Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

loredanafina

scrivere scrivere scrivere!

 

 

Dal libro: "MOS ME"LE non lasciarmi di Caterina Camarda - ed. Color&more (le pagine più interessanti) 6^ PUBBLICAZIONE

Post n°141 pubblicato il 15 Novembre 2013 da loredanafina1964

6^ PUBBLICAZIONE

Pag. 77

La radio stava mandando un fox-strot, il fox-strot, come Forte definiva la nostra canzone. Mi alzai e cominciai a ballarlo da sola, occhi chiusi e passi piccoli per non andare a sbattere contro qualcosa, immaginavo di ballarlo con Forte al tempo in cui tutto era ancora possibile. Non avevo fatto che pochi passi, improvvisamente mi sentii prendere per la vita, mi bloccai di colpo aprendo gli occhi, ma l'architetto mi strinse la mano in alto facendomi proseguire. Mi lascia dirigere da lui abbandonandomi a quel ritmo lento e sensuale.

"Sei leggerissima..."  disse alla fine.

Non risposi, ero sorpresa che un albanese sapesse ballare il liscio, quell'uomo sapeva fare un sacco di cose, troppe per me, ero turbata. Lo guardai indietreggiando e scappai fuori.

Arrivai al lago, posai una mano sul tronco del mio albero e cominciai a fare lunghi respiri per calmarmi, mi sentivo strana, tremavo e il cuore batteva forte, nella testa solo quella musica e il suo odore. Mi accorsi che quell'odore non era solo nella mia testa, lo sentivo davvero, mi girai di scatto e lui era dietro di me, non feci in tempo a reagire, mi posò una mano sulla vita e una sul viso e mi baciò. Questa volta fu un bacio lungo, un bacio serio. Non riuscii a resistere, non volevo resistere, sentivo la sua lingua che mi accarezzava le labbra teneramente, che cercava la mia, era calda, era forte, una mano mi stringeva a sè mentre l'altra sfiorava appena la guancia poi mi toccava i capelli, il suo odore era una calamita per me, non riuscivo a staccarmene. Si staccò lui, piano, delicatamente, con un ultimo bacio leggero. Mi portai una mano tremante sulle labbra asciugandole e lo guardai in silenzio facendo un passo indietro, il tronco toccò la mia schiena e mi fermò.

!I-io..."  la voce non usciva,  "tu...tu stai cercando di farmi innamorare di te..." gli occhi mi si riempirono di lacrime, "tu...che gioco perverso stai facendo....vuoi anche la mia anima..."  ero sull'orlo del pianto,  "io non valgo così tanto.... perchè lo stai facendo..."

Lui mi guardò stupito, come se non capisse di cosa stessi parlando, ma non disse nulla, si limitò a scuotere la testa, poi lentamente si voltò e andò via.

Quel posto era maledetto, per ogni cosa buona ce n'era una cattiva e per ogni cosa cattiva ce n'era una ancora peggiore.

Rimasi lì al lago fino a sera, tutta rannicchiata contro il masso a chiedermi cosa fosse successo quando Ardian venne a prendermi tremavo dal freddo.

"Tu mette questa" disse posando una giacca sulle mie spalle.

Era troppo buio per vederla ma la riconobbi dall'odore e la rifiutai, era dell'architetto. Tornammo alla casa ma andai subito a letto senza mangiare.

Quella notte non riuscivo a prendere sonno, mi giravo e mi rigiravo nel letto cercando di fuggire da quella sensazione, la stessa che avevo avvertito fin dalla prima volta, in fiera, quando quel suo sguardo strano mi era arrivato fino in fondo all'anima.

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Dal libro: "MOS ME LE non lasciarmi" di Caterina Camarda- Ed. Color&more - (le pagine più interessanti) 4^ e 5^ Pubb.

Post n°140 pubblicato il 15 Novembre 2013 da loredanafina1964

4^ PUBLBICAZIONE

Pag. 28

"Ti piace....scrivere?"  sembrava sorpreso.

Lei sollevò lo sguardo dal foglio, le brillavano gli occhi.

