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spleen

"Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere d'essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo."

 

 

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11 Settembre....

Post n°17 pubblicato il 11 Settembre 2006 da Nicc0

In questo articolo scritto pochi anni fa, e che potremmo sottotitolare “nessuno può rubare il nostro giorno”, Tito Tricot si chiede se le vittime del World Trade Center siano da ritenersi più preziose degli innocenti assassinati nel colpo di stato in Cile, organizzato dagli Stati Uniti.

"Lunedi, 16 settembre 2002
I nostri sogni furono distrutti quando in una mattina nuvolosa i militari rovesciarono il governo democraticamente eletto di Salvator Allende.

Ventinove anni dopo, i pompieri cileni hanno fatto suonare le loro sirene per rendere tributo alle migliaia di uomini e donne che persero la loro vita senza sapere con precisione che cosa stava accadendo. Fu una commemorazione, non per le vittime del colpo di stato, ma per quelli che rimasero uccisi nel WTC a New York. Un evento triste, ma ancora più triste è che i pompieri cileni non abbiano mai suonato le loro sirene per ricordare i nostri morti. E ce ne furono migliaia, compresi molti bambini, assassinati dai militari.

Non è il caso di confrontare disperazione e dolore, ma, per un anno intero, i media americani hanno cercato di convincerci che la vita dei nord americani ha più valore di quella degli altri popoli. Dopo tutto, noi siamo il terzo mondo, cittadini di paesi sottosviluppati che possono essere arrestati, torturati e uccisi. Come altrimenti possiamo interpretare il fatto che il golpe militare nel nostro paese venne organizzato negli Stati Uniti?

La verità è che nessun presidente americano ha mai versato una lacrima per i nostri morti; nessun politico americano ha mai mandato un fiore alle nostre vedove.

I governi e i media americani usano criteri diversi per misurare la sofferenza. E’ proprio questa ipocrisia e questo doppio criterio di giudizio che fa male, in particolare quando, in quel giorno simbolico per i cileni, il presidente del Cile, Ricardo Lagos, ha presenziato una cerimonia commemorativa all’ambasciata americana dove l’ambasciatore, William Brownfield, ha affermato che “la gente che odia gli Stati Uniti deve essere controllata, arrestata o eliminata”.

In che mondo viviamo? Possiamo noi non fare nulla mentre, nel nome della lotta contro il terrorismo, i paesi vengono bombardati o invasi dalla macchina da guerra americana? Io credo di no, in particolare perché, prescindendo dall’orrore degli attacchi al WTC, gli USA non hanno alcun diritto morale ad imporre la propria volontà sul nostro continente.

Dopo tutto, noi in America Latina abbiamo un’ampia esperienza con le strategie terroristiche americane. Solo nel nostro continente 90.000 persone sono scomparse come risultato diretto delle operazioni e delle politiche anti-insurrezionali degli Stati Uniti – 30 volte il numero delle vittime del WTC.

Uno non può – e non dovrebbe – tentare di quantificare la sofferenza, ma noi abbiamo il diritto di denunciare questo doppio criterio di giudizio. Abbiamo anche il diritto di contestare la frase del Presidente Lagos: “..per la gioventù di oggi ciò che è accaduto nel 1973 fa parte della storia”. Alcune ore dopo la frase del Presidente, migliaia di persone – per lo più giovani – occuparono zone di Santiago e di alte città per esprimere i loro veri sentimenti circa questo disgraziato giorno nella storia del Cile. Hanno organizzato manifestazioni, veglie, concerti, incontri, seminari e barricate per difendersi dalla polizia.

E’ stato un modo per dire: nè gli Stati Uniti nè qualcun altro ha il diritto di rubare la nostra memoria. Nessuno ha il diritto di rubare il nostro giorno, perché l’11 settembre 1973 è inciso nei nostri cuori con le lacrime"...



