Haiku è il componimento in terzine (in traduzione italiana: settenario, quinario, settenario), in cui la sintesi è essenziale per produrre il sentimento che si intende comunicare, in cui l’unico punto di raccordo concettuale è il riferimento ad una delle quattro stagioni, espresso attraverso la citazione di un fiore, un vento, un frutto, un panorama.
C’è un tale che non ha più haiku da voler leggere, perché non ha metrica a dettarne il ritmo della vita, né stagioni a scandirne i periodi dell’esistenza.
Anzi.
Il nostro tale ha (quasi) smantellato la sua collezione di cd da viaggio per i suoi giri parasolitari in montagna, stracciato i classici italiani ed europei. Tiene solo a mente, per distrarsi, il passaggio di un racconto di Charles Bukowski in cui il bambino racconta al padre del tizio che – quando lui non c’è – con uno strano dito toglie la cioccolata dal sedere della mamma.
Ci ride sopra, poi getta via anche quel libro. Getta via tutto. Anche se stesso. Quel se stesso.
Dopo di che, spegne le luci di casa, accende le luminarie natalizie, e lascia andare la visione.
C’è il figlio morto di Ungaretti, e le liriche strappate alla bocca – c’è il suono giocoso o amoroso di cummings, che gioca e diverte, ma sempre rinnova – c’è l’infinito lirico di Dylan Thomas, che rinnova il mondo della parola e della luce, del ritmo e del suono ad ogni suo verso.
C’è qualsiasi anima dentro, e nessuna che sia negabile.
E in questa lotta di suoni e luci, colori e parole, il nostro tale sorridendo si addormenta.
Trafitto solitario dal dolore del mondo.
Inviato da: gianlucagian69
il 25/01/2010 alle 09:55
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il 25/01/2010 alle 08:45
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il 13/02/2009 alle 00:01
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il 12/02/2009 alle 23:57
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il 08/02/2009 alle 23:31