Creato da lafarmaciadepoca il 13/10/2010

La farmacia d'epoca

Raccolta di scatole e flaconi di farmaci di ieri - di Giulia Bovone

Messaggi di Luglio 2012

Le Pastiglie Pettorali Sadora

Post n°243 pubblicato il 31 Luglio 2012 da lafarmaciadepoca
 

Colgo l’occasione di questo post per scusarmi dell’assenza di queste ultime settimane: che ci crediate o no, il team della Farmacia d’Epoca è composto da una studentessa di biologia e quando ha gli esami, il blog passa ovviamente in secondo piano.

Così, prima della pausa estiva del mese di agosto, mi sentivo in dovere di fornirvi un post e di rassicurarvi. Sì, sono viva, terribilmente stanca ma viva.

Ricordo inoltre, che sebbene non ci saranno post o aggiornamenti, il servizio gratuito di datazione delle scatole non chiude mai, se avete bisogno del mio aiuto l’indirizzo email è quello scritto in arancione nell’intestazione del blog.

Per oggi, ho deciso di proporvi una scatola in bachelite delle Pastiglie Pettorali dei Laboratori Chimici Sadora.

Nonostante il nome, queste pastiglie non aumentavano la massa muscolare e non erano prodotte dai Laboratori Chimici del famoso mostro giapponese Sadora. Il loro scopo era curare  tossi, raffreddori, catarro bronchiale e asma.

Questa “delizia” anni Quaranta era a base di aconito (tossico e velenoso anche a bassi dosaggi), codeina ( l’alcaloide per eccellenza dagli effetti “rilassanti”), balsamo del Tolù ( antisettico di origine vegetale dalle proprietà balsamiche), lauroceraso (tossico, ha un odore di mandorle amare perché contiene acido cianidrico) e l’immancabile zucchero, per conferire un minimo di appetibilità al confetto.

Ecco la foto della scatola:


Misura 6 cm x 2,3 cm. La posologia raccomandava per gli adulti 8 – 12 pasticche al giorno, per i bambini metà dose.
Dei laboratori Chimici Sadora di Milano, siti in via Savona 13 non è rimasto nulla. Se abitate nella zona e sapete cosa gli è accaduto, fatemelo sapere, così da aggiornare l’articolo.

Grazie per  aver letto il post e buone vacanze a tutti!

 
 
 

Fenapirina

Post n°242 pubblicato il 16 Luglio 2012 da lafarmaciadepoca
 

Il farmaco di oggi ha una storia lunga, complicata, ricca di colpi di scena e piace a Marco Capponi: sto parlando della Fenapirina.

La sua storia iniziò sabato due novembre del 1940, quando venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia l’effettiva registrazione del marchio del farmaco, ad opera dell’Officina Farmacoterapica Ambrosiana.

Ma la Fenapirina non era semplicemente un farmaco qualunque, era la risposta ad una preghiera: avere disponibile sul mercato un antipiretico efficace.
Anche se a noi uomini e donne del Ventunesimo secolo sembra una cosa da nulla avere una o due lineette di febbre, ancora nella prima metà del Novecento, quella febbriciattola era l’anticamera dell’aldilà, soprattutto nel caso delle povere fanciulle denutrite di cui abbondano le pagine dei romanzi.

Non esisteva nulla che potesse controllarla: gli antibiotici in Italia hanno iniziato a circolare dagli anni Cinquanta, per le febbri recidive si usava l’acido arsenioso e il chinino non poteva essere utilizzato troppo a lungo a causa dei suoi effetti collaterali. Cosa fare allora per placare la febbre?

