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Non è il tramonto, posso stare ancora qui seduta e lasciare che i miei occhi guardino e nutrano l’anima mia. Manca tempo al tramonto, posso ancora respirare il profumo antico del gelsomino bianco frammisto a quello intenso delle zagare nei giardini, nascosti da alti muri ricamati dall’impietosa carezza del tempo. Voci di bimbi si rincorrono e risuonano allegre tra le lastre di basalto e i ricami bianchi di pietra calcarea. Passi tranquilli misurano con voluta lentezza distanze improbabili tra una sosta e l’altra, tra un discorso ed un altro. Parole di cui non sento il riverbero nel mio vocabolario, eppure ne percepisco il senso. C’è ancora tempo per il tramonto. Mi alzo. Oggi i giardini ed i palazzi antichi svelano i loro segreti agli sguardi curiosi ed attenti della gente, come ogni anno. Ho voglia di mescolarmi alla mia gente. Ho voglia di scoprire con gli occhi quello che da sempre immagino ci sia dietro ai maestosi portoni gentilizi, al di là delle alte mura di cinta… Mi lascio alle spalle piazza S. Oronzo. Pochi passi. Mi fermo. Una cascata di merletti bianchi mi accoglie da poco lontano. La chiesa di S. Irene antica protettrice di Lecce. Bella da togliere il respiro. Riprendo a camminare senza distogliere gli occhi da quel tripudio di gioia e, come ogni volta, sento dentro di me un’ammirazione profonda per il genere umano che è capace anche di questo. La gente cammina, chiacchiera, sfiora il mio sguardo avido di sapere e procede in senso opposto al mio. Alzo gli occhi. Balconi pettegoli, dipinti da gerani rossi e bianchi mi regalano immagini repentine e fugaci di sguardi maliziosi di giovani donne gentilizie. E le voci, le voci antiche mi sussurrano di allora, danno corpo a storie e leggende scoperte sui libri di scuola. Lecce, la mia città, la terra mia, calpestata da piedi lontani, desiderata e posseduta, distrutta e rinata. Lecce, signora profumata di verbena e zagare, di menta e basilico, altera, gentile, amabile femmina, generosa dispensatrice delle sue gioie. |
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