Mormorio del Brenta

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Che dire sulla prima pagina de "La Brenta?"

Post n°11 pubblicato il 08 Agosto 2011 da themi
 

Leggere certe cose fa venire il dubbio se chi scrive abbia mai guardato intorno a se, abbia calibrato il flusso dell’inchiostro della propria penna, o abbia uno sponsor importante che gli abbia richiesto di scrivere con gran enfasi delle assurdità galattiche. La prima pagina de “La Brenta” sedicente Periodico di informazione, Opinione, Attualità e Cultura del Canale di Brenta riporta un doppio articolo a firma di Giuseppe Cian Seren per il quale non posso fare alcun link, perché il giornale in questione è solo ed esclusivamente cartaceo (forse l’unico ormai) e come tale non consente alcun contraddittorio se non fra due mesi (se va bene e se la redazione lo pubblica). Mi limiterò a citare qualche passaggio per argomentare, sperando che qualcuno legga l’articolo per intero. Partiamo dal titolo: “Energia Potenziale. Il petrolio dei montanari. L’acqua è per tutti una risorsa?”.  Lo scrivente con Energia potenziale si riferisce alla possibilità di creare energia elettrica dall’energia cinetica del fiume. “Il petrolio dei montanari”: questa è già una delle sparate più grosse e insulse che si possano dire. In Canale di Brenta non vedo emiri, e se c’è una cosa che sarebbe sacrosanta e non c’è, è l’elargizione di energia ai comuni coinvolti nella captazione di acqua dalle centrali già esistenti.

Alla domanda “l’acqua è per tutti una risorsa ?” abbiamo già risposto con un referendum e ci aspettiamo che tale volontà popolare venga rispettata.

Dal testo: “Lo spreco dell’acqua si combatte con la captazione, cioè con bacini di accumulo in montagna e in pianura, Lasciar defluire l’acqua è da considerarsi mera imbecillità”.  Caro Sig. Giuseppe, anche se può sembrare sagace l’idea di risparmiare l’acqua, le è mai passato nella mente che cosa significhi trasformare una zona a carattere torrentizio in un ambiente lacustre? O peggio ancora privo di acqua? Non è in discussione l’ottimizzazione dell’utilizzo dell’acqua, ma lo sciacallaggio di pochi ( e certamente non residenti) a danno di un ecosistema che rende così caratteristica la Valbrenta.

“…4-5 progetti giacciono presso la Regione perché, per qualcuno, sono una grave fonte di impatto ambientale.” Quel qualcuno forse ha capito che anche uno solo di questi progetti venisse realizzato,   creerebbe ulteriori complicazioni nel già difficile tentativo di ripopolazione dell’ittiofauna, nella garanzia di regolare deflusso di acque purificatrici benefiche, senza nessuna garanzia di avere collaborazione nella regimazione in caso di piene (diga del Corlo ’66 docet). L’avi fauna si troverebbe ad nuovo mutamento e quindi ad nuovo riassetto delle specie, e il clima subirebbe ancora mutamenti (mi dicono che prima dell’esistenza della diga del Corlo il clima fosse un po’ meno umido, e che a Cismon la nebbia non esisteva).

“…l’energia cinetica che muove l’acqua era ben utilizzata dai nostri avi, basta ricordarci il suo utilizzo: magli, mulini, cartiere, la fluitazione, le zattere.” Questa perla di rimembranza storica forse vuole dare poesia al pezzo ma non tiene conto che magli, mulini e cartiere utilizzavano ruote e canalizzazioni che poco toglievano al flusso regolare del fiume e soprattutto che l’unico sciopero organizzato con tanto di manifestazione che si ricordi in valle fu fatto dai zattieri perché la captazione delle acque del Brenta da parte della costruenda centrale di Carpanè avrebbe reso loro problematica la navigazione e la fluitazione.

“…l’energia potenziale, energia che cresce con l’andamento dell’altitudine dei luoghi. Essa è il petrolio dei montanari.” Sarà anche vero che esiste questa energia, ma ogni volta che esiste un progetto di intervento (di solito devastante per la valle) non mi risulta che i residenti, la municipalità, le associazioni vengano interpellate sulla fattibilità di un progetto che porta ricchezza altrove e rischia di lasciare solo devastazione.