L’uomo che involontariamente diede una risposta a questa domanda fu Harmon Northrop Morse. Nel 1878, infatti egli fu il primo a sintetizzare la fenacetina, il primo analgesico con proprietà antipiretiche decenti.
Peccato che nemmeno lui stesso si rese conto dell’effettiva portata della sua scoperta e la fenacetina rimase nell’oblio fino agli inizi del Novecento.
Questo “ritardo” fu dovuto soprattutto alla mancanza di dati e di sperimentazioni circa l’efficacia di questa molecola: addirittura non si conosceva la via biochimica o i metaboliti della fenacetina, perciò era veramente difficile utilizzare in campo farmaceutico una molecola così “ignota”.

Il primo a svolgere una comparazione tra la fenacetina ed altri antipiretici come il paracetamolo fu Joseph von Mering nel 1893. Dai suoi studi emerse che al contrario della sicurissima fenacetina, il paracetamolo aveva troppi effetti collaterali, tra cui la metaemoglobinemia, ovvero un aumento di metaemoglobina sanguigna, che può avere esiti mortali.

A questo punto vi chiederete come mai noi utilizziamo il paracetamolo e abbiamo catalogato la fenacetina tra le molecole cancerogene e pericolose per la salute.
Sarà tutta una trovata commerciale? Assolutamente no.

Il paracetamolo sintetizzato da von Mering non era completamente puro, infatti la metaemoglobinemia poteva essere stata causata da un eccesso di amminofenolo, utilizzato durante la sintesi.
In più, intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, una serie di studi biochimici mise in luce che la fenacetina non è nient’altro che il precursore del paracetamolo.

Quindi, appurata la sicurezza di questa bistrattata molecola, negli anni Settanta / Ottanta finalmente venne sostituita alla fenacetina, perché contemporaneamente la Food and Drug Administration americana, aveva finanziato una serie di test per controllare la validità e la sicurezza di quest’ultima. Ne venne fuori che era cancerogena oltremisura, perché nel processo biochimico che portava alla trasformazione in paracetamolo, venivano creati anche dei metaboliti tossici  responsabili della carcinogenesi e quindi era preferibile utilizzare il principio attivo finale al posto del suo precursore.
I farmaci alla fenacetina furono ritirati dal mercato nel 1983, e oggi la fenacetina è usata solo per tagliare la cocaina.

Concluso il discorso storico, ecco la foto del tubetto:


Misura 6,5 cm x 1,5 cm e risale agli anni Sessanta, infatti è puramente in plastica.
La Fenapirina è un farmaco che ricade nella classe degli analgesici A.P.C. ( Aspirin, Phenacetin, Caffein) ovvero aspirina, fenacetina e caffeina.
Erano analgesici d’urto che curavano di tutto e di più: nevralgie, influenza, dolori reumatici e, se combinati con i barbiturici, avevano anche un effetto calmante.

La dose era da 1 a 5 pastiglie al giorno e l’unica precauzione era di assumere le pastiglie con un po’ d’acqua. Questo farmaco era considerato così tanto “sicuro” che l’unico inconveniente era rappresentato dal fatto che la pastiglia potesse andarvi di traverso.

Grazie per aver letto il post!    

 
 
 

CSI : Crimini Scientificamente Incredibili

Post n°241 pubblicato il 05 Luglio 2012 da lafarmaciadepoca
 

Sì, lo so, la televisione non è più quella di una volta, ed è difficile trovare un programma di intrattenimento che faccia trascorrere una serata in allegria. Dove sono finiti quei bei programmi di cabaret, con quei comici che ti facevano sganasciare dalle risate con i loro tormentoni e le loro battute?

Adesso fanno vedere tutti quei telefilm truculenti dove si ammazzano prendendosi a coltellate e a padellate in testa, dove ci sono tutti quei detective che analizzano le prove come scienziati navigati e schiaffano l’assassino in gattabuia senza sbagliarsi mai.
Saranno belli, saranno avvincenti, ma non sono il massimo della comicità.

Sbagliato, amici miei, sono la cosa più divertente del creato se si presta attenzione, perché traboccano di errori fin dal primo minuto e soprattutto non ci va un “topo di laboratorio” per individuarli.