"Care madri, cari padri delle persone rimaste uccise l’11 settembre 2001 a New York. Sono cileno, mi chiamo Ramon e vivo da molti anni a Londra. Volevo dirvi che forse abbiamo qualcosa che ci unisce. I vostri cari sono stati assassinati come pure i miei. Abbiamo anche una data in comune: 11 settembre. Nel 1970 ci sono state le elezioni in Cile e io votavo per la prima volta. Avevamo un bellissimo sogno: costruire una società in cui tutti potessero condividere il frutto del loro lavoro. Così in quel 1970 andammo tutti a votare per Salvador Allende. Insieme…..Madri, padri delle persone uccise l’11 settembre a New York. Presto ricorrerà un nuovo anniversario. Noi vi ricorderemo sempre. Spero vi ricorderete di noi".
"11 settembre 2001", Ken Loach





1973. Le elezioni parlamentari di marzo offrono alla coalizione di sinistra la stessa percentuale del '69. Non è abbastanza per consolidare il governo, ma è sufficiente per impedire che la destra chieda la destituzione di Salvador Allende. La campagna elettorale si svolge sotto l'attenta supervisione delle forze armate. Da maggio la situazione precipita. In una riunione di 800 ufficiali della guarnigione di Santiago, il generale Carlos Prats viene fischiato. Allende dichiara lo stato di emergenza per arginare gli scontri tra opposte fazioni. La Democrazia Cristiana sceglie il suo nuovo segretario. È Patricio Alwin, dell'ala destra intransigente. Anche la Chiesa, contraria alla riforma scolastica, si schiera contro il governo. Il 29 giugno c’è il primo tentativo di golpe. Il colonnello Roberto Souper, a capo di un reggimento di blindati, intima la resa della guardia del palazzo della Moneda. Ma l’operazione fallisce. Quando Allende giunge alla Moneda si odono solo spari isolati. L’aria è comunque pesante e non promette nulla di buono. Ci sono strani movimenti tra gli alti vertici delle forze armate. Unidad Popular intende conoscere chi sta dietro alle operazioni coperte. Hector guida in quei giorni la rete di informatori.


“Il colpo di stato non ci trovò impreparati. Avevamo una rete di informatori che ci fornivano notizie, segnali che dall’altra parte si stava preparando qualcosa di grave contro Allende. Eravamo praticamente dappertutto. Un nostro informatore lavorava al club di golf di Santiago. Era un luogo esclusivo, frequentato da alti vertici militari e dall’ambasciatore americano a Santiago. La segretaria del diplomatico si era invaghita di questo ragazzo. Gli passava informazioni riservate sui movimenti di soldi e sui finanziamenti ai golpisti, ai politici di destra che frequentavano l’ambasciata in riunioni private”.


Il 9 settembre 1973 cade di domenica. Allende invita a pranzo i più importanti dirigenti di Unidad Popular e li informa che proporrà un referendum. Poche ore dopo, sempre a Santiago, il generale Augusto Pinochet Ugarte festeggia nella sua casa il compleanno della figlia. Tra gli ospiti c’è il comandante dell’aeronautica Leight. Sono le 17. Suona il campanello. Alla porta ci sono due ufficiali della Marina. Vogliono parlare con Pinochet. Sono l’ammiraglio Huidobro e il capitano Gonzales, vengono da Valparaiso e portano un messaggio del vicecomandante Merino .”Gustavo e Augusto- dice nella lettera Merino- vi comunico che il D.Day è fissato per l’11 settembre a partire dalle 6 del mattino. Se pensate di non poter schierare tutte le forze di cui disponete a Santiago, chiaritemelo sul rovescio del foglio. L’ammiraglio Huidobro è autorizzato a discutere e a mettere a punto ogni dettaglio. Vi saluto con amicizia e con speranza. Merino”. Sul retro c’è un post scriptum indirizzato proprio a Pinochet. “Augusto, questa è l’ultima occasione. Se a Santiago tutto l’esercito non sarà con te fin dal primo momento, per noi sarà la fine. Pepe”. I generali Leight e Pinochet si scrutano, osservano in modo attento il dispaccio, non si perdono neppure una parola. Alla fine, Leight sottoscrive l’accordo. Pinochet esita un istante, poi firma e imprime sul documento il timbro del Comando in Capo dell’Esercito del Cile.