 

Nell’articolo sottostante che porta la stessa firma , dopo aver osannato consorzi, bacini e progetti , ci sono due passaggi interessanti:  “Forse ha vinto l’uso ludico del fiume…” e “ L’uso ludico del fiume è il solo utilizzo valido per il nostro Brenta?”  Caro signore io non so cosa intenda Lei per ludico, ma credo che i cinque cerchi di cui si fregia  Valstagna, e anche senza quelli, la tradizione ormai cinquantennale della vera scuola per la canoa, la fucina di campioni nelle specialità fluviali in tutta la zona, tre imprese che si occupano di turismo fluviale, la grande quantità di appassionati  pescatori non solo locali, e l’infinità di gitanti che cercano il fresco in Valbrenta, Le possano ampiamente spiegare che non si tratta di un gioco ma che è tempo di ragionare sul turismo ecocompatibile che già esiste  e che non va distrutto con una nuova centrale idroelettrica ma risolvendo il problema del soffocamento da traffico.

Marco Piacentini

 

 
 
 

Ho intervistato l'orso Dino!

Post n°10 pubblicato il 28 Maggio 2010 da themi
 

Passeggiando in Valranetta, tranquillo all’imbrunire, ho sentito un gran casino arrivare dal fisso fogliame del sottobosco. Lì a trenta metri da me è comparso un gran testone, era l’orso Dino. La tentazione era quella di chiedergli un’autografo invece con calma, ho provato a intervistarlo.
- Ma tu… tu sei l’orso Dino? –
- Dino? Aahhh, siii, ho sentito voi umani pronunciare questo strano nome; di solito vi evito, ma mi capita che arrivano gli echi di strani turpiloqui in quel ridicolo idioma ma mi è familiare solo da quando mi imbatto nelle vostre tane finchè passeggio in questo splendido altopiano.-
Mi annusa schifato e si vede che pensa che non sono di nessun interesse gastronomico, e ancor meno di compagnia.
- Scusa Dino ma, come ci sei arrivato qui?-
- Che ci vuoi fare, siamo partiti insieme, come fate voi, abbiamo detto andiamo a donne, poi l’idea ci straluna un po’ e alla fine, “ognuno per se’ e Dio per tutti”, ho visto ‘sti boschi verdissimi, la neve col mio pelliccione non mi da fastidio, si respira bene…è un peccato che finora di gnocca nemmeno l’ombra –
- Com’è che ti sei mangiato tutti quegl’asini?-
-No, no, no! Niente polemiche! Io sono un’orso e sono onnivoro, per un po’ ho piluccato miele e mirtilli ma…mi hai visto? Sono ciccione e tosto e mi ci vuole qualcosa di sostanzioso! Se vado a cacciare qualche animale selvatico devo correre e ciò mi comporta un grande sforzo! Voi invece tenete gli asini lì a portata di zampa e magari pure legati! Niente ostacoli, o per lo meno non certo un problema per me…e così, l’occasione fa l’orso…affamato! Poi, sai che è proprio buona la carne d’asino dovresti provarla!
- Ma, ma così ti sei fatto dei nemici e ti vogliono catturare o peggio uccidere!-
-Caro il mio umano, voi ragionate sempre come i padroni di ogni ambiente e avete poca memoria.
I miei nonni mi raccontavano spesso delle scorazzate nei boschi di questa zona, e anche di voi uomini, che però, abituati a convivere con i boschi più selvaggi di adesso, le vostre bestie schiave ve le mettevate al coperto. Oggi la cosa più selvatica che avete sono quei rompicoglioni con i quad che si infilano dovunque facendo un gran casino!-
-Hanno appena deciso di catturarti per portarti in Slovenia!-
-Mmmhhh! Intanto il fatto che abbiano deciso di catturarmi, non vuol dire che poi riescano a farlo. Sono due anni che c’ho dei stupidotti col flash che tentano di fotografarmi e non m’hanno beccato neanche la coda. E poi se dovrà essere non si sta male neanche nei boschi della Slovenia; però… sai che sono un grande camminatore e magari fra un po’ passo a trovarvi, e comunque se non vengo io arriverà Pino o Nino o Rino, anzi per me c’è già qualche altro collega che gironzola intorno; se poi fosse una bella pollastrella…
E comunque io ho viaggiato parecchio e anche il mio amico lupo mi ha chiesto di queste montagne e ha saputo che ci sono perfino i cinghiali; mi diceva che pensava di partire con gli amici e i parenti e venire a divertirsi un po’. Che fate? Partite per catturare anche loro? Per me ve la tirate un po’ troppo-
- Sai Dino, c’è anche tanta gente che ti vuol bene e vuole proteggerti e anch’io lo voglio! –
- Senti umano, io me ne vado, e tu pensa a dire ai tuoi simili che solo la natura decide dove io e i miei amici andiamo, non certo qualche cialtrone che già fa abbastanza danni nella vostra comunità!
Ti saluto e stammi alla larga…-
-Ma… Dino! Aspetta! Ciao –
Andato

