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Quello che non vogliamo sentirci dire

Post n°166 pubblicato il 07 Febbraio 2010 da maiden.casoria
 

Siamo un popolo estremamente tollerante, non c’è che dire. Tolleriamo bene le assurde polemiche politiche che ci propinano in prima serata tv, perdoniamo le parolacce e le bestemmie al Grande Fratello, accettiamo di buon grado persino le recenti critiche dei giornali stranieri sulla presunta decadenza della moda italiana e sul fatto che ora ci siamo messi anche a pubblicizzare il panino McItaly. Insomma, sembrerebbe proprio che noi tutti siamo pronti ad accettare stoicamente ogni critica. Ma per fortuna non è così. Gli italiani, infatti, hanno dimostrato di saper reagire, nel caso in cui venga minacciosamente messo in discussione uno stile di vita in cui si riconoscono, un loro modo di vivere che ha radici lontane.

Se ci pensate bene, l’unico critico che ultimamente ha suscitato reazioni forti dopo aver bersagliato, più o meno provocatoriamente, alcuni punti ‘fermi’ della nostra sfera culturale è il ministro Brunetta. A prescindere dal colore politico cui appartiene chi legge e a prescindere dai dettagli delle proposte del ministro, c’è da dire che Brunetta ha avuto il coraggio di colpire due figure sociali stereotipate del nostro immaginario nazionale – i ‘fannulloni’ degli uffici pubblici, e adesso anche gli attempati ‘bamboccioni’ ancora a casa con i genitori – e in entrambi i casi i suoi affondi hanno innescato infinite polemiche. Mi soffermerei a riflettere sulla seconda e più attuale questione dei giovani che, secondo il ministro, dovrebbero abbandonare, molto prima di quanto non facciano oggi, le loro famiglie d’origine. C’è da precisare, naturalmente, che ci sono molti ragazzi in Italia che vorrebbero intraprendere una vita autonoma, ma non ne hanno la possibilità, poiché non possono sostenere i costi dell’affitto e/o non riescono a trovare un lavoro ‘affidabile’. Questo è un dato di fatto, ed è un problema serissimo. Tuttavia, bisogna riconoscere che per i nostri giovani esiste anche una resistenza di natura culturale: rispetto ai ragazzi europei o americani, i nostri, nella stragrande maggioranza dei casi, non prendono affatto in considerazione l’idea di allontanarsi dalla propria famiglia, se non a causa di un matrimonio. I giovani italiani si configurano quindi come un gruppo ‘stanziale’, poco dinamico, poco maturo e per niente autonomo. Ora, se osserviamo che la tendenza in Europa è quella di realizzare degli standard comuni (si consideri, ad esempio, il percorso triennale della laurea con i due anni di specializzazione, o la realizzazione di master e programmi di studio riconosciuti in tutti gli stati membri), l’idea di creare gli stessi presupposti per l’emancipazione di cui godono i giovani europei anche per gli italiani non sembra poi così balzana. Perché allora tanto clamore? Perché, naturalmente, è più comodo e semplice stare a casa con la propria famiglia d’origine, anche quando si è lavoratori trentenni o quarantenni. Solo che questo davvero non vogliamo sentircelo dire.

Vivien Buonocore

 
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