"Tantissimo..."  rispose come in estasi, " mi piace talmente che non mi accorgo del tempo che passa...."  sorrise fissando il vuoto,  "Quando sono al computer mi dimentico di tutto e di tutti..."  poi divenne triste,  "solo così riesco a sopportare quello che mi succede intorno..."  e abbassò lo sguardo,  "ormai non potrei più farne a meno..."  poi si girò verso di lui,  "Ho anche scritto un bel libro ma..."  si asciugò una lacrima,  "credo che tutto questo non interessi a nessuno..."  e fece per lanciare il foglio sulla sedia dietro il tavolo.

Lui le bloccò la mano e glielo prese.

 

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5^ PUBBLICAZIONE

Pag. 52

Si era aggiunta violenza a violenza, non solo ero in totale balia di gente senza scrupoli ma ero controllata a vista persino nell'intimità.

Era davvero finita. Stavolta non ce l'avrei fatta a sopravvivere, il mondo mi era crollato addosso e me ne sentivo tutto il suo peso sul cuore.

"Come farò a uscirne...."  pensavo,  "come farò..."

Ero sicura che non sarei mai riuscita a superare quel muro senza la consapevolezza di una via di fuga, era già successo altre volte di trovarmi davanti a un muro, ma ogni volta l'avevo risolta mollando tutto e andando via. Era sempre stato così, fin da quando ricordavo, ma poi avevo sposato Forte e non ero più riuscita a mollare tutto e andare via, anche se di muri ne avevo incontrati sempre di più, così mi ero creata una via di fuga immaginaria, avevo cominciato a scrivere un libro descrivendo tutte le mie difficoltà ed era diventata la via attraverso la quale fuggire per sopravvivere.

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Dal libro: "MOS ME LE non lasciarmi" di Caterina Camarda- Ed. Color&more - (le pagine più interessanti) 3^ PUBBLICAZ.

Post n°139 pubblicato il 13 Novembre 2013 da loredanafina1964

Pag. 25

Un rumore mi svegliò, qualcuno aveva chiuso la porta ma senza girare la chiave, ormai non serviva più. Mi ritrovai in camera stesa sul letto, forse ero svenuta, non ricordavo più cosa fosse successo dopo lo sparo, fuori era quasi buio e il vassoio della cena era sulla scrivania. Cercai di alzarmi, mi faceva male la testa e sentivo il corpo pesante, scesi dal letto ma la caviglia mi tradì e caddi a terra. Mentre massaggiavo il piede mi resi conto di non avere più le scarpe, qualcuno me le aveva tolte e le aveva fatte sparire, non erano nè a terra nè sotto il letto e al loro posto c'era un paio di ciabatte bianche da infermiere. Mi alzai lentamente, presi il bicchiere di acqua e zucchero dal comodino e lo bevvi tutto.

"Sono in un covo di assassini..." pensai, "e ho ammazzato un uomo..." tremavo, "ammazzeranno anche me..." ero sconvolta.

Mi guardai gli abiti, erano sporchi di sangue e appiccicati addosso, inoltre da due giorni indossavo la stessa roba, puzzavo di sudore e mi sentivo tra i capelli l'odore acre di quell'uomo, così pensai di farmi una doccia, credendo che per quel giorno il peggio fosse passato. Non era così. 

Stavo uscendo dal bagno con l'accappatoio addosso mentre mi strofinavo i capelli con un asciugamano, posavo appena il piede a terra, " Ciao bella..." 

La guardia del corpo del capo era lì davanti a me, il capo era dietro di lui, al centro della stanza, non li avevo sentiti entrare. Feci un passo indietro lasciando cadere l'asciugamano, ma lui mi bloccò contro la parete dell'antibagno, il suo viso sfiorava il mio.

"Che...che vuoi fare..." balbettai spaventata.

Mi prese di peso stringendomi le braccia al busto.

"No! No!" cominciai a urlare cercando di divincolarmi, "Lasciami!" il cuore in gola.

Mi scaraventò sul letto, le gambe penzoloni, poi salì su di me tenendomi ferma e, quando il capo si mise sopra le mie cosce, lui si spostò indietro oltre la testa, in ginocchio, tenendomi per i polsi. Non riuscivo a muovermi.

"C'è ancora una cosa che non hai capito bene...." disse lui piano slegando la cintura dell'accappatoio.