Il 10 settembre. Mancano 36 ore al colpo di Stato. Allende perfeziona alla Moneda il testo del discorso per la convocazione del plebiscito. Il generale Pinochet prende il timone del golpe. Davanti alla spada di O’ Higgins, il padre della patria, fa giurare uno dopo l’altro i generali Brady, Benavides, Arellano e Palacios, e il colonnello Polloni. E’ sera. Allende annulla il suo viaggio ad Algeri alla riunione dei capi di Stato dei cinque continenti. La situazione politica è troppo delicata per allontanarsi da Santiago. Il Presidente esce dalla Moneda che è già buio. Sono gli attimi in cui al quinto piano del Ministero della Difesa, il generale Nicanor Dìaz Estrada entra in azione e ordina lo stato d’allarme di primo grado a partire dalle sei del mattino del giorno dopo. Nella casa presidenziale, Allende riunisce i collaboratori più stretti. Il suo volto è segnato dalla stanchezza. Giungono voci di tradimenti da parte di generali e colonnelli. “Da mesi non dormirei se dovessi dar retta a ogni voce. Domani ci aspetta una giornata dura”, dice Allende al suo consigliere Joan Garcés.


11 settembre 1973. Le quattro del mattino. Le strade di Santiago sono ancora deserte. Il colonnello Julio Polloni raccoglie ingegneri e operatori scelti per eseguire il “Piano silenzio”, interrompere le comunicazioni telefoniche e chiudere i trasmettitori delle radio filo governative. Alle cinque intanto, alla casa presidenziale, Allende riceve una telefonata. Dall’altro capo dell’apparecchio c’è il generale Jorge Urrutia, vice comandante dei Carabinieri. “Le truppe della Marina si stanno radunando nelle strade di Valparaiso, sono già uscite dalle caserme”. L’ordine di Allende è categorico: chiudere subito la strada che collega Valparaiso a Santiago. L’ufficio del viceammiraglio Patricio Carvajal nel Ministero della Difesa si trasforma dalle sei del mattino nel quartiere generale dei golpisti. Si trova a pochi metri dal Palazzo della Moneda, un luogo strategico per controllare gli spostamenti di Allende e dei suoi uomini.


Le sei e mezza. Allende si veste nel modo più informale: pantaloni grigi, giacca di tweed, golf di cachemire a collo alto. Al capitano dei Carabinieri José Munoz, Allende dice: “Andiamo alla Moneda, scelga la strada migliore e più rapida”. Le automobili Fiat 125 blu escono dalla casa presidenziale. Un ufficiale della Polizia Civile osserva la loro manovra a distanza, attiva il suo apparecchio radio e informa il Ministero della Difesa della partenza di Allende. Il golpe è in atto. I blindati dei carabinieri si appostano intorno alla Moneda. Alle sette e trenta, il Presidente entra dal cancello principale della sede del Governo con le auto in carovana, scende dalla vettura e sale per l’ultima volta la scala di marmo che porta al primo piano. La prima chiamata è del leader socialista Carlos Altamirano. “Dissi ad Allende che la Moneda era un luogo pericoloso per guidare le operazioni: c’era una sollevazione della Marina e i generali dell’Esercito e dell’Aviazione non rispondevano al telefono, sembravano volatilizzati”. Allende prende fiato e risponde al senatore socialista: “No, ti sbagli Carlos, il posto del Presidente è il Palazzo della Moneda, nessun altro”. In quel preciso istante, a duecento metri di distanza, i golpisti arrestano il ministro della Difesa Osvaldo Letelier. Nello studio presidenziale, tre telefoni sono collegati direttamente con le radio Magallanes, Corporaciòn e Portales. Alle sette e cinquantacinque, Allende prende il microfono e diffonde la sua prima comunicazione. Annuncia l’infedeltà alla democrazia delle truppe della Marina e chiede ai cittadini di raggiungere i propri posti di lavoro, mantenendo la calma.

“ In ogni caso, io sono qui, nel palazzo del Governo, e resterò qui difendendo il governo che rappresento per volontà del popolo”.


Due minuti dopo, un aereo militare distrugge l’antenna trasmittente di Radio Corporaciòn. Il primo proclama militare viene emesso dalla catena radiofonica della destra alle otto e trenta. La voce dura e sgraziata del tenente colonnello Roberto Guillard impartisce gli ordini. “ Tenendo presente la gravissima crisi sociale e morale che mette in pericolo in Paese, il signor Presidente della Repubblica deve procedere alla immediata consegna del suo Alto mandato alle Forze Armate e ai carabinieri del Cile”. Segue la firma di tutti i generali coinvolti nel colpo di Stato. Allende torna a parlare da Radio Magallanes, in aperta sfida ai golpisti.

“Non darò le dimissioni. Denuncio davanti al Paese l’incredibile atteggiamento di soldati che mancano alla loro parola e al loro impegno. Faccio presente la mia decisione irrevocabile di continuare a difendere il Cile nel suo prestigio, nella sua tradizione, nella sua forma giuridica, nella sua Costituzione”.


