.co. b375100,0375100,0375100,0375
TOTALE14.721-3.202-2.050-1.569

 

a: solo settore privato; b: solo settore pubblico; c: il computo è stato effettuato sottraendo i 260mila apprendisti ai circa 400mila individui impiegati nel 2008 con contratti aventi finalità formativa (dati Rcfl)Fonti: per la colonna 1, tavole 9.4 e 9.5 della relazione annuale del governatore della Banca d’Italia (rilevazione Istat sulle forze di lavoro) per i lavoratori dipendenti e dati Isfol-Plus per lavoratori a progetto e collaboratori coordinati e continuativi; per le colonne 2, 4 e 6, nostre elaborazioni su dati Whip; per le colonne 3, 5 e 7 abbiamo applicato le percentuali delle colonne 2, 4 e 6 agli stock della colonna 1.

Per capire come gli interventi del governo abbiano ridotto la platea degli esclusi, occorre considerare che, in assenza di deroghe, l’indennità di mobilità è appannaggio pressoché esclusivo dei lavoratori delle grandi imprese del settore industriale che lavorano presso l’azienda beneficiaria con un contratto a tempo indeterminato da almeno dodici mesi, di cui sei di lavoro effettivamente prestato. Le deroghe riguardano generalmente il settore e la dimensione dell’impresa presso la quale il lavoratore è impiegato. Come consentito dal decreto anticrisi (3), i vari accordi tra le singole regioni e le parti sociali prevedono poi la concessione dell’indennità di mobilità in deroga anche a lavoratori impiegati con forme contrattuali diverse dal lavoro dipendente a tempo indeterminato (con differenze tra regione e regione) purché venga soddisfatto un requisito di anzianità aziendale minimo, sovente individuato in novanta giorni, come nel caso ad esempio di Piemonte, Lombardia e Veneto.
Per le nostre stime di esclusione abbiamo allora immaginato due scenari.

Nel primo (tabella 1, colonne 4 e 5), l’indennità di mobilità viene concessa a tutti i lavoratori a tempo indeterminato che soddisfano il requisito meno stringente dell’intero sistema italiano di ammortizzatori sociali, quello lavorativo richiesto per l’ottenimento dell’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti: bastano 78 giornate lavorative. (4) Anche in questo caso di estremo favore, il 2,5 per cento dei lavoratori a tempo indeterminato resterebbe privo di tutela. L’estensione in via sperimentale per il biennio 2009-10 dell’indennità di disoccupazione agli apprendisti prevista dal decreto anticrisi riguarda poi soltanto i lavoratori “licenziati”. Anche in questo caso abbiamo voluto essere conservativi nelle nostre stime, ipotizzando che l’indennità venga concessa a tutti gli apprendisti che perdono il posto di lavoro, quindi anche a quanti non ottengono la trasformazione del contratto alla scadenza, e abbiamo utilizzato il requisito delle 78 giornate lavorative. Sarebbero allora esclusi dalla tutela il 10,5 per cento degli apprendisti. In un nostro precedente intervento [link to: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001011.html], infine, abbiamo mostrato come l’indennità una tantum ai lavoratori a progetto, e non ai collaboratori coordinati e continuativi del settore pubblico che ne rimangono esclusi, riguardi al massimo 70mila lavoratori. Fatte le somme, il numero di lavoratori che in caso di perdita del posto resterebbe privo di tutela ammonterebbe quindi a 2 milioni.
Nel secondo scenario (tabella 1, colonne 6 e 7) abbiamo invece immaginato che tutti gli accordi regionali prevedano la concessione dell’indennità di mobilità a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dalla forma contrattuale, con l’unico requisito dei 90 giorni di anzianità aziendale, da noi anche qui ulteriormente ammorbidito in 78 giornate prestate presso qualsiasi datore di lavoro. Anche in questa seconda e più generosa prospettiva, tuttavia, si continuerebbe a superare il numero di 1 milione e 500mila lavoratori privi di qualsiasi tutela in caso di perdita del posto di lavoro.
Secondo le nostre stime, dunque, gli interventi del governo hanno sì ridotto la platea dei lavoratori che, in caso di perdita del posto, resterebbero privi di tutele, ma sono ben lungi dall’averla annullata. Queste stime sono poi da considerarsi caute, perché le deroghe alla concessione dell’indennità di mobilità potrebbero nei fatti essere molto meno generose di quanto ipotizzato. (5)

CHE FARE?