Tremavo in preda al panico, non potevo credere che stesse accadendo davvero.

"Adesso ti spiego cosa devi fare quando te lo chiedo..."

Aprì lentamente l'accappatoio mentre io mi dimenavo, i suoi occhi erano spalancati e le labbra gonfie, cominciò a passare le sue mani dappertutto.

"No! No!" urlavo cercando di liberarmi.

"Tienila ferma!" ordinò e il ragazzo strinse ancora più forte la presa.

"Aaah!" urlai dal dolore, mi sentii quasi spezzare le braccia all'indietro.

Si stese sopra di me, tentò di baciarmi le labbra ma io girai la testa di scatto, lui me la bloccò  di lato leccandomi prima la guancia poi la bocca e insistendo per farmela aprire ma io serravo forte, le lacrime agli occhi. Poi portò le sue labbra più in basso, baciando e leccando ogni parte del mio corpo. Io urlavo, mi dimenavo, lo pregavo di lasciarmi stare, poi lo insultavo e di nuovo lo pregavo, ma lui andava avanti imperterrito, completamente assordato dall'eccitazione.

Improvvisamente si tirò su e slacciò i pantaloni, poi mi allargò le gambe.

"Oddio, no!" scoppiai a piangere, "Non farlo! Ti prego, non farlo! Non farlo! urlai singhiozzando disperata.

Ma lui era ormai in preda al delirio e spinse forte, così forte da togliermi il respiro per qualche istante, sentii un dolore che non avrei mai pensato di poter sentire. Inarcai la schiena e buttai la testa ll'indietro, sbattendola ripetutamente, poi, contro le ginocchia del ragazzo che mi teneva i polsi.

Credevo non sarebbe finita mai, invece finì. E quando ebbe finito si girò a riposare un momento sul letto, al mio fianco. Io chiusi le gambe. 

Avevo smesso di urlare, avevo smesso anche di piangere, non mi dimenavo più, così il ragazzo mollò i miei polsi e scese dal letto, posai le mani sul bassoventre girandomi di lato e stringendomi su me stessa. Anche il capo scese dal letto, si diede una pulita con l'angolo dell'accappatoio e tirò su i pantaloni, poi guardò in alto sopra la scrivania con un ghigno, quindi si sistemò i capelli e uscì. Io non mi mossi, rimasi così, tutta rannicchiata sul letto, per parecchio tempo anche dopo che i due se ne furono andati. Volevo solo morire.

 
 
 

Dal libro: MOS ME"LE non lasciarmi" di Caterina Camarda (le pagine più interessanti) ed. Color&more 2^ PUBBLICAZIONE

Post n°138 pubblicato il 10 Novembre 2013 da loredanafina1964

Pag. 21

Il guerriero mi portò in casa e poi giù nel seminterrato, in un locale senza altri mobili che un tavolo e due sedie. Il capo era seduto, l'architetto alla sua destra e la guardia del corpo alla sua sinistra, entrambi in piedi, nessuno fiatava, tutti parevano in attesa. Al centro della stanza, , proprio a ridosso del tavolo, un grande cellophane ricopriva il pavimento. Mi ricordò la scena di un film in cui un tizio veniva ammazzato proprio su un cellophane messo così, per non sporcare di sangue il pavimento. Il guerriero mi fece sedere nell'altra sedia, le mani ancora legate dietro e rimase vicino a me, ero agitata, sapevo che doveva succedere qualcosa e non riuscivo a stare ferma.

Un uomo entrò restando a lato della porta, subito dopo arrivò un altro uomo con uno spolverino lungo blu e una valigetta in mano, seguito da altri due in tenuta sportiva, probabilmente le guardie del corpo e si fermarono davanti al tavolo, sul cellophane.

"Holà, hombre!" disse il tizio con lo spolverino, rivolto al capo.

"Buongiorno,  Gonzaga!" rispose il capo in tono amichevole alzandosi per dargli la mano e abbracciarlo.

"Hola, senor Lar!"

"Senor Gonzaga..." l'architetto gli strinse la mano.

"Senora...." disse poi rivolto a me guardando le mie mani legate con aria imbarazzata.

