Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

La macchina di Zincone

Post n°42 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Le grosse e pesanti macchine nere avevano sostituito la vecchia carrozza postale, trainata dai cavalli Negli anni cinquanta a Toro vi erano solo due automobili: quella di Garzone e quella di Zincone. Le grosse e pesanti macchine nere, che avevano sostituito la vecchia carrozza postale, trainata dai cavalli, erano adibite a pubblico noleggio, e qualche passeggero vi si portava in città.

Zincone, che era giunto a Toro dalla vicina Campodipietra, viveva da scapolo. Noi ragazzi lo prendevamo in giro vedendolo sempre sporco di grasso, intento ad armeggiare con chiavi inglesi e tenaglie attorno alla sua macchina, gelosamente custodita in un vecchio garage alla fine della via del convento.

Far partire quella macchina la mattina, era solo questione di forza da parte del suo conducente, che doveva girare vorticosamente una grossa manovella. Nella stagione buona, se la vettura partiva, era assicurato l’arrivo in città, mentre nella stagione fredda l’automobile diveniva capricciosa, fermando la sua corsa già all’altezza della masseria Calicagno.

Allora il conducente scendeva rabbioso, bestemmiando fissava un grosso cuneo sotto una ruota, per assicurarne la sosta, e si precipitava a rimetterla in moto azionando la grossa manovella. Spesso la vettura si rifiutava di ripartire, e allora accorrevano in soccorso dell’autista gli stessi passeggeri che provavano a turno a far girare la manovella. Ma i passeggeri erano spazientiti perché sapevano che quella era solo la prima stazione della loro dolorosa via crucis verso la città. Ulteriori soste forzate ci sarebbero state dopo Campodipietra, a Ruviato e per la salita di Mascione. E se non dovute a guasti tecnici, si rendevano necessarie per consentire a qualche passeggero di poter vomitare con comodo.

Qualche volta i passeggeri erano costretti a terminare il percorso addirittura a piedi; succedeva soprattutto per l’erta salita di Sangiovannello, quando la macchina ansimava rabbiosa, e la nube di vapore che fuoriusciva dal motore e la nuvola di fumo che fuoriusciva dal tubo di scappamento, la rendevano invisibile e pericolosa per l’incolumità dei passeggeri che preferivano abbandonarla.

Ma non era solo l‘ autovettura di Zincone ad essere capricciosa, lo era anche la pesantissima saracinesca del garage che spesso calava improvvisa, con grosso rischio per la macchina e il suo autista.

In un afoso pomeriggio di luglio, Zincone era appena rientrato felicemente dalla città con la sua automobile, che aveva ricoverato all’interno del garage, quando a un tratto la saracinesca si abbassò imprigionando l’autista all’interno del garage.

La gente era quasi tutta in campagna a mietere e a trescare e nessuno poteva raccogliere le grida di soccorso del povero Zincone. Io e un altro ragazzo, intenti a giocare presso il muraglione, fummo allertati dalle invocazioni d’aiuto, ma le nostre esili braccia non erano in grado di sollevare l’enorme saracinesca. Ricordo lo sgomento e la rabbia per l’impotenza di non poter soccorrere quel povero cristo che, essendosi fatto quasi buio, continuava a invocare aiuto, suscitando pietà perché gridava, ormai esausto: “Apritemi, ca tinghe fame, n’cia facce cchiù pa fame!”.

Quando fu liberato, il mio amico gli porse una gran fetta di pane e olio ed egli, grato, la divorò

 
 
 

Alla scoperta del nuovo mondo

Post n°43 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

Era competizione continua, a volte dura, fra i ragazzi della via del Convento, quella di accaparrarsi una cotta da chierichetto nelle belle e solenni novene di Sant’Antonio o dell´Incoronata. In cambio di tale servizio, il padre guardiano permetteva loro di vedere Rin Tin Tin alla TV dei ragazzi.

Il figlio del fornaio, mentre era intento a infilarsi una cotta e stringersi il cordone ai fianchi, fu inviato da fra Giocondo a tener viva la brace dell´incensiere sul sagrato del convento. Con impegno faceva oscillare il turibolo, ma poteva risparmiarselo perché tirava un forte vento.

All´improvviso vide uscire di chiesa due ragazze che, spinte da un bisogno impellente, si avviarono in giardino. Attratto dalla prospettiva di conoscere finalmente come fosse fatto l´altro sesso, di cui tanto si parlava tra i chierichetti, il ragazzo posò a terra l´incensiere e, nascosto dietro un grosso cipresso, attese di scoprire il "nuovo mondo".