 
 
 

La Calà del Sasso

Post n°9 pubblicato il 19 Gennaio 2009 da themi
 

In destra Brenta, spacca l’altopiano con una profonda fessura e divide in due Valstagna. E’ la Val Frenzela, decisa e tortuosa spaccatura che si incunea nell’altopiano delle Sette Sorelle con la spettacolarità delle sue guglie, degli strapiombi e dei solenni silenzi straziati dai rimbrotti delle cornacchie. Nella quiete della profondità della valle il placido, timido scroscio del torrentello ci accompagna nel risalire alla ricerca della storica via che cambiò i destini  del commercio e la vita degli abitanti alla fine del XIV secolo. Ecco, in uno slargo, sulla sinistra, inerpicarsi decisa la Calà del Sasso. Fu fatta costruire da Gian Galeazzo Visconti nel 1387 e divenne la via più breve per il trasporto a valle delle merci. Fino a quel momento nonostante un incremento della produzione di prodotti caseari, lane ma soprattutto legnami, la commercializzazione era vincolata alla carenza di vie di comunicazione, poco sicure e malcurate, che riducevano gli scambi alle contrade interne e a forniture alla Serenissima molto frammentarie.


 


La calata (da qui Calà) rappresentò la svolta, aggirando così le barriere daziarie imposte dal comune di Foza, e distinguendosi per la sua struttura pensata per il trasporto dei tronchi sempre più richiesti dalla Serenissima per il potenziamento e la manutenzione della propria flotta.


 


Fu realizzata a gradini con le alzate di circa 15 centimetri, un piano di appoggio di mezzo metro e larghi fino  a 2 metri. Sono 4444 scalini, cavati e ottenuti con sassi del posto, che si tuffano a valle per un’altezza di 810 m. A fianco per tutta la discesa vi era uno scivolo nel quale venivano posati i tronchi e frenati con corde che permettevano i cambi di direzione nei tornanti.


La nascita di questa nuova rapidissima rivoluzionò l’economia montana e fra il XV e il XVIII secolo le forniture di legname dell’altopiano all’arsenale di  Venezia furono così importanti che alcuni toponimi come “Col dei Remi” ancor oggi le ricordano.


Nel 1491 si procedette alla prima manutenzione ma visto che l’impresa era particolarmente onerosa, la Repubblica di Venezia decise che  la spesa doveva essere sostenuta e suddivisa tra tutti i comuni che ne facevano uso. Nei secoli successivi quindi, grazie ai comuni di Asiago, Gallio, Foza, Roana, Lusiana e Valstagna, la strada fu mantenuta in perfetta efficienza.


Dalla metà dell’800  nascono le carrabili di collegamento fra montagna e pianura, capofila il “Costo” che congiunse Asiago a Caltrano e nel 1909 comincia a funzionare la ferrovia da Piovene Rocchette al capoluogo dell’altipiano. La Calà perde progressivamente di importanza anche se viene ancora utilizzata per piccoli trasporti.