Io abbassai la testa senza fiatare.

L'architetto fece una domanda, Gonzaga posò la valigetta sul tavolo e la aprì porgendola al capo. Cominciarono a discutere, non capivo cosa dicessero, l'uomo parlava in spagnolo e l'architetto traduceva al capo che nel frattempo era tornato a sedersi, ma mi accorsi che qualcosa stava andando storto, i toni si andavano scaldando e la discussione pareva prendere una brutta piega. L'architetto scuoteva la testa facendo avanti e indietro, il capo si era alzato di nuovo e urlava agitando le braccia, puntando il dito e inveendo contro lo spagnolo che, a sua volta, balbettava tentando di capire attraverso la traduzione dell'architetto e che ora aveva il sudore che gli colava giù dalla fronte. Anche le due guardie del corpo si stavano agitando e continuavano a guardarsi intorno preoccupate, mentre altri uomini erano entrati fermandosi sulla porta. Io avevo seguito ogni movimento con gli occhi, immobile, lo stomaco stretto in una morsa, qualcosa doveva accadere.

Poi tutto accadde. Il capo fece un cenno e la sua guardia del corpo estrasse la pistola dalla cintura, i due uomini cercarono di fare altrettanto ma non fecero in tempo, il ragazzo fu più veloce e i due caddero sul cellophane, poi puntò l'arma contro Gonzaga.

"Madre de Dios!" esclamò appena, poi cadde sotto il terzo colpo.

Io lanciai un urlo balzando in piedi con uno scatto, la sedia cadde all'indietro, stavo per finirle addosso ma il guerriero mi afferrò bloccandomi.

!No! Lasciami!" gridai spaventata cercando di divincolarmi "Lasciami!"

Tutti si girarono verso di me.

"Portala qua!" ordinò secco il capo andando vicino ai corpi.

Il guerriero guardò l'architetto che annuì, quindi mi portò sul cellophane lasciandomi davanti al capo, questi mi prese per i capelli obbligandomi a mettermi in ginocchio e mi tenne giù, le mani ancora dietro la schiena e la testa tutta reclinata all'indietro, gli occhi sbarrati.

Non riuscivo a muovermi nè a vedere granchè ma sentivo le gambe toccare i corpi e bagnarsi, attraverso i jeans, del loro sangue caldo. 

L'architetto seguiva ogni mossa in silenzio.

"Dammi la pistola!" disse alla sua guardia del corpo.

Lui si avvicinò e gli porse la pistola, il capo l'afferrò e l'avvicinò alla mia fronte poi me la passò sulla guancia, la canna era ancora calda.

Tremavo fin dentro lo stomaco, non riuscivo a respirare, poi cominciò a parlare.

"Hai visto tutto? Ti è piaciuto?" e mi strattonò forte i capelli. 

"Aaaah.... " mi lamentai.

Lasciò la presa buttandomi la testa in avanti e passò la pistola nella mano sinistra, poi estrasse qualcosa dalla tasca posandola davanti alle mie ginocchia.

" E' questo quello che vuoi?" Guarda bene, guarda!"

Erano alcune foto di Forte e dei bambini mentre giocavano in giardino, emisi un grido soffocato, non capivo le parole ma capivo che stava minacciando la mia famiglia. Mi afferrò di nuovo per i capelli.

" E' questo quello che vuoi?" ripetè quasi sottovoce, "E' questo?" mi sfiorò l'orecchio con le labbra bagnate e la guancia con la pistola.

Scossi la testa convulsamente, capivo a senso.

"Cos'hai detto?" strinse ancora più forte.

"No..no" balbettai senza fiato.

" E' vero che tu farai tutto quello che ti chiederò?" disse piano tirandomi indietro la testa per i capelli, "E' vero?" ripetè ancora più piano.

Lo guardai disperata, non capivo.

"Adrian, traduci!" ordinò qualcosa a qualcuno.

"Tu fa tutto che lui dice" il guerriero tradusse.

" S-si..." ero in preda al panico.

"Non ho capito!" ripetè a voce altra tirando ancora di più i capelli e facendomi quasi cadere all'indietro.