Analizziamo la serie televisiva investigativa per eccellenza, il caro buon vecchio CSI: credo che molti di voi saranno rimasti abbagliati da questi laboratori attrezzatissimi, ultramoderni e bui.

Mai nella realtà troverete un laboratorio talmente buio da far pensare che metà dei lavoratori siano vampiri: la prima cosa che rende un laboratorio (o qualunque posto di lavoro) funzionale è appunto un’adeguata illuminazione. Se devi avere a che fare con liquidi da travasare esattamente o con la temuta pipetta a bocca enologica ( quanto vino ho bevuto la prima volta!) non puoi lavorare al buio, esattamente come non può fare misure esatte un falegname o un’incisione un chirurgo.

Voi avete mai visto un tappo sui matracci di CSI? Io no. Il matraccio non è nient’altro che un contenitore di vetro utilizzato per conservare i reagenti nei laboratori, e si sa che essi devono rimanere incontaminati. Se ci ragionate un attimo, i tappi vanno sui matracci per lo stesso motivo per cui tappiamo le bottiglie dell’acqua: per mantenere il contenuto pulito e prevenire eventuali contaminazioni. Per come conservano i reagenti i detective di CSI, devono averne da farci il bagno dentro.

Tralasciando i colori improbabili dei contenuti dei matracci, ma non è che sempre per il motivo di prima, forse vadano conservati in frigo? Perché, esattamente come conserviamo in frigorifero il succo di frutta aperto, anche i reagenti hanno bisogno di essere conservati adeguatamente, ed alcuni di essi addirittura devono essere protetti più di altri dalle fonti di luce e di calore. Invece i detective li lasciano in bella vista, senza preoccuparsi troppo se vadano a male o meno: miglioreranno il feng shui della stanza.
Inoltre i reagenti hanno bisogno di tempo per reagire, addirittura in alcuni casi sono necessarie delle mezze giornate. Tutto ciò è normale: quando candeggiamo la biancheria, la lasciamo qualche minuto in ammollo. Non come il Luminol marca CSI, che reagisce istantaneamente e per di più in ambienti luminosi (l’unica volta che hanno bisogno un ambiente buio, non ce l’hanno).   

Questo è dedicato a chi ha curato la consulenza di CSI New York: se i detective devono bruciare qualcosa, ed è possibile che si sviluppino dei fumi tossici, è bene che la procedura sia svolta sotto cappa. Non che si mettono in mezzo al laboratorio e danno fuoco così come gli pare: chiunque abbia un po’ di buonsenso aprirebbe perlomeno una finestra, ma in CSI non si può, la luce ucciderebbe Nosferatu, l’anatomopatologo.

I momenti più belli di CSI sono sicuramente le ricostruzioni fatte al computer del medico legale, con  il modello del corpo della vittima dove si vedono le ossa danneggiate o i risultati delle analisi. E’ un computer bellissimo e ultramoderno, che dice di tutto e di più, fornisce informazioni preziosissime e poi scade immancabilmente quando contrassegna con una bella “X” ad intermittenza l’osso fratturato. Un po’ come quando ti sbagliavi ad inserire la lettera dell’alfabeto con il computer di Topolino. Ciò, immancabilmente, ti fa sorgere il dubbio che per confrontare i test del DNA utilizzino lo stesso metodo su cui è basato il funzionamento della Penna Parlante di Sapientino.

Un’altra cosa che non ho capito è quale caspita di microscopio usino questi detective. Sicuramente nella vostra carriera scolastica vi sarà capitato di vedere qualche vetrino al microscopio ottico, o addirittura di averlo preparato voi stessi, con la buccia della cipolla o della carota. Cosa vedevate? Delle immagini a due dimensioni, piatte, perché stavate osservando una sezione.
Ora spiegatemi per quale arcana ragione, gli investigatori di CSI, al microscopio ottico, non vedono delle sezioni piane ma delle immagini in 3D. Ma quei microscopi li hanno avuti in prestito dalla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts? Cosa costa far vedere delle immagini 3D associate al microscopio elettronico a scansione e delle immagini piane per quello ottico?