Durante l’alluvione del 1966, la via viene pesantemente danneggiata con la rimozione della massicciata in più punti, ma la consapevolezza di avere di fronte un capolavoro storico di ingegneria stradale ha generato finanziamenti per il recupero e la rivalorizzazione del sito. La spettacolarità di questa via è ben resa da uno scritto di Paolo Rumiz:E' lunga come il purgatorio, scura come il temporale, la scala che ti porta al grande vecchio della montagna (Mario Rigoni Stern n.d.a.), lassù sull’Altopiano di Asiago. Quattromilaquattrocentoquarantaquattro gradini, ripidi da bestie, faticosi già a nominarli. Partono dalla Val Brenta, sotto picchi arcigni, nel punto dove la valle - per chi viene da Bassano - sembra spaccarsi in due, all’altezza di un paese chiamato Valstagna, con la sua muraglia di vecchie case a filo d’argine. L’erta prende la spaccatura di sinistra e brucia in un lampo 810 metri dislivello. Si chiama «Calà del Sasso», ed è una delle opere più fantastiche delle Alpi…”


Come spesso accade in Valbrenta la suggestione dell’ambiente naturale e la fantasia popolare hanno alimentato racconti e leggende, e anche la Calà possiede la propria storia d’amore e fratellanza. Si narra che nel 1638, Loretta e Nicolò, fidanzatini in odor di matrimonio, abitanti del Sasso, vengono colpiti da sventura. Loretta, in attesa di un figlio, si ammala di peste e il suo innamorato determinato a salvare la sua bella, parte deciso alla volta di Padova alla ricerca di un unguento miracoloso. Scende la Calà e a Valstagna  noleggia un cavallo. Pur viaggiando di gran carriera il tempo scorre veloce e col sopraggiungere della notte Nicolò non è ancora tornato; gli abitanti del Sasso decidono di scendere con le torce incontro al giovane. Con stupore avvistano lungo la Calà altre luci che salgono: è Nicolo scortato dagli uomini di Valstagna. La storia è a lieto fine con l’unguento che guarisce Loretta e i due “morosi” che si sposano con la partecipazione numerosa degli abitanti del Sasso e di Valstagna al loro matrimonio. Da qui la credenza popolare che se due fidanzati percorrono la Calà mano nella mano si ameranno per sempre. A ravvivare questo messaggio d’amore la seconda domenica di Agosto tutti gli anni si svolge una fiaccolata commemorativa che porta diverse centinaia di persone da Valstagna su per la ripida via storica fino al Sasso di Asiago dove vengono accolti da musiche e banchetti


 

 
 
 

Il Covolo di Butistone

Post n°8 pubblicato il 12 Settembre 2008 da themi

“…è situato lungo la Brenta sulla via maestra che va in montagna ed è una fratta alta da quel piano passi 30 come dicono e si tirano su con una corda che mandano giù con un argano accomandato la di sopra, né vi è alcuna altra via da salirvi chi non è uccello…”

 (Domenico Odorico Capra, 1580) 

Via obbligata tra il Trentino e la pianura veneta e storicamente importante connessione tra la Serenissima e gli imperi Mitteleuropei il Canale di Brenta scende da nord in un’ampia vallata glaciale assolata e fertile fino a insinuarsi gradualmente fra i due massicci dell’Altopiano di Asiago e del Grappa e trovare il punto più stretto e profondo nella gola del Tombion fra Primolano e Cismon. La conformazione geologica rende questa zona importante strategicamente per il controllo di ogni passaggio, e quasi a voler completare la vocazione del luogo la natura ha posto, proprio lì, a 50 metri di altezza su una ripida parete un enorme covolo. Tali condizioni hanno favorito da sempre l’antropizzazione dell’antro ed i reperti archeologici ritrovati fanno risalire fino ad epoca romana la presenza dell’uomo anche se non vi sono dati certi. Di sicuro anche la presenza di acqua risorgiva costante all’interno rende questo luogo adatto a rifugio o fortificazione. I primi documenti risalgono all’anno 1004 e narrano della conquista del Covolo da parte dell’imperatore Enrico II, che in tal modo si è aperto la strada per la pianura padana, durante le campagne militari contro il marchese Arduino d’Ivrea. Da questo momento in avanti i documenti storici non mancano e riportano secoli di scaramucce e trattative per il controllo di questo importante luogo strategico e stazione di dazio.