"Si!" urlai allora con tutto il fiato che avevo. "Lo farò! Farò tutto quello che vuoi! Tutto quello che vuoi!" e scoppiai a piangere.

Lui guardò l'architetto compiaciuto poi, lentamente, lasciò la presa e restituì la pistola alla sua guardia del corpo. Io mi accostai col busto sulle ginocchia singhiozzando, gli occhi chiusi, ero esausta.

All'improvviso uno degli uomini a terra emise un lamento, io sollevai la testa., Gonzaga era ancora vivo. Feci uno scatto indietro cercando di alzarmi, ma la caviglia non mi resse e scivolai ricadendo sul cellophane sporco di sangue.

"Mark, la pistola!" disse subito l'architetto.

Il capo lo guardò sorpreso, Gonzaga continuava a lamentarsi.

"Ora tu prenderai la pistola!" disse ancora l'architetto rivolto a me.

"N-no...." scossi violentemente la testa, "per favore..."

Diede la pistola al guerriero.

"Puliscila!" gli disse.

Lui prese un fazzoletto e lo passò sulla pistola pulendola per bene, poi gliela porse. L'architetto mi tirò su, non riuscivo più a stare in piedi, le gambe mi tremavano e la cavigli ami doleva, tutto stava cominciando a girare. Mi slegò tenendomi da dietro di peso, poi mi prese la mano destra poggiando le sue dita sulle mie e fece per farmi impugnare la pistola, io cercai di ritrarre il braccio ma non avevo più forze.

"Devi prenderla!"

Me la fece stringere tenendoci sopra la sua mano, poi mise il mio dito sul grilletto, sotto il suo e , guidando col suo braccio, la puntò su Gonzaga e premette sparando un colpo.

"No!" urlai disperata.ùIl contraccoltpo mi fece buttare indietro la testa contro il suo petto.

"Dammi il fazzoletto" disse poi al guerriero.

Lui aprì il fazzoletto, l'architetto mi ci fece posare sopra la pistola allontanando poi la mia mano e il ragazzo richiuse il fazzoletto avvolgendola.

Mentre svenivo capii che mi aveva legata a loro per sempre, non sapevo che mi aveva appena salvato la vita.

 
 
 

Dal libro: "MOS ME"LE Non lasciarmi" di Caterina Camarda - Ed. Coloremore - PRIMA PUBBLICAZIONE

Post n°137 pubblicato il 08 Novembre 2013 da loredanafina1964

Pag. 5 

IL SIGNOR NESSUNO

La sveglia suonava presto al mattino, alle sette e cinque la prima volta, allora lui allungava un braccio e lei smetteva di suonare, poi suonava ancora, alle sette e tredici e lui allungava il braccio e di nuovo la faceva tacere. Alle sette e ventuno suonava per la terza volta e la scena si ripeteva, fino alle sette e ventinove, fino a quando, cioè, si sentiva il suono di un'altra sveglia arrivare dal bagno, allora bisognava proprio alzarsi per spegnerla. Tornato a piedi nudi dal bagno, si infilava le ciabatte, prendeva camicia e pantaloni dal servo muto e usciva piano per non svegliare la moglie. 

" Ciao....." gli diceva ogni volta lei in un fil di voce, ben sveglia fin dal primo trillo.

Un grugnito era sempre la risposta, mentre chiudeva dietro di sè l aporta della camera.

Il signor Nessuno era fatto così, la mattina era intrattabile, aveva la carburazione lenta.

Il signor Nessuno era un uomo sui quarant'anni, piuttosto bassino e tarchiatello, la barba del giorno prima, i capelli corti e spettinati, gli occhi scuri, sicuramente originario del sud. Tutte le mattine si lavava e si vestiva con calma, faceva colazione con calma e si recava alla bottega per le nove, con calma, apriva la saracinesca lentamente, portava dentro la vecchia bicicletta piena di ruggine e l'appoggiava al muro sul retro.

"Si, papà..." diceva poi ogni volta, "stai tranquillo, ti ho già detto che presto la rivernicerò".