Gli aerei militari volano sempre più bassi sopra la Moneda. Allende, i suoi consiglieri, la guardia presidenziale (Gap) è appostata all’interno del palazzo. I Carabinieri e la Polizia Civile presidiano ormai buona parte della città. Il Presidente è ancora seduto nel suo ufficio con il microfono in mano.

“ In questo momento passano gli aerei. E’ possibile che ci bombardino. Però sappiate che restiamo qui per dimostrare, per lo meno con i nostro esempio, che in questo Paese ci sono uomini che sanno compiere il loro dovere…”.


Alla Moneda, giunge la telefonata del viceammiraglio Patricio Carvajal che propone ad Allende un salvacondotto: un aereo per lui e per la famiglia che li possa portare lontani dal Cile. Allende risponde: “ Ma cosa avete creduto, traditori di merda. Mettetevi in vostro aereo nel culo. Lei sta parlando con il Presidente della Repubblica. E il Presidente eletto dal popolo non si arrende”. Allende è preoccupato per le sorti del Paese ma non perde la calma. Prende il fucile Aka e se lo mette in spalla. Poi passa in rassegna le sue truppe di difesa. Diciotto detective, venti uomini del Gap, ministri e collaboratori. Meno di cento persone. Sull’impugnatura dell’ arma, si può scorgere una placca di bronzo con la scritta: “A Salvador, da suo compagno d’armi Fidel Castro”.


La scena si sposta poco dopo nella sala degli addetti militari. Davanti ad Allende, ci sono tre ufficiali golpisti, Sànchez, Badiola e Grez. “ Presidente, devo trasmetterle il messaggio della mia istituzione. La Forza aerea ha preparato un Dc6 con l’ordine di portarla dove lei vorrà. Ovviamente il viaggio include la sua famiglia e le persone che lei ritiene di portare con sé”, dice il comandante Sànchez. Ma Allende è pronto al suo ultimo sacrificio: “No, signori, non mi arrenderò. Dite ai vostri Comandanti che non me ne andrò da qui, che non mi consegnerò. Questa è la mia risposta. Non mi tireranno fuori vivo da qui, anche se bombarderanno la Moneda. E guardate, l’ultimo colpo me lo sparerò qui…E ora andatevene via da qui. Tornate alle vostre Istituzioni, è un ordine ”.


In quelle ore, Hector Carrasco si trova nella sede della Gioventù Comunista.

“In quelle prime ore dell’11 settembre, nelle sede della Gioventù Comunista squillavano i telefoni in continuazione. Nessuno però sapeva cosa stesse accadendo. Le stazioni radio comunicavano notizie frammentarie e i telefoni tornavano a suonare. C’erano due stanze dove normalmente si riunivano i componenti dei gruppi di autodifesa. Mi trovai davanti al responsabile, Galvarino Diaz. Mi disse: ’Santiago brucia, Hector, non ci sono più dubbi. E’ necessario far uscire tutte le armi da qui. Potrebbero arrivare i militari da un momento all’altro, non le devono trovare. Possiamo utilizzare la Fiat 600 di Miriam’. Così iniziò il nostro viaggio a Santiago in quel 11 settembre di trenta anni fa”.


Non c’è tempo da perdere. Il golpe è in atto e i militari attendono solo il momento propizio per arrestare i militanti della Gioventù Comunista. Hector, Miriam, Galvarino e Mao nascondono le armi sotto i sedili della vettura: due Colt 45, una Thompson, tre mitragliette Uzi e quattro bombe a mano. Si dirigono verso i quartieri operai della città. L’obiettivo è trasportare l’arsenale nella poblacion di La Victoria. Il viaggio è lungo e rischioso, i posti di blocco dei militari sono ovunque. Da lontano scorgono un gruppo di soldati con una fascia sul braccio sinistro. Fermano ogni macchina, Monocicletta, persone a piedi e in bicicletta. Loro si fanno ancora più piccoli dentro quella 600. Dieci soldati con i fucili puntati li bloccano, intimano di scendere. Poi si trovano fuori, con le braccia appoggiate alla vettura mentre i soldati iniziano la perquisizione.