La ragazza rimasta a guardia dell´amica vide all´improvviso svolazzare la tonaca da dietro al cipresso e urlò: "Il fratino!!!", perché in quel periodo si  erano trasferiti i fratini da Sepino a Toro. L’altra ragazza, ancora accovacciata, urlò a sua volta:
"Disgraziato, mi hai visto la pipì. Vado a dirlo a mamma".
Il chierichetto, sconvolto, le replicava:
"Te lo giuro, non l´ho vista".
E in tale giuramento vi era anche un po’ di amarezza per non averla vista davvero.

Sopraggiunsero la mamma della bambina e il padre guardiano: per poco non linciarono il chierichetto che, con somma vergogna, dovette restituire i sacri panni. Piangeva amaramente: sentiva di essere un pervertito. Si rammaricava molto per non averlo visto, "il nuovo mondo", e anche perché non avrebbe potuto vederlo mai più, Rin Tin Tin dai monaci.

 

 
 
 

IL TREDICESIMO APOSTOLO

Post n°44 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Durante la settimana santa, si rivivevano i riti antichi della Passione. Nelle chiese, le statue dei santi e i crocifissi erano stati ricoperti di drappi viola. Le campane legate lasciavano spazio al crepitio di tretacche e raganelle. Tutto appariva mesto.

 Don Camillo acconsentì a che Fasciano e Miliuccio estraessero a sorte i nomi dei dodici apostoli in sacrestia. La rosa degli aspiranti era numerosa e alquanto variegata: giovani e anziani, devoti e miscredenti, perché non era stato il Signore a sceglierci, ma noi a candidarci.

A un’antica congrega erano appartenuti i lunghi sai bianchi, con il cordone alla cinta e il cappuccio a punta con due fori per gli occhi, che terrorizzava i bambini. Dopo la lavanda dei piedi, la tradizione assegnava agli apostoli il compito di stazionare presso il sepolcro della chiesa madre durante la notte, portarsi in processione a visitare le croci viarie disseminate per il paese e i sepolcri allestiti con sfarzo nelle altre chiese e raggiungere, infine, il camposanto per pregare per i defunti.

Ora avvenne che zì Angiolillo, che era il più anziano in mezzo a noi, quell’anno si mise a fare i capricci. Da sempre, da quando aveva vestito per la prima volta il saio bianco, aveva pensato che lo scopo della veglia fosse quello di "guardare" Gesù morto, quasi a mo’ di sentinella. Invece, la riforma conciliare di qualche anno prima aveva stabilito che al centro dell’altare si sistemasse solo un piccolo e sobrio tabernacolo per l’adorazione eucaristica, mettendo al bando tutti gli altri orpelli inutili che la tradizione, negli anni, aveva ammassato per adornare il cosiddetto "sepolcro". Primo fra tutti: la statua del Cristo morto.

Così zì Angiolillo rifiutava di presenziare davanti al sepolcro che definiva "vuoto" e non stava a sentire le spiegazioni di Don Camillo. Rivoleva la statua di Gesù morto nel sepolcro, e basta. La rivoleva per "guardarla" in mezzo alle piantine bianche del grano germogliato nel buio delle cantine. Sennò, che ci stava a fare lui, come apostolo? Chi cavolo doveva "guardare"?

Già, chi cavolo doveva guardare! S’era già fatto avanti chi intendeva sostituire zì Angiolillo, che ormai, divenuto eretico, se ne stava in disparte, da solo, presso il cappellone di San Mercurio, è lì, impassibile, "guardava" Gesù morto, mentre tutti gli altri se ne stavano in adorazione presso il sepolcro vuoto.

Gli eventi incalzavano, c’era ancora da consumare l’agnello pasquale nel convito degli apostoli, in casa Fasciano, vegliare la notte intera e, all’indomani sera, partecipare alla processione di Gesù morto con l’Addolorata, con la gran croce col drappo bianco .

Per non dare scandalo, visto il caratteraccio di zì Angiolillo e la sua forte amicizia col parroco, fu deciso di far vestire un altro apostolo, che raggiunse gli altri undici presso il sepolcro. Quale meraviglia, quell’anno, quando ci si accorse durante la processione di Gesù morto che gli apostoli incappucciati erano diventati tredici e non più dodici!

Il guaio più grosso fu quando a fine processione furono donati  i "buccellati" agli apostoli. Né la devota offerente né altri avevano pensato di impastarne uno in più per il tredicesimo uomo, che aveva chiuso la bocca ai pettegoli senza per questo meritare il tradizionale dolce pasquale. 