Senza guardarlo, si rivolgeva così a un portaritratti appoggiato su una specie di altarino, in alto di fianco alla porta, con la foto ovale in bianco e nero del viso dell'uomo dai lunghi baffi a punta e i capelli tutti tirati indietro. Poi tornava sul davanti, s'infilava il camice color cioccolato al latte, accendeva una grossa radio antidiluviana, muoveva avanti e indietro una manopola per captare bene il segnale, inforcava un paio di occhiali dalla grossa montatura nera e, fatto un bel respiro, prendeva il primo paio di scarpe e si metteva al lavoro. 

"Buongiorno..."

Un tizio che era appoggiato al bancone si girò.

"Buongiorno, signò!" disse...con un sorriso da marpione.

Il ciabattino sollevò lo sguardo dalla scarpa, vidi che reggeva dei chiodini con le labbra e restò lì fermo, in attesa. Ebbi un attimo di esitazione, mi aspettavo un buongiorno, mi dica pure o quantomeno un Si?, ma nessun suono uscì dalla sua bocca.

"Avrei bisogno di sistemare la suola di questo scarpone" dissi allora aprendo un sacchetto di plastica della spesa.

Lui tolse gli occhiali, chiuse le stanghette e li infilò nel taschino del camice, si alzò dallo sgabello, prese lo scarpone e ne osservò per bene tutte le cuciture, l'interno e l'esterno, poi passò alla para in gomma provando a rimetterla su.

"Mhmmm...." bofonchò, "L'altro scarpone?" disse infine trattenendo a stento quattro chiodini sul bordo delle labbra.

"Mah, pare che stia ancora tenendo..." dissi, abbozzando mezzo sorriso.

"Eh..." fece lui, "so' cinesi, costano poco e durano pure meno" e si rigirò ancora lo scarpone tra le mani come fosse fatto di pelle putrida .

Decisamente era del sud, anche se non riuscivo a individuarne la regione con certezza. In genere quando non riuscivo a riconoscere le origini, era perchè l'accento era troppo simile al mio.

"Beh, sì... ma i ragazzi crescono così in fretta...." tentai di giustificarmi, " e poi non hanno cura di niente..." sorrisi ancora imbarazzata.

Lui non si scompose, mentre il tizio aveva continuato a guardarmi per tutto il tempo scuotendo il capo come per darmi ragione.

"Domani pomeriggio" disse all'improvviso mentre io mi chiedevo perchè mai mi trovassi lì.

"Bene..." dissi timidamente, "allora si può sistemare..."

"Eh, finchè tiene! Ma vedrai che presto mi porterai pure l'altro!"

Posò lo scarpone sul banco, inforcò gli occhiali, si sedette allo sgabello e, preso un chiodino dalla bocca, ricominciò a inchiodare. Sorrisi tra l'imbarazzato e l'interdetto, probabilmente il nostro colloquio era finito, quindi feci per andarmene."Signò!" il tizio mi chiamò, "Lo sapete come si chiama quest'uomo?" mi aveva presa in simpatia.

Mi bloccai pensando che, come al solito, avevo beccato quello che ha bisogno di parlare, per certa gente avevo una specie di calamita.

"Desiderio".

"Ah..." dissi senza scompormi e mi mossi verso la porta.

"Desiderio..." ripetè lui, "Nessun Desiderio".

Lo guardai come si guarda un idiota.

"Certo, è un nome originale..." e allungai la mano verso lam maniglia.

"Bisogna stare attenti a quello che si chiede" mi bloccò il braccio con la mano e si avvicinò con fare confidenziale, "certe volte i desideri si avverano...." quindi si allontanò di scatto e si sedette allo sgabello di fianco all'entrata.

Lo fissai senza capire in attesa di una spiegazione, ma il tizio tacque del tutto e si appoggiò alla parete ficcandosi in bocca un ciupa-ciups dopo aver buttato indietro un ciuffo di capelli col movimento del capo.

Nel fare questo, un piccolo orecchino all'orecchio sinistro brillò ai raggi del pallido sole che filtrava dalla porta a vetri.

"Ehm..." balbettai con aria sperduta, "allora vado....arrivederci..." 

il tizio non si mosse.

Guardai il ciabattino ma sembrava immerso nella sua risolatura, dunque aprii finalmente la porta e uscii.  Ero appena scesa dalla soglia che mi accorsi di aver lasciato dentro le chiavi della macchina, rientrai subito probabilmente paonazza in volto pensando alla figura della solita donnetta che lascia le chiavi in giro.

