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LA COLPA DELL' INNOCENTE

Post n°14 pubblicato il 23 Settembre 2012 da lucasti1955


Si son cercate parole

Per tacere sentimenti

Creati colori

Per coprirti di luce


IL TEMPO NON CANCELLA LA REALTA’


Il ricordo era nascosto

In una curva dell’anima

Sepolto dalla paura

Di un dolore gemmato e mai sfiorito

Di lunghe dita taglienti

Di un respiro schiacciato

Dell’assenza di forze

Dell’ansimare sul collo


E complice il buio.

 

 

LA COLPA DELL’ INNOCENTE


Aldo, trent’anni circa, alto, magro, capelli neri e scapestrato, non è sposato, non ha nemmeno la ragazza: è una testa calda, troppo calda per così poco cervello. Fa il ragazzo di bottega da un macellaio, però è sempre al pronto soccorso: per ricucire qualche taglio che si procura con la sua leggerezza nel maneggiare i coltelli o per le cadute dal motorino sul quale viaggia a zig-zag.

Una sera, prima di chiudere bottega, s’infilò nel portone accanto alla macelleria, nascosto sottoscala aspettò il momento opportuno per uscire e realizzare la bravata che aveva studiato non più di cinque minuti prima; lì accosciato, protetto dall’oscurità, si godé l’attesa gustando la soddisfazione di ciò che stava per realizzare, il solo pensiero di aver avuto quell’idea bastava ad accenderlo, si sarebbe preso un piccolo assaggio, o forse grande, chissà, di quello che non riusciva ad avere in altro modo.

Fremeva, era impaziente, ma al tempo stesso si compiaceva di quell’attesa prolungata che ne accresceva il piacere.

Era decisamente buio quando la piccola ombra entrò nel portone e si diresse verso l’interruttore della luce, Aldo le arrivò alle spalle senza il minimo rumore, con il braccio sinistro le circondò il corpo bloccando anche gli arti; l’altra mano, con la destrezza di un borseggiatore. salì sotto la gonna, andando a violare la corolla di carne, penetrando la piccola apertura nascosta, non troppo bene, dalla natura.

Gustò il calore, l’umidità, l’odore acerbo di quell’anfratto con l’ ingordigia di chi non ne ha mai abbastanza; s’inebriò di quel corpo cedevole, si sentì potente, infinitamente potente; era una sensazione fantastica ma non poteva continuare a lungo, lo sapeva, così dopo un po’ lasciò la presa allontanandosi rapidamente.

Si congratulò con sé stesso: “Proprio un lavoretto coi fiocchi, non se n’è neanche accorta!” fiero della sua spacconata aveva la testa in ebollizione, si sentiva entusiasta, esaltato, vittorioso, pronto a qualunque altra prodezza gli fosse venuta in mente in quel senso.

Alice, dieci anni, magra, biondissima e con grandi occhi azzurri: la vicina di casa la chiama “signorina Fiordaliso” per il colore delle sue iridi. E’ vivace, intraprendente e ribelle, qualità che spesso le fanno guadagnare qualche scapaccione dal padre severo e intransigente. Quando va da lui a lamentarsi che si è fatta male o ha litigato con le compagne di gioco, lui la sgrida dicendole che la colpa è sua perché si caccia sempre nei guai.

Quella sera Alice entrò nel portone di casa che era ormai notte, prima di salire le scale si diresse verso il pulsante della luce, non aveva fatto in tempo ad allungare la mano che si sentì afferrare in una stretta soffocante, spalancò la bocca ma non riuscì ad articolare alcun suono, nello stesso istante si sentì frugare in modo convulso sotto la gonna, fra le gambe: un artiglio stava graffiando una parte del suo corpo che lei ancora non conosceva, le si piegarono le ginocchia e avvertì un senso di vuoto nella testa, l’aria continuava a mancare nei polmoni e il cuore le saltò in gola, ebbe voglia di vomitare, le faceva male, mancava l’aria, era buio, era sola, il corpo la tradiva, le faceva male, era colpa sua, era stata tradita ma era colpa sua, era colpa sua. L’artiglio affondò nel piccolo boccio indifeso, la vista le si annebbiò, la voglia di annullarsi l’assalì, voleva eliminare il presente, l’asfissia, l’oscurità, quelle dita appuntite, i graffi, lo sgomento, il tradimento, il dolore, la sua colpa, la sua colpa, LA SUA COLPA


Un istante prima di svenire si sentì abbandonare da quel braccio che l’aveva sostenuta impedendole di finire per terra; perse l’equilibrio ma non cadde, cercò ancora l’aria, la trovò, un vortice di sensazioni mulinava dentro di lei: era stordita, impaurita, debole, tradita dal suo organismo che era stato violato ma che a sua volta aveva violato lei.

Non avrebbe saputo definire con precisione di cosa si trattasse, era confusamente consapevole che le era successa una cosa grande, troppo grande: la vita si era scolorita, la luce era meno luminosa, si era frantumata la sua infanzia.

Confusamente intuiva che era meglio non parlarne perché in qualche modo sentiva che doveva essere colpa sua quello che le era successo.

Si, doveva essere proprio colpa sua.

Incapace di affrontare il ricordo, la sofferenza, il panico, l’ arroganza che aveva sentito in quelle braccia e in quelle mani che l’avevano immobilizzata, rovistata, scandagliata nella sua sacralità; incapace di comprendere il voltafaccia del suo corpo che non aveva reagito, che non aveva saputo difendersi nemmeno con un suono, che aveva ceduto a quell’assalto bloccandosi, consentendo, accettando tacitamente la profanazione, Alice rimosse la vicenda dalla sua mente e non fu più la stessa.

 

 

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