Sulle origini del nome il termine Butistone deriverebbe, secondo il conte Francesco Caldogno (XVII sec), dalla composizione di due vocaboli dell’antico dialetto dell’altopiano dei Settecomuni: “Bunta” (in tedesco Wunde – ferita) e da Stoane (in tedesco Stein – sasso, roccia).

Il covolo passa sotto la dominazione dei Carraresi, degli Scaligeri, dei Visconti e della Serenissima. Durante la guerra di Cambrai viene sottratto a Venezia e diventa “enclave” della casa reale Austriaca fino a ben il 1861.

E’ considerato tutt’oggi un manufatto, nella complessità del suo progressivo adeguamento ai bisogni dei diversi eserciti, di grande genialità e funzionalità nella sua progettazione. La parte bassa, di cui oggi sono a malapena visibili alcuni resti delle mura, sbarrava con una doppia porta la strada imperiale che correva più in alto rispetto all’attuale Statale. Al suo interno stava il corpo di guardia e gli addetti alle riscossioni del dazio.

Alla parte alta si accedeva solo tramite una carrucola azionata da un argano. Il buon stato di conservazione rivela diversi piani, 4 secondo le cronache, anche se sotto qualche pavimentazione sono comparse coperture ben più antiche. I ballatoi in legno che ospitavano le vedette e gli arcieri non sono stati risparmiati dai secoli, ma ancor oggi sono visitabili all’interno diversi locali: magazzino e armeria, alloggi per la truppa ( in momenti di allarme qualche centinaio di uomini!) e il capitano, un forno-cucina, i servizi igienici e la prigione, e una cisterna e un pozzo sempre riforniti di acqua risorgiva. Alcuni vani sono stati scavati a mano nel calcare, alcuni costruendo dei divisori. Posato sul 2° livello vi è un altare dedicato a S. Giovanni Battista; davanti c’è un affresco che ha una particolarità: il sole che vi è raffigurato, il giorno del solstizio d’estate viene illuminato dai raggi dell’astro a cui è dedicato che riescono a insinuarsi tra i dirupi centrandolo perfettamente.

 Il Covolo di Butistone è un castello in piena regola e con dimensioni ragguardevoli considerato che la grotta che lo ospita è profonda 24 metri, lunga 30 e alta internamente 14.

Assieme alla Bastia, torre costruita sul versante opposto del Butistone, in comune di Enego, e che ne costituiva protezione dagli attacchi dall’alto, restò punto chiave e di difficile espugnazione fino a quanto agli inizi del 700 l’artiglieria fu abbastanza sofisticata da rendere questo tipo di fortilizio obsoleto.

Fu utilizzato per l’ultima volta come deposito munizioni durante la prima guerra mondiale, periodo nel quale venne costruita parte della scala che oggi lo rende accessibile ai visitatori.

Una visita oggi è possibile grazie a un progetto di studio, restauro e valorizzazione finanziato dalla Comunità Europea, e grazie al contributo scientifico, storico e tecnico della sezione archeologica dell’autorevole e sempre attivo Gruppo Grotte Giara Modon.

 
 
 