"Le chiavi..." dissi in un fil di voce.

Il ciabattino non fece una piega mentre agguantavo le chiavi e mi giravo verso lo sgabello con aria alquanto imbarazzata. Ero mancata la frazione di un secondo, il tizio non c'era più. Mi guardai intorno smarrita, nell'aria solo l'intenso odore di solvente e la musichetta della grossa radio.

Tornando a casa non feci che pensare a quel tizio.

"Non può essere uscito, visto che io ero sulla porta, nè può aver attraversato il locale in così poco tempo..." e aprii il cancello col telecomando, "magari era dietro il bancone, piegato a cercare qualcosa..." lasciai la macchina sul vialetto e aprii la porta, "sicuramente era dietro il bancone...."  scaricai la spesa e portai la macchina giù, "ma che tipo strano, cosa avrà mai voluto dire..." scesi dalla macchina e aprii il portone, "certo che ce n'è in giro di gente bizzarra..." conclusi andando di sopra.

Era tardi, dovevo preparare il pranzo per Losto e così, tra l'acqua della pasta, il sugo e l'insalata,  mi dimenticai del tizio. La giornata si svolse come al solito, per tutto il tempo non feci altro che urlare e maledire ogni istante di quella vita malefica che mi ero andata così inconsciamente costruendo, per cui anche quella notte non mi riuscì di dormire. Ero andata a letto presto, distrutta e avvilita come sempre e, come sempre mi ero svegliata alle quattro del mattino tra mille pensieri e preoccupazioni, non riuscendo più a riprendere sonno.

Stavo per portare la piccola all'asilo quando squillò il cellulare, erano le nove.

"Oh no..." dissi guardando sul display, "la scuola..." e intuendo già il motivo della chiamata.

Era l'insegnante di matematica, Losto stava male, tremava e aveva gli occhi fissi, non sapeva che fare e voleva che andassi a prenderlo. In realtà non aveva fatto i compiti e, approfittando del fatto che era un bambino adottato, aveva trovato questo stratagemma per passarla liscia coi professori e con noi. Provai a spiegarglielo, dissi che non era la prima volta e che se volevamo che la smettesse dovevano collaborare anche loro, mi assicurò che l'avrebbe rimandato in classe. Dopo neanche dieci minuti mi telefona la preside, isterica, dicendo che se non fossi andata a prenderlo avrebbe chiesto l'intervento dei vigili per abbandono di minore. Salutai in fretta la piccola e andai subito a scuola, imbestialita più che mai. Inutile dire che quella mattina con lo stomaco che mi si contorceva dal nervosismo, non riuscii a dipingere nulla.

"E' stata colpa tua!" aveva detto Forte tornando dal lavoro. "Non avresti dovuto lasciare questa responsabilità ai professori! "

Naturalmente. Con Forte era sempre colpa mia.

"Salve!" dissi secca chiudendo la porta.

Al tardo pomeriggio non avevo ancora smaltito la rabbia. Nessuna risposta seguì il mio saluto, ma stavolta me l'aspettavo e comunque non me ne importava nulla.

"E' riuscito a sistemare lo scarpone?" dissi cercando con lo sguardo.

Osservai il minuscolo locale, era pieno di scaffali stracolmi di scarpe, i macchinari per la riparazione e il bancone che, posto per la lunga, mi separava dal ciabattino. Lui tolse gli occhiali e li infilò nel taschino, poi si alzò e andò dritto allo scaffale dietro di sè, guardò in alto, poi nel mezzo, quindi in basso e ancora a destra, poi a sinistra. 

"Ma dov'è che l'ho messo..." si grattò la testa inarcando un sopraciglio, "Ah! Eccolo qua!" esclamò infine con una smorfia, "Per un po dovrebbe tenere...." e fece per prendere un sacchetto da sotto il banco.

"Niente, lasci stare, ho qui il mio" quindi presi il portafogli. "Quanto le devo?"

"Dammi un euro..." rispose scrollando le spalle.

"Così poco?" lo guardai.

"Ho messo solo un po di colla..." pareva tirasse fuori le parole a fatica.