 

 
 
 

LA BENEDIZIONE DELLE CASE

Post n°45 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Appena giunto in convento, il nuovo padre guardiano si diresse in cucina. E dove poteva recarsi uno così grasso, se non in cucina? Era alto appena un metro e mezzo, il suo quintale di peso si accumulava tutto nella pancia. Da lontano sembrava un pallone marrone legato a un cordone bianco. Una volta entrati in confidenza, ci permise di pranzare insieme con lui, nell’invitante cucina dei monaci, e avemmo la riprova che, seppur molto pio, eccedeva smisuratamente nei peccati di gola. Divorava di tutto, con sano appetito, soprattutto salami, che accompagnava con mezzi panelli di pane e vino dei devoti, il migliore, quello destinato all’altare.

Essendo io, il suo chierichetto preferito, non potevo esimermi dall’accompagnarlo, in tempo di Pasqua, a benedire le case. Reggendo con una mano il canestro per le uova che la gente ci donava, e con l’altra il secchio d’argento dell’acqua benedetta, mi univo alle sue preghiere, cantilenando un latino approssimativo, distratto dalle suppellettili domestiche, dalle foto e dai quadri alle pareti.

Era tacito patto che il parroco benedicesse tutto il paese, tranne la via del convento, che toccava ai monaci, con tutte le case della campagna. Lungo la via del convento il padre guardiano si limitava ad assaggiare un buccellato o un fiadone e a bere un bicchierino. I guai iniziavano quando percorrevamo i viottoli di campagna. Già ai primi passi esclamava, madido di sudore: – Che fame, Tonì! … che fame…non ce la faccio più.

Penso che davvero l’aria fresca di campagna e lo sforzo di percorrerla in lungo e in largo gli provocassero una fame da lupo. Nei pressi della masseria dei D’Amico, dopo che avevamo benedetto già una decina di case, il padre guardiano, esausto, minacciò: – Tonì, qua ci fermiamo. Ieri sera, dopo la messa, Cristina mi ha detto che oggi ci avrebbe fatto trovare taccozze e fagioli.

Taccozze e fagioli rappresentavano per il sant’uomo il paradiso in terra e gli si inumidivano gli occhi e immagino anche la bocca già solo a nominarli. Ne mangiò a crepapelle. A tavola si era creato un clima di cordialità e allegria che cresceva con i bicchieri di vino rosso. In programma, c’era da benedire ancora qualche masseria del Parco e della Difensa ed infine tutto il Casino dei Magno, ma non fu possibile proseguire. Il padre guardiano si era ubriacato, senza che io capissi che tutta la sua euforia non era dovuta alle battute di zi’ Antonio, ma solamente al vino.

Con premura e prudenza, per non dare scandalo, aspettammo l’imbrunire, quando zi’ Antonio, non senza sforzi sovraumani, issò il monaco sul suo asino, legandolo saldamente al basto. Per evitargli il rischio di una rovinosa caduta, sistemò ai fianchi della vettura le segge, che servivano per il trasporto dei covoni di grano. Era già notte, la sua sagoma scura ondeggiava pericolosamente, sempre sul punto di rotolare di qua o di là, come una balla di fieno, ma riuscimmo a riportarlo in gran segreto in convento.

 
 
 

RITI DI FEDE E SUPERSTIZIONE

Post n°47 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

                            RELIGIONE E MAGIA

  

L’uomo della società contadina era per natura legato alla tradizione, intesa come esperienza di gruppo acquisita nel tempo.

In essa erano racchiusi i miti, i riti, le credenze, i culti tutti appartenenti alla stratificazione più antica della religione.

Il mondo divino, attraverso il culto, entrava in contatto con il mondo umano ed alla realizzazione dell’incontro concorreva la volontà di Dio e l’iniziazione dell’uomo

 

                                           LO SCONGIURO

 

Il rito dello scongiuro o della difesa veniva inteso come atto necessario da compiersi con determinati oggetti, in determinati luoghi ed accompagnato da una preghiera di invocazione a Dio ed ai Santi: figure divine selezionate da località a località.

Piccole canne sotto forma di croce, accompagnate da una preghiera di invocazione a San Cristinziano, venivano poste nei campi a garanzia di un buon raccolto; la candela benedetta il giorno della candelora, accompagnata da una preghiera a santa barbara e posta sul davanzale della finestra, allontanava dal proprio campo la grandine; il carbone raccolto sotto il camino la notte di natale e benedetto nel nome di dio acquistava il potere  di allontanare la tempesta.

