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dal libro: UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA di Tiziano Terzani - Ed Longanesi Milano

Post n°205 pubblicato il 28 Aprile 2016 da loredanafina1964

SECONDA PUBBLICAZIONE

PAG. 13

 

A parte Angela e quelli dell'MSKCC, nessuno sapeva dov'ero. Il telefono non squillava mai, nessuno suonava alla porta; la sola via di comunicazione che avevo lasciato aperta col mondo era quella della posta elettronica coi suoi messaggi in bottiglia che approdavano di tanto in tanto sulla spiaggia cibernetica del mio computer, che poteva essere dovunque. Secondo me questo è ormai il più discreto, il meno invadente, il miglior mezzo di comunicazione se lo si usa quando si ha davvero qualcosa da dire, se non ci si abbandona al linguaggio sciatto imposto dalla velocità e se si stampa, per poterlo sempre rileggere, quel che di buono si riceve.

La situazione era perfetta. Era quella che da tempo sognavo: avevo intere giornate di libertà, nessun impegno, nessun dovere e l'incredibile agio di lasciare vagare la mente, senza interruzioni, senza l'idea - un tempo l'ossessione - che avrei dovuto fare qualcos'altro. Dopo tanto clamore godevo finalmente di tanto silenzio. 

Per anni, preso da guerre, rivoluzioni, alluvioni, terremoti, grandi mutamenti dell'Asia, ero stato un appassionato osservatore di vite in pericolo, vite distrutte o, più spesso, sprecate: tantissime vite altrui. Ora osservavo semplicemente quella che più mi riguardava: la mia.

E da osservare ce n'era. Dopo nuovi esami e la solita sequenza di "C'è un'ombra di cui non siamo sicuri", "Occorre un altro esame", "Torni la prossima settimana", "Sono spiacente, ma le debbo dare una brutta notizia.....", si scoprì che il malanno non era uno solo, ma erano tre, ognuno con le sue caratteristiche, ognuno sensibile a un diverso tipo di terapia. 

Così, senza dubitare un secondo della loro validità, anzi, aggiungendoci ogni volta una mia psicologica certezza che tutto era giusto e il meglio che potessi tentare, feci l'esperienza della chemioterapia, della chirurgia e della radioterapia.

Mai, prima di allora, mi ero tanto sentito fatto di materia; mai avevo dovuto guardare così da vicino il mio corpo e soprattutto imparare a mantenerne il controllo, a esserne padrone, a non farmi troppo dominare dalle sue richieste, i suoi dolori, le sue palpitazioni i suoi urti di vomito.

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PAG. 14

Col passare degli anni avevo incominciato a capire che i fatti non sono mai tutta la verità e che al di là dei fatti c'è ancora qualcosa - come un altro livello di realtà - che sentivo di non afferrare e che comunque sapevo non interessare al giornalismo, specie per come viene ormai praticato. Avessi continuato in quel mestiere, al massimo avrei potuto tentare di essere come ero già stato. Il cancro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro mi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.

"Possibile che bisogna proprio avere il cancro per godere della vita"? mi scrisse un vecchio amico inglese. Aveva sentito dire del mio essere scomparso e per e-mail mi aveva chiesto notizie. Gli avevo risposto che quella "notizia" era, se non proprio il più bello, certo il più coinvolgente periodo della mia esistenza. Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso. Tutto quello che succedeva mi toccava direttamente.

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PAG. 15

Gli scrissi che godesse di non avere il cancro, ma che, se voleva fare un esercizio interessante, immaginasse per un giorno di averlo e riflettesse su come non solo la vita, ma le persone e le cose che ci stanno attorno improvvisamente appaiono in una luce diversa. Forse una luce più giusta.

Nella vecchia Cina, molti tenevano in casa la loro bara per ricordarsi della porpria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando dovevano prendere decisioni importanti, come per avere una migliore prospettiva sulla transitorietà del tutto. Perchè non fingere per un attimo di essere ammalati, di avere i giorni contati - come in verità si hanno comunque - per rendersi conto di quanto preziosi sono i giorni? 

Gli indiani se lo rammentano con la storia dell'uomo che, rincorso da una tigre, scivola in un baratro. Cadendo nel vuoto il poveretto riesce ad aggrapparsi a un arbusto, ma anche quello comincia a cedere. Non ha scampo: sopra di sè le fauci della tigre, sotto l'abisso. In quel momento però, proprio lì, a portata di mano, fra i sassi del dirupo, l'uomo vede una bella fragola rossa e fresca. La coglie e.....mai una fragola gli parve così dolce come quell'ultima. 

Se a me toccava la parte di quel poveretto, la fragola di quei giorni, di quelle settimane e mesi di solitaria pace a New York era dolcissima. Ma non per questo ero rassegnato a precipitare.

Anzi: cercavo ogni mezzo per aiutarmi. Ma come? Potevo io, con la mia mente o con altro, fare qualcosa perchè l'arbusto a cui ero aggrappato resistesse? E se ero stato io, come persona, a portare il mio corpo in quella scomoda posizione, cosa potevo fare per togliercelo? I medici, a cui fra un esame e l'altro ponevo queste domande, non avevano risposte. Alcuni sapevano che sarebbe stato importante cercarle, ma nessuno lo faceva.

Allo stesso modo dei giornalisti, anche i miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell'inafferrabile "altro" che poteva nascondersi dietro i fatti, così come i cosiddetti "fatti" apparivano loro. Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio! 

L'approccio scientifico, razionale che avevo scelto faceva sì che il mio problema di salute fosse più o meno quello di un'automobile guasta che, assolutamente indifferente alla prospettiva di essere rottamata o accomodata, viene affidata a un meccanico, e non il problema di una persona che, coscientemente, con tutta la sua volontà, intende essere riparata e rimessa in marcia. 

A me come persona, infatti, i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli fissavano per sottoporlo ai vari "trattamenti".

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 
 
 
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