Nei romanzi gialli tre indizi fanno una prova. Ci sembra che in questo caso due siano più che sufficienti per mostrare la gravità della situazione, senza contare che nel sistema italiano le indennità di disoccupazione, così come quelle in deroga, si esauriscono in fretta, mentre la crisi occupazionale potrebbe essere lunga. Per chi riesce a ottenerla, l’indennità ordinaria dura otto mesi, mentre negli accordi quadro regionali l’indennità di mobilità in deroga è limitata a sei mesi. Anche ipotizzando uno scenario più roseo di quello degli anni Novanta, quando dopo la recessione del 1992-93 il livello occupazionale del 1992 venne nuovamente raggiunto solo nel 1999-2000 (e il calo del Pil fu allora del 2 per cento cumulato su sei trimestri, contro il 5 per cento stimato per il 2009), il rischio è che il numero dei privi di reddito diventi imponente nei prossimi mesi, quando anche i lavoratori che riescono ad accedervi esauriranno il diritto alle prestazioni.
Il governatore Draghi nelle sue Considerazioni finali sostiene che non occorre rivoluzionare il sistema attuale degli ammortizzatori sociali: “lo si può ridisegnare intorno ai due tradizionali strumenti della cassa integrazione e dell’indennità di disoccupazione ordinarie, opportunamente adeguati e calibrati” (p. 13). Le nostre stime mostrano che, pur allentandone notevolmente le maglie, l’attuale sistema risulta inadeguato a proteggere più di 1,5 milioni di lavoratori nell’ipotesi più ottimistica. Dubitiamo che un sistema soltanto assicurativo, per quanto ricalibrato, possa funzionare in un mercato del lavoro caratterizzato da carriere sempre più frammentate.

 
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La Cig è sempre pesante

Post n°50 pubblicato il 23 Agosto 2009 da silvio.battistini

LAVORO E PENSIONI » News lavoro

(Da Miaeconomia)

Immagine a corredo dell'articolo - La Cig è sempre pesante - miaeconomia.leonardo.it (21/08/2009)

Più di un esperto lo aveva detto: l'economia inizierà a uscire dalla crisi ma per il mercato del lavoro i guai non finiranno, anzi, si faranno sempre più pesanti.

Questa volta è la Cgil a lanciare un dato allarmante, oltre 770 mila lavoratori in cassa integrazione nel corso dei primi 6 mesi dell'anno. Il sindacato fa il calcolo considerando, tra gennaio e giugno, un'assenza media dal lavoro di 12 settimane per ognuno. Il settore più colpito, secondo le stime, la meccanica con 343mila lavoratori.

E se la crisi si sovrappone a un disastro naturale i guai diventano immensi, tanto che la Cgil segnala che in Abruzzo, teatro del tremendo terremoto, nei primi 6 mesi dell'anno le ore autorizzate hanno segnato un incremento del 551% rispetto allo stesso periodo del 2008.

Anche per questo la Cgil sottolinea: "La richiesta che abbiamo avanzato già da tempo di allungare il periodo di Cig ordinaria dalle 52 alle 104 settimane resta più che mai valida".

Una situazione che non passa inosservata neanche tra gli industriali. "Bisogna rifinanziare gli ammortizzatori sociali a sostegno di chi perde il posto di lavoro, bisogna abbassare tasse e contributi sui salari aziendali per dare più soldi in tasca ai lavoratori e più efficienza alle imprese, e infine dobbiamo rendere più forti finanziariamente le imprese", avverte Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria.