Lo scongiuro, tuttavia, da atto necessario poteva essere trasformato in semplice talismano adottato a simbolo di difesa.

 

                                              L’INCANTAGIONE

 

Prendiamo un po’ d’acqua ed un po’ d’olio, agli e carboni, un po’ di grano ed un pugno di farina, oppure la semplice osservazione attenta del mondo esterno, uniamole alle cosiddette “preghiere di accompagnamento”, semplici ed infantili storielle di dio, della madonna e dei santi ed otteniamo i rimedi terapeutici, per lo più medico-magici, dei quali la società contadina faceva larga e quotidiana utilizzazione per attuare la ritualistica dell’“incantagione”.

L’incantagione può essere definita come quell’insieme di parole, formule, gesti e cose dal quale deriva tutta la potenza della costrizione, intesa come forza positiva tendente ad eliminare ed annullare l’azione malefica abbattutasi sull’uomo.

Poche erano le persone capaci di “incantare”: il “magaro”, la “mammaia”, il “gemello”.

Per ottenere incantagioni con grossa potenza costrittiva bisognava fare i gesti con la mano sinistra, dopo che questa aveva accarezzato il pelo di una talpa.

Il rito di  iniziazione che portava alla conoscenza del segreto formulario delle preghiere di accompagnamento doveva necessariamente avvenire la notte di natale.

“Io Pasquale   di Filippo di anni sessanta in circa dichiaro e denuncio, come d’agli anni della mia fanciullezza in notte del Santo Natale intesi ed imparai dalla Camilla Scasserra un certo rimedio per sanare dolori di testa...” (Archivio Cattedrale di Campobasso - documento datato 18 aprile 1721 - scaffale 3 - cartella 2 - foglio 1921).

 

 

                                                   IL MALOCCHIO

 

Il malocchio era l’azione malefica per eccellenza. Si manifestava con acuti e lancinanti dolori di testa. L’azione era spontanea e no legata alla volontà dell’individuo che lo emanava. Anche un complimento, non accompagnato dalla formula “Dio ti benedica”, poteva causare un malocchio. I rimedi più usati erano l’utilizzo dell’acqua e dell’olio, oppure acqua e carboni.

Nel primo caso si facevano cadere in un piatto pieno d’acqua delle gocce di olio e se queste si allargavano era in atto il malocchio. Nel secondo caso la presenza dell’azione malefica era indicata da carboni accesi che, immessi in una tazza colma d’acqua, andavano a fondo. I entrambi i casi la ritualistica imponeva che dopo la preghiera di accompagnamento il paziente sorseggiasse l’acqua utilizzata. Il formulario delle preghiere poteva essere vario. Dalla lettura di carte d’archivio è possibile conoscerne alcune:

“Io angelica lombardo vedova d’anni quaranta cinque in circa denuncio, e dichiaro con giuramento, come da molti, e molti anni in tempo che viveva il mio marito mi imparò un secreto seu incanto contro il mal d’occhi, con le parole che seguono:

“Si e’ stat zitella iettala per terra, se è stata vedova iettala per la selva, se è stata maritata iettala per la casa”, e così dicendo con strisciare le dita agli occhi, con dire anche sette Pater, et Ave, e sette Gloria Patri, ad honore della Santissima Trinità, “senza spiegar altro passa il male d’occhi”… (Archivio Cattedrale di Campobasso - Documento citato).

 

                                                      RELIGIONE E MAGIA

 

L’uomo della società contadina era per natura legato alla tradizione, intesa come esperienza di gruppo acquisita nel tempo.

In essa erano racchiusi i miti, i riti, le credenze, i culti tutti appartenenti alla stratificazione più antica della religione.

Il mondo divino, attraverso il culto, entrava in contatto con il mondo umano ed alla realizzazione dell’incontro concorreva la volontà di Dio e l’iniziazione dell’uomo.

 

 

LA NOTTE DI SAN GIOVANNI  

           la sera del 23 si metteva un po' d'acqua in un bicchiere, dove poi si versava del bianco d'uovo. si faceva su se stessi per tre volte il segno della croce, mentre si diceva la formula: "san giuanne, che' fortune mi dai "?

           la mattina dopo si guardava nel bicchiere e a seconda della forma presa dal bianco dell'uovo si prevedeva il futuro: la barca significava la partenza per l'america; u' tavute (la bara) la morte; na' tracce di persona (una traccia di persona) il matrimonio.