Streghe e sanguanei: le creature fatate della Valbrenta

Post n°7 pubblicato il 27 Luglio 2008 da themi
 

Ancor'oggi transitando lungo la Valbrenta non si può restare indifferenti all'imponenza delle pareti scoscese che la sovrastano, ai continui cambi di luce ad ogni curva, ai colori scintillanti e agli angoli cupi. Ad ogni stagione si associa una scenografia e dal mattino alla sera sono mille le sfumature che tinteggiano ogni angolo di roccia. Anche i rumori, soprattutto di notte, quando i frastuoni del progresso lasciano spazio alla spontaneità degli elementi, rivelano un ambiente vivo e ricco di vibrazioni, grazie alle acque e al vento che sprona i dirupi e si insuinua negli anfratti. La storia di questi luoghi è costellata nei secoli dagli sforzi e la caparbietà dei popoli residenti di ricavare dalla valle imperiosa ed ostile di che sostentarsi, strappando un fazzoletto di terra fertile alla roccia, cogliendo legnami, cacciando e pescando. L'attaccamento ma anche la reverenza alla propria terra, le disgrazie ma anche le conquiste, hanno mantenuto sempre viva l'immaginazione e il tentativo di spiegare con l'emotività ciò che era sconosciuto e apparentemente inspiegabile. Convivono così da sempre nel quotidiano dei valligiani creature fantastiche, luoghi magici, infausti eventi e sacri prodigi. I boschi e le sorgenti, le grotte e i valloni pullulano di streghe, fate, orchi e folletti. Il tramandarsi verbalmente di fiabe e leggende ne ha continuamente trasformato il contenuto e di conseguenza anche le entità soprannaturali protagoniste cambiano fisionomia nelle diverse situazioni, epoche e luoghi.
I pochi tentativi di raccolta di storie e leggende della Valbrenta, di cui autore più famoso e completo fu Armando Scandellari , sono forse manoscritti fortemente influenzati dalla fantasia e forza descrittiva degli autori, piuttosto che veri e propri profili identificativi delle creatura magiche.
Le anguane del Subiol sono dolci e fascinose, quelle della Val Frenzela sono brutte e malvagie. Il termine sembra tuttavia derivare da "Deae Acquane" figure mitologiche legate alle acque risalenti ad epoca greco-romana ed èplausibile che una delle loro dimore sia proprio lungo la Claudia Augusta Altinate (vecchia denominazione della Valsugana tracciata nel 15 a.C.).
Il Sanguanel, Salvanelo, Mazzarol è un'ometto dispettoso, beffardo che succhia il latte dal bestiame o rapisce i bimbi, vive nelle grotte nascoste dalla vegetazione più ricca ed è per lo più rosso; e associato ai folletti e ad altre creature che vivono in altopiano di Asiago e in Cadore.
E poi le streghe e le fate, dolci ammaliatrici o perfide e sanguinarie, per lo più fanciulle convertite alla magia o figlie di creature magiche, e ancora gli orchi e i beatrichi.
Le ombre lunghe dell'inverno, l'assenza di sole per periodi lunghi, gli squarci di luce tra i dirupi, le nubi basse, i riflessi delle sorgenti, le soffuse luci della notte di luna piena danno importanti elementi di suggestione personale, ma ciò che più colpisce sono i suoni e i rumori. E' probabile che qualcuno abbia avuto la possibilità di ascoltare i lamenti che si odono sul piazzale delle Grotte di Oliero: lì viveva una strega e i viandanti vi si tenevano alla larga; è sufficiente alimentare la credenza costruendo il personaggio, ed ecco che gli sgherri dell'Ezzelino che cercavano rifugio per far calmare le acque dopo le loro scorribande criminose, lì trovavano un covo ideale.
Addirittura il nome del Subiol è legato ai rumori: Il Subìo è lo zufolìo, e chi suona lo zufolo è una creatura magica! Potenza del vento!
La chiesa e i suoi rappresentanti non sono esenti dall'avere alimentato il prolificare di figure magiche in Valbrenta, non tanto creandole ma leggitimandone l'identità e sfruttandone le componenti malvagie a titolo di minaccia o punizione. Lo stesso Scandellari è indotto a menzionare, riguardo alla strega di Bassano, il libro di Pietro d'Abano, riferendosi probabilmente a "Elementa Magica Petri de Abano Philosophi"un testo di fondamentale importanza per lo studio e la pratica della Magia Cerimoniale. Pietro d'Abano (1250-1315) la cui opera più importante fu il Conciliator differentiarum philosophorum et praecipue medicorum, sosteneva la connessione tra il mondo naturale e gli astri, il ricorso alla magia, agli incantesimi e l'uso della  medicina che, in termini moderni, definiremmo "olistico", e una concezione dell'uomo e dell'intero creato come un armonioso organismo regolato dalle costellazioni. E' sintomatico che questo scienziato sia stato più volte processato per eresia e ateismo anche dopo la sua morte in carcere, e ne sia stato ordinato il rogo delle spoglie.
Ma la grande legittimazione che ha consegnato alla storia l'esistenza delle nostre creature del bosco riguardava la "estinzione" delle anguane e di tutti i loro parenti: infatti orchi, streghe, fate, salbanèi, ecc. che sarebbero stati definitivamente relegati nei tenebrosi antri infernali dal Concilio di Trento - (1545 - 1563)

 
 
 
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Data di creazione: 29/04/2008
 

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