"Bene!" conclusi secca, "Allora grazie e arrivederci!" e mi girai per uscire.

Nel girarmi andai a urtare contro qualcuno che stava entrando in quel momento, il sacchetto con lo scarpone cadde a terra. Sbuffai sonoramente piegandomi subito a prenderlo.

"Oh scusate..." disse una voce.

"Niente, niente!" feci nervosa, "Alle volte vorrei proprio cambiare vita!" quindi mi alzai e sollevai la testa.

Era il tizio con l'orecchino. Non gli diedi corda e uscii, avevo altri pensieri per la testa quel giorno.Mi accorsi 

"Siete sicura signò?" mi seguì oltre la porta.

Non mi girai neanche.

"Siete sicura che è proprio quello che volete? insistè lui.

La sua invadenza mi stava facendo innervosire ancora di più, così mi girai e lo guardai torva chiedendomi cosa mai quest'uomo volesse da me. Trentacinque, forse quarant'anni, alto e magro, capelli biondi e lunghi sotto un berretto di lana a strisce colorate, la barba incolta, gli occhi azzurri. Sarebbe potuto essere un bell'uomo, non fosse stato napoletano. Ebbi la sensazione di dover rispondere di no, ma lo stomaco gridava vendetta e dovevo buttar fuori un pò di veleno.

"Certo che sono sicura!" dissi con la mia solita arroganza, "Vorrei sparire da qua e trovare la mia vera vita!" socchiusi gli occhi, "Vorrei essere apprezzata per come sono veramente e vorrei riuscire a smettere di fingere atteggiamenti che non mi appartengono!" Mi avvicinai alla sua faccia. "Ecco cosa vorrei!" aggiunsi secca, "Ecco cosa vorrei..." ripetei più piano e mi girai per andarmene.

Mi accorsi subito di aver detto un mucchio di stupidaggini, forse me ne accorsi per lo sguardo di compatimento del tizio, forse per il buco allo stomaco che invece di esaurirsi aumentò dolorosamente, o forse me ne accorsi perchè avevo detto veramente un mucchio di stupidaggini.

"Mi scusi..." mi rigirai, "sto passando un brutto periodo e..." ma la mia voce si perse nell'aria, il tizio era sparito.

Il tempo di tornare a casa e, tra una sgridata e l'altra, a sera avevo già dimenticato l'intera faccenda.

Ero disperata. Forse non ero portata a fare la mamma, ogni giorno si trasformava in una vera e propria pena, non facevo altro che gridare e sgridare, forse avevo fatto male a decidere di adottare i due bambini, con un'altra mamma sicuramente avrebbero potuto avere una vita migliore. Non passava giorno che non maledicessi il momento in cui avevo accettato, avrei preferito mille volte restare senza figli, pur nell'angoscia della solitudine e della tristezza , piuttosto che avere qualcuno a cui badare continuamente e che mi impediva di fare quello che avrei voluto fare.

Non riuscivo più a organizzare le mie giornate, tutto era scandito dalla loro presenza, la scuola e l'asilo, la palestra e i giochi e poi la colazione, il pranzo, la merenda, la cena, sempre a preparare qualcosa per loro, tutta una vita dedicata interamente a loro, senza tregua, senza spazio vitale per me, senza riuscire a lavorare qualche ora di seguito perchè disturbata ogni due minuti. Se l'avessi saputo, se solo avessi capito che sarebbe stato così, che era logico e normale che dovesse essere così, se solo avessi approfondito con coscienza il significato della parola mamma....

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ULTIMI COMMENTI

Grazie per averlo condiviso ! NMRK :)
Inviato da: Laranichinyo
il 31/01/2015 alle 19:15
 
Ciao, bel post, complimenti. Ti auguro una dolce notte....
Inviato da: leggenda2009
il 23/01/2015 alle 23:28
 
:)
Inviato da: loredanafina1964
il 15/01/2014 alle 22:53
 
Il verso della lepre o il raglio dell'asino invece non...
Inviato da: dakota_07
il 13/01/2014 alle 22:58
 
grazie :) NMHRK
Inviato da: loredanafina1964
il 13/01/2014 alle 21:58
 
 

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