                La stessa operazione si poteva fare, la mattina del 24, versando nel bicchiere del piombo fuso. il futuro lo si poteva prevedere anche per mezzo del cardo. la sera della vigilia di san giovanni si bruciava il fiore del cardo: se la pianta, immersa nell'acqua durante la notte, rinverdiva, allora era segno di fortuna, altrimenti  c'era solo da disperare. 

  

 

 
 
 

CONVITO

Post n°48 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

 
 
 

IL MIO CAMMINO DI SANTIAGO

Post n°49 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

Abbiamo preso l’aereo per raggiungere la Galizia e poi abbiamo percorso ben 12 ore di corriera, nel cuore della notte, per portarci sull’itinerario del cammino di Santiago, allorche’ abbiamo calzato gli scarponi e indossati i pesanti zaini , ci siamo subito resi conto che avremmo dovuto affidarci alla fortuna e alla protezione del Santo per percorrere, da subito, i primi 25 chilometri di aspro sentiero. Nel secondo giorno avremmo percorso piu’ di 30. E così di seguito.

E’ bastato il primo saluto di un gruppo di tedeschi che ci sorpassava a farci intendere che non eravamo soli su quelle alte colline ricoperte di foreste di giganti eucalipti. “Buen camino” è il saluto augurale che abbiamo inteso centinaia di volte. Dalla coppia di avvocati di Vicenza, partiti l’8 agosto e giunti alla meta solo un mese dopo, abbandonando studio e figli per festeggiare in maniera originale il 25° di matrimonio, percorrendo a piedi ben 870 chilometri. Da Roncisvalle a Santiago.

Lo stesso augurio l’abbiamo inteso da un uomo senza gambe che ci sorpassava con un triciclo particolare azionato a mano. Lo stesso saluto lo abbiamo sentito da australiani, spagnoli, croati, inglesi, brasiliani, belgi , austriaci e da tanti italiani. Abbiamo dialogato con tutti costoro pur non sapendo la loro lingua. Abbiamo dormito negli ostelli in una promiscuità totale, dove neanche piu’ il sesso era elemento di distinzione o divisione. Abbiamo preso la pioggia insieme, bevuto alla medesima fonte, ci siamo alimentati nella stessa trattoria, abbiamo fatto anche il bucato insieme. Insomma, eravamo veramente accomunati fisicamente e spiritualmente nella stessa impresa alla quale non tutti davano lo stesso significato o valenza.

Chi lo faceva per motivi religiosi, chi per sport, chi per sfida, chi per turismo, chi per l’ecologia ma tutti avevano in mente l’identica meta: Santiago, il santuario. Io stesso davo una motivazione al cammino che l’amico Giovanni non dava. Diversi nel concepire il senso del cammino, uniti nel percorrerlo nell’unita’ piu’ completa.

Chi ne dava il significato religioso , si muniva di un sasso da mettere nello zaino e lasciarlo solo a Santiago. Il peso era diverso relativamente alla gravita’ dei propri peccati.

Il cammino di Santiago è una esperienza di fuga dalla modernità, è una esperienza di fede autentica dove la fatica e la meta si accomunano nell’elemento espiatorio. Sudore e preghiera nel percorso del pellegrinaggio medioevale. Si ripiomba nel passato, non solo per le ristrettezze e la precarietà che il cammino comporta ma anche per il tipo di percorso che si svolge fra fattorie e case disadorne, antiche e tanto povere. Nel cammino tutto ridiventa sobrio e l’acqua l’elemento più prezioso.

Il Cammino di Santiago è un’entità che ti guida. Pur camminando e avendo i piedi costantemente a terra ti senti in volo sopra paesaggi sempre diversi perché ogni giorno diverso dall’altro. Ti senti in volo e attraversi tutta una nazione in volo, e quando arriva il vento e ti senti trasparente allora ti lasci attraversare e ti lasci riempire di vita dimenticando tutto quello che c’è intorno a te. Stranamente arrivi a pensare che la Spagna sia un’enorme salita che dai Pirenei continua a salire fino ad arrivare a Santiago, ma sono salite fuori e dentro di te, è un viaggio alla scoperta del mondo che hai dentro.