La detassazione dei redditi fissi convince anche le associazioni come Federconsumatori e Adusbef, parlando di un aumento del potere di acquisto delle famiglie a reddito fisso, "ribadiamo esclusivamente a reddito fisso, di almeno 1200 euro al mese, attraverso un processo di detassazione di tali redditi".



 
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LA PRECARIA INDAGINE SUI PRECARI

Post n°49 pubblicato il 05 Giugno 2009 da silvio.battistini

Tratto da www.lavoce.it

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 04.06.2009

L'Italia è uno dei pochissimi paesi europei in cui non sono ancora disponibili dati sull'occupazione e la disoccupazione nel 2009. Questi dati vengono raccolti sulla base di rilevazioni continue, il che significa che, ad esempio, anche oggi sono in corso rilevazioni. Poi i dati vengono centralizzati, si svolgono una serie di controlli di coerenza e poi vengono elaborati. Tutto questo richiede circa tre mesi. Ciò non impedisce dunque a un istituto di statistica di pubblicare ad aprile i dati di gennaio, a maggio quelli di febbraio e così via. Da noi, invece, si aspetta la fine di ogni trimestre per rendere pubblici i dati, il che significa che solo a fine giugno sapremo cosa è accaduto nei primi mesi del 2009. Questo è un fatto molto grave perché impone alla politica economica (e al dibattito pubblico) di operare al buio. Soprattutto in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo, questo ritardo è molto costoso. Impedisce, ad esempio, di capire cosa sta succedendo ai lavoratori precari. Quanti di loro hanno già perso il posto di lavoro nella recessione.
Perché in Italia non si pubblicano dati mensili su occupazione e disoccupazione basati sull’indagine sulle forze lavoro? Il problema è che per svolgere un’indagine che interessa i lavoratori precari l’Istat si è dotato di una rete di … precari. Si tratta infatti di circa 320 rilevatori che operano sul territorio con tecniche CAPI (computer assisted personal interviews). Questi rilevatori hanno una tipologia contrattuale - co.co.co. - che la Funzione Pubblica già nel 2005 dichiarò illegittima, intimando all'Istat di cambiarla. Da allora, di anno in anno e di emendamento in emendamento, la rete sopravvive in regime di deroga e in attesa di una "soluzione definitiva". L'ultimo decreto milleproroghe ha concesso l'ennesima proroga ma solo fino al 30 giugno di quest'anno. Nell’attesa di vedere cosa succederà ai rilevatori, l’Istat ha così deciso di rimandare i piani di pubblicazione di dati mensili sulle forze lavoro, lasciando tutto in sospeso.
Ma c’è un rischio ancora peggiore. Nel caso in cui la Funzione Pubblica decidesse di non concedere più la solita proroga, l’Istat potrebbe condurre tutte le interviste senza rilevatori sparsi sul territorio. In altre parole, l’indagine verrà svolta solo per via telefonica. Questo significa ottenere stime distorte e incoerenti con quelle degli anni precedenti, con ripercussioni anche sulla stima del PIL, per la quale l'occupazione stimata a partire dall’indagine forze lavoro rappresenta un asse portante.
Per capire gli effetti di questa scelta, basta ricordare come si svolge oggi l’indagine. Questa prevede quattro interviste per ogni famiglia a cadenze prestabilite. La prima intervista viene effettuata da un rilevatore professionista presso l'abitazione della famiglia con tecnica face to face (CAPI). Quelle successive sono svolte telefonicamente da una società specializzata, tranne che nel caso di famiglie senza telefono o con intestatario straniero. In questi casi, sono gli stessi rilevatori della prima intervista a visitare nuovamente la famiglia. Se tutto dovesse svolgersi con il metodo CATI si rischia di avere una bassa qualità della prima intervista e di non raggiungere le famiglie senza numero di telefono. Inoltre, il metodo CAPI è fondamentale quando si ha a che vedere con famiglie di immigrati, che non parlano bene la nostra lingua.

 
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