Ma l’errore più grossolano è questo: le detective non possono tenere i capelli al vento come Siria la Bionda Valkiria, i vostri capellini potrebbero cadere sulla scena del delitto, infilarsi nei matracci stappati, e contaminare le prove. Ve lo dice una persona che se non si raccoglieva i capelli, non avrebbe avuto l’autorizzazione ad entrare in un laboratorio … enologico. Inoltre, per favore, quando fate i campionamenti sulla scena del delitto, mettete le tutine bianche: non sono un paio di guanti di lattice a garantire l’asetticità delle prove. D’accordo che non siano l’abito più femminile del mondo, ma pensate anche all’Omino della Michelin che pure lui d’ogni tanto ha bisogno di qualche “brivido”.

In sostanza, non ci vuole molto per capire che tanti di questi serial scadono parecchio dal punto di vista scientifico: basta ragionare un po’ e ci si rende conto che il peggior errore che una produzione può fare è cercare di trasformare un detective in un “topo di laboratorio”. Sono due professioni differenti, complementari, ma opposte. Mescolandole insieme si ottiene un mix catastroficamente esilarante, e non per una studentessa di facoltà scientifica, ma per tutti i telespettatori.

E’ molto più credibile vedere Belfagor, il tossicologo, che rimette nel frigo un matraccio tappato, piuttosto che vedere la bellona di turno, capelli al vento, che spipetta quantità casuali di liquido non identificato, tenendo la pipetta al contrario.

Grazie per aver letto il chilometrico post!

 
 
 

Alucol 2: il ritorno. Ora con belladonna

Post n°240 pubblicato il 03 Luglio 2012 da lafarmaciadepoca
 

Se tempo fa vi avevo parlato dell’Alucol, oggi è il momento di introdurre la sua versione “rinforzata”: l’Alucol con belladonna.

No, non significa che insieme al farmaco ti potevi portare a casa una procace signora, ma che oltre ad essere un anticloridrico, l’Alucol aveva anche proprietà antispasmodiche conferitegli dagli alcaloidi dell’ Atropa belladonna.

Infatti l’atropina (alcaloide) è responsabile dell’inibizione dei recettori parasimpatici dell’acetilcolina.
Detto così vi sembrerà incomprensibile, e allora traduco per i non addetti ai lavori.

Il sistema nervoso parasimpatico è regolato dal neurotrasmettitore acetilcolina, quando questa si lega ai suoi recettori, produce delle correnti del calcio che vanno a creare correnti ioniche per far contrarre i muscoli. Peccato però, che in caso di infiammazioni, l’attività muscolare (volontaria, o nel caso dell’apparato digerente, involontaria) crei anche una sensazione di dolore, decisamente poco piacevole.
Ecco che allora, l’atropina, legandosi ai recettori dell’acetilcolina li rende inutilizzabili, dando luogo ad una sorta di “paralisi temporanea controllata”, che va a mitigare il dolore percepito.
Molto più chiaro, vero?

Come ho già detto, l’Alucol con belladonna era considerato un farmaco per terapie d’urto, in cui occorreva disporre anche di un antidolorifico  che coadiuvasse l’operato dell’alluminio colloidale.
Qualora possedeste una di queste scatole e vogliate rendervi conto della potenza dell’atropina, noterete questo ingrediente rappresenta solo l’ 1% della formulazione totale. Mai scherzare con la belladonna!

Ecco la foto della scatola:


Misura 8,5 cm x 5,5 cm x 1,9 cm e risale agli anni Cinquanta.
L’Alucol era prodotto dalla A. Wander di Milano, la stessa casa farmaceutica del Formitrol.
Se siete curiosi e volete leggere qualcosa di più su questo farmaco basta cercare nei tags “Alucol”

Grazie per aver letto il post!

 
 
 

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