Una delle parole più adatte al Cammino è condivisione, della strada che percorri perché sai che migliaia di pellegrini prima di te hanno fatto quella stessa strada e molti altri la percorreranno ancora. Condivisione di vita con fratelli che incontri in viaggio, perché a volte la parola amico è riduttivo per i rapporti che si creano sul Cammino, anzi che il Cammino crea. Chi può mai dimenticare Antiua, Esperanza, Alesando, Michael, Marielene, Paul, Pablo, Giorgio, Marco e tanti , tanti altri conosciuti lungo la via? Condivisione dell’ultimo pezzo di cioccolata, di una maglia, di un sapone, di mille parole incise in eterno nel cuore, di panorami che pochi occhi e cuori sanno apprezzare. Condivisione di cerotti per i piedi e per le anime. Condivisione di un sorriso che rallegra lo spirito e ti dà conforto per la strada che ancora manca da percorrere. Perché a farti andare avanti spesso non è soltanto la meta, Santiago, che senti più vicina e lontana allo stesso tempo. I miei piedi hanno calpestato rocce che non saprò mai descrivere, i miei occhi hanno visto sentieri unici, ma non è solo questo che ti conduce a Santiago, c’è molto di più, il vento che si muove tra gli alberi, la foschia delle prime luci.

A volte perdi il senso del Cammino, i momenti di crisi, devo ammetterlo, ci sono per tutti e cominci a mettere in discussione tutta una vita. Ci e’ capitato perdendoci di notte nel fitto di una boscaglia. E’ solo pensando al Cammino, alla tua voglia di viverlo fino in fondo, è solo se ripensi a ciò che ti ha fatto partire, al primo pensiero che hai avuto riguardo al Cammino, che riesci a superare anche le crisi peggiori.

Fermandoti in un qualsiasi punto del Cammino, guardando avanti vedi la strada che ancora devi percorrere, guardando indietro vedi la strada già percorsa, con i suoi sorrisi e i suoi dolori. E’ la metafora della vita.

E’ strano come lì si percepisce tutto in modo molto più ampio, il tempo si allunga, le emozioni sono ingigantite, ogni cosa se bella ti appare mille volte bella, se triste mille volte triste.

Non c’è mai stato niente nella mia vita come il Cammino, ti insegna a conoscere l’anima delle persone, ti porta dentro angoli reconditi del cuore delle persone, del tuo e degli altri. E’ il Cammino che chiama e seguirlo fino in fondo è stato l’unico modo che conoscevo per viverlo.

Santiago, la meta ultima, appare gia all’orizzonte in tutta la sua grandezza e vastità con le guglie di granito scuro che spiccano in cielo. Si arriva all’imponente piazza antistante la chiesa attraverso vicoli caratteristici dove il pesce atlantico viene esposto in vetrina a richiamo dei tanti turisti e devoti. Molte donne sull’uscio dei negozi invitano all’assaggio di dolci e torte tipiche locali. La vista della grande imponente basilica impressione non solo per la mole ma anche per la tipica architettura barocca spagnola . Ci si porta in uno dei grandi edifici adiacenti dove viene consegnata la compostela, dopo aver attentamente esaminato che sulla credenziale del pellegrino risultano i sello (timbri) dei posti attraversati nel canmino. Il nome viene riportato in latino e così l’intera iscrizione del bel documento che gratifica averlo tra le mani dopo tanta fatica.

Sul lato destro della chiesa si affaccia l’ “Ostal de los Reyos Catolicos”, costruito dai monarchi cattolici come locanda di pellegrini e ora albergo lussuosissimo. Dall’ampia scalinata che porta in basilica si accede all’interno soffermandosi ad una colonna d’ingresso. E’ il rito antico del pellegrino che appoggiando la mano sulla colonna, ormai incavata dall’uso, nel contempo china la testa sulla sottostante testa scultorea del santo patrono spagnolo, in segno di umiltà e riverenza, ma anche, si dice, per averne buona sorte, quindi si fa la fila per salire sull’altare principale, molto sontuoso e variopinto, come in tutte le chiese spagnole, e giunti alla sommità si abbraccia, letteralmente, la statua del santo posta di spalla verso il pellegrino, quindi si scende nella sottostante cripta per venerare le reliquie dell’apostolo.

Alle ore 11 di ogni giorno, si celebra la solenne messa dei pellegrini. L’officiante saluta e nomina i pellegrini giunti alla meta e li benedice . A messa conclusa, si svolge il rito tanto antico quanto atteso, soprattutto dai turisti, del botafumero. Lungo la navata viene fatto oscillare un gigante incensiere (botafumero) legato da grosse fune ancorate ad un argano posto alla sommità della cupola, capace di inebriare il piu’ laico dei turisti. In passato aveva lo scopo di coprire il nausante lezzo dei pellegrini, seppur obbligati a lavarsi gli attributi, prima di Santiago, in apposita anatomica fontana.