“I vostri documenti dove sono? Dove state andando? Da quale zona provenite?”. Hector sente un brivido dietro la schiena e pensa: “Accidenti…la tessera della Gioventù Comunista.. sta nel portafoglio”. “Che cos’è quella tessera azzurra”- gli chiede un ufficiale dell’esercito. Hector risponde con calma: “E’ la tessera d’iscrizione al club degli universitari che si occupano di cultura, sport e ricreazione”. Sul tesserino non c’è il simbolo del Partito, c’è il disegno di una margherita con i colori giallo, blu e azzurri. Hector è convinto di averla fatta franca ma ci sono ancora le armi nell’auto. Un soldato si avvicina a Miriam, capelli biondi, il corpo snello, gli occhi languidi e azzurri. Dalla borsa, lei estrae un porta-documenti verde. Sulla parte esterna è ben visibile lo stemma del Rotary Club, sede di Arica. A quel punto, il militare si mette sull’attenti: “ Signorina, perché non ha detto subito chi era? E cioè la figlia di Don Gustavo? Se lo avessi saputo prima le avrei evitato tutti questi inconvenienti”. Così ordina agli altri militari di interrompere la perquisizione. Miriam è figlia del Presidente del Rotary e i soldati hanno un’ammirazione profonda per quel club.


I ragazzi sono salvi ma il viaggio non si è ancora concluso. Lungo la Panamericana camminano migliaia di persone, a piedi, senza una meta definita. In giro si vedono pochi autobus. In quel preciso momento, Galvarino chiede a Miriam di accendere la radio. E lei gira veloce la manopola. “Siamo in contatto con Radio Magallanes”, urla a gran voce. Dagli altoparlanti si sentono le ultime parole di Salvador Allende. Hector, Miriam, Mao e Galvarino sono ormai lontani. Le loro armi sono già al sicuro.


“…..Lavoratori della mia patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete posto in un uomo che fu solo interprete di grandi aneliti di giustizia, che impegnò la sua parola di rispettare la costituzione e la legge, e così fece. In questo momento definitivo, l'ultimo in cui posso rivolgermi a voi. Spero che impariate dalla lezione. Il capitale straniero, l'imperialismo, unito alla reazione, ha creato il clima perché le Forze Armate rompessero con la loro tradizione (...) Mi rivolgo soprattutto alla donna modesta della nostra terra: alla contadina che credette in noi, all'operaia che lavorò di più, alla madre che conobbe la preoccupazione per i figli. Mi rivolgo ai professionisti, patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la sedizione appoggiata dai collegi professionali, collegi di classe creati anche per difendere i vantaggi di una società capitalista. Mi rivolgo alla gioventù, a coloro che cantarono e donarono la loro allegria ed il loro spirito di lotta; mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a coloro che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo già da molte ore è presente con molti attentati terroristi, facendo saltare ponti, tranciando linee ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti, di fronte al silenzio di chi aveva l'obbligo di intervenire. Si sono compromessi. La storia li giudicherà. Sicuramente Radio Magallanes, sarà oscurata ed il metallo tranquillo della mia voce non giungerà a voi. Non importa mi sentirete comunque. Sempre sarò con voi, per lo meno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale alla patria. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi colpire e crivellare, ma nemmeno può umiliarsi. Lavoratori della mia patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio ed amaro, nel quale il tradimento pretende d'imporsi. Proseguite voi, sapendo che, non tardi ma molto presto, si apriranno i grandi viali alberati dai quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore.Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!...queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, almeno, ci sarà una sanzione morale per punire la fellonìa, la codardia ed il tradimento”.


Un silenzio sorprendente resta sospeso nell’aria di Santiago del Cile quando Allende ritiene di aver finito il suo discorso. Il suo ultimo appello al Paese. Poi giunge la morte, improvvisa, fulminea. Gli aerei colpiscono la Moneda, il fumo acre, i blindati dei Carabinieri si fanno sempre più pressanti, i collaboratori di Allende escono dal palazzo. Dentro al palazzo i pochi rimasti con Allende si mettono le maschere antigas, poi sparano dalle finestre. Le pallottole, le bombe, la battaglia, fino a quell’ultima parola del Presidente ascoltata dal detective David Garrido: “Allende non si arrende”. Le quattordici e un quarto. Allende si uccide con l’ultima pallottola rimasta nel suo Aka. Proprio come ha promesso ai militari infedeli. Si uccide perché non intende dargliela vinta.........

 
 
 
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