Per un vero pellegrino la cattedrale appare come il paradiso dopo il faticoso e duro cammino allorché si confessa e si comunica, ricevendone le auspicate grazie.

E’ d’obbligo visitare la bella e ridente città dai palazzi tipici e da un enorme quanto lussureggiante parco che invita alla siesta sulla fresca erba delle aiuole.

Io e l’amico Giovanni , in futuro, affronteremo un altro segmento del cammino, non per fare ulteriori chilometri di strada, ma per ritrovarci insieme a vivere una esperienza di vita autentica nella vera fusione spirituale.

“Buen camino” ai pellegrini moderni, che senza volerlo, ritrovano l’antico su un antico viottolo, portandosi in Galizia a vivere una esperienza medioevale, per conseguire alla fine la “compostela” un antico attestato che dal Medioevo viene assegnato a chi si reca a piedi a Santiago di Compostela percorrendo l’antica via francese che dai Pirenei porta al santuario galiziano.

Vincenzo e Giovanni.

[Copiato dalla rubrica news Giorno per giorno, 15 settembre 2005, del sito Toroweb http://www.toro.molise.it

 
 
 

AL FIUME A LAVARE I PANNI

Post n°50 pubblicato il 14 Marzo 2012 da anchise.enzo

     

  Era una gioia quando la mamma mi proponeva di accompagnarla al fiume  dove lavava i panni. Munita di ampia conca, posta sulla testa con la “spara” per sopportarne meglio il peso, ci portavamo lunga la ripida discesa della Ripitella per raggiungere il fiume, nei soliti posti dove l’acqua scendeva lenta e dove le grandi “lisce” di pietra permettevano strofinare quei panni consunti dallo sporco.

      Era uno dei luoghi d’ incontro e di lavoro piu ’ frequentati. Lontano o vicino che fosse, veniva raggiunto dalle donne di buon mattino. In quell ’acqua fredda e pulita si portavano a lavare tutti i panni accumulati, a volte , per mesi. 

        Io l’aiutavo,  portando in una mano, il canestro con il pesante sapone scuro e quadrato, fatto in casa con il grasso del maiale, soffice ed abbondante.  Nell’altra mano, portavo la “ mappina” della colazione e la ciotola d’acqua, quantunque a volte bevevamo anche in alcuni  rivoli isolati, la stessa acqua di fiume.

           Le donne sistemavano il lavatoio con  pietre su cui inginocchiarsi ad una ruvida, ma non troppo, su cui passare i panni, qualcuna  preparava la “lisciva” (una soluzione acquosa ricavata dai componenti solubili della cenere) con la quale questi ultimi venivano trattati. 

          Quelle poche postazioni di lavaggio erano molto ambite, per cui vi era sempre ressa in alcuni tratti del fiume. Era,  quello del lavare i panni al fiume,  rito antico ed oneroso, ma reso piacevole dallo scambio fra le donne, di ogni tipo di pettegolezzo: vaghe  voci di amori e tradimenti o semplici  battute per  ridere. 

            Vi era inevitabile rissa solo quando qualcuna, imprudente o incurante di una possibile parentela o amicizia con la protagonista e  vittima del pettegolezzo, non ne assumesse le difese di quest’ultima , allora erano guai: strilla acutissime, strappo di capelli e minacce e controminacce. Altra insidia per inevitabili liti era quella di accaparrarsi il cespuglio o le tante piante di salice che si trovavano nei dintorni per  distendere ed asciugre al sole il bucato.

            Comunque era un lavoro che si faceva con gioia, non sentendone fatica.

 Avevo imparato, che, anche se munite ancora di una congrua scorta d’acqua da bere, verso “ventunora” mi madavano comunque ad attingere acqua nel lontano  pozzo  sulla  Ripitella. Era il momento in cui, lavati i loro panni, madide di sudore, lavavano se stesse, esponendo le loro nudità con circospetta prudenza perché i curiosi non mancavano lungo il fiume. Timide e circospette, con addosso una veste o una sottana che arrivava fin sotto le ginocchia, le donne entravano lentamente nell’acqua e dopo aver insaponato, con lo stesso sapone dei panni, capelli, collo, faccia, e braccia si immergevano, rabbrividendo, nel freddo del fiume.

 

      Qualche volta, la più anziana restava fuori a vigilare affinchè  il rito del bagno avvenisse lontano da indiscreti occhi maschili. Nascosto tra i salici poteva esserci sempre qualche pescatore o giovane pastore che, lasciate le pecore incustodite, aggiungesse alla sua fantasia la concreta conoscenza di forme femminili, particolarmente risaltate dalle vesti bagnate.

 

          A sera le donne, con i panni piegati, asciugati e posti in cesti portati sulle testa, inebriate dal profumo profondo di acqua e sapone da essi emanato, prendevano la strada del ritorno stanche ma felici.

 

 

 
 
 

LA FIERA DI SAN NICOLA

Post n°51 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Alla fiera di san Nicola, il sei dicembre, i toresi compravano un po’ di tutto: castagne, portogalli, funi, scale per cogliere le olive, l´immancabile scapece, maiali e qualche asino a buon mercato.

Avendo venduto il vignale, zio Matteo pensò che almeno da vecchio poteva farsi aiutare da un asino. Anche per goderne la compagnia, visto che viveva solo. Vicino alla croce viaria, alcuni zingari ne vendevano uno zoppo ma veramente a buon mercato: solo seimila lire. Zio Matteo non se lo fece scappare. Lo battezzò Gelsomino, e già al sentirlo chiamare si indovinava l´affetto che provava per l’animale.

L’uomo era molto generoso e i vicini spesso ne approfittavano. Un giorno, Benito gli chiese in prestito la vettura per andare a caricare la legna in campagna. In cambio, si sarebbe sdebitato con una giornata di lavoro. Ma invece di prendere la via del bosco, prese quella per Campobasso. In città c’era la fiera di santa Lucia e Benito pensò bene di vendersi l´asino e divertirsi a modo suo, con le donnine a Sant’Antonio Abate.

Solo all´indomani, sul tardi, il giovane si ripresentò da zio Matteo, che non aveva chiuso occhio. Raccontò che i briganti gli avevano rubato l´asino Sotto la Vecchia. L’altro gli replicò a brutto muso che l´ultimo brigante l´aveva incontrato suo nonno nel lontano 1865, dopodiché li avevano fucilati tutti.

Insomma, vista la reazione esagerata del vecchio che era scoppiato in pianto, Benito confessò la verità. Poi, insieme ai carabinieri di Toro, lo accompagnò a Campobasso alla ricerca dell´asino, che, difficile a credersi, era finito di nuovo in mano agli stessi zingari venditori.

E fu così che mentre zio Matteo tornava in paese in groppa a Gelsomino, Benito restava in città per passare qualche giorno nella solita cella in Via Cavour.

 
 
 

IL VESTITO DA SINDACO

Post n°52 pubblicato il 15 Marzo 2012 da anchise.enzo

Il vestito da sindaco

Il vestito da sindaco

Il professionista si decise: si sarebbe candidato anche lui a sindaco del paese. Il padre che, in un libriccino che s’era portato anche in America, era solito leggere i nomi di tutti gli arcipreti e i sindaci del paese, lo aveva supplicato prima di morire: – Ti prego, figura anche tu nella lista, sarai ricordato dai posteri.

Prete non lo era divenuto perché dopo qualche mese aveva abbandonato il seminario, ma sindaco poteva ancora diventarlo. Rispettato ed amato dai paesani, assoldò il compare Antonio, i cognati, i cugini e tutto il parentado. Riaccese vecchie e assopite amicizie, divenne più cordiale e disponibile con ognuno. Insomma, si buttò anima e corpo nella campagna elettorale, promettendo solennemente, sotto giuramento, che avrebbe fatto questo e quello per il paese.

Nell’imminenza del voto, si riunì il comitato a casa sua ed ognuno lesse la lista degli elettori che avevano assicurato il loro voto. Nella prima ce n’erano almeno 400 certi al cento per cento; nella seconda se ne accertarono ben 300, nella terza sui 250 e infine, nella quarta lista, attorno a 200. In totale, voto più voto meno, si poteva contare su 1150 simpatizzanti.

Allora il candidato ruppe ogni indugio, corse da Moffa a Campobasso ad acquistare un vestito degno della prestigiosa carica che avrebbe ricoperto e, alla commessa che gli chiese come lo desiderasse, rispose semplicemente: – Da sindaco.

Purtroppo per lui, quel vestito non ebbe mai modo di indossarlo, perché a dispetto delle rosee previsioni sindaco non lo divenne. Né a lui, né ai suoi parenti, né a nessuno del comitato elettorale era passato per la mente di verificare meglio i nomi compresi nelle liste dei 1150 voti promessi, visto che il paese contava appena 800 votanti.

 
 
 

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