News dello Psicologo
Blog del sito www.iltuopsicologo.it inerente tutte le ultime notizie in campo psicologicoRoma, 16 set. (Apcom) - L'Ordine nazionale degli psicologi non ha dubbi: sul fronte della psicologia scolastica l'Italia è in ritardo, è rimasta il solo Paese europeo a non avere veri e propri psicologi tra i banchi di scuola.
Secondo i dati della ricerca svolta sul territorio nazionale dal Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi (Cnop) in collaborazione con gli Istituti regionali per la Ricerca Educativa (Irre), infatti, risulta che negli ultimi tre anni solo due scuole su tre hanno ospitato l'intervento di uno psicologo; che il tempo dedicato alle pratiche psicologiche è inferiore a tre mesi; inoltre manca una legge sull'inserimento della professione negli istituti scolastici. In Parlamento giacciono diverse proposte per la creazione della figura dello psicologo scolastico.
Riuniti a Roma per fare il punto sullo stato della psicologia nelle scuole, gli esperti, hanno sottolineato che la presenza di uno psicologo nelle scuole potrebbe essere la strada principale per la prevenzione e la comprensione del disagio giovanile, delle problematiche e delle patologie, oltre che degli stili di vita. Se ne parla da anni, ma ancora i risultati mancano e l'Italia è rimasta il solo paese europeo a non avere veri e propri psicologi tra i banchi di scuola.
Eppure secondo i dati raccolti dal Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi a scuola i problemi ci sono: e riguardano principalmente lo scarso impegno nello studio e la mancanza di attenzione durante le lezioni, la difficoltà di relazione che spesso si riscontra tra il corpo docente, gli alunni con necessità didattiche particolari, le difficoltà di tipo organizzativo provocate dalle continue innovazioni e riforme, infine i comportamenti aggressivi e violenti degli alunni.
L'indagine del Cnop è stata condotta complessivamente su 1.511 psicologi (di cui il 71% donne) e 1.921 scuoledistribuite su tutto il territorio italiano.
Dai risultati è emerso che nella scuola l'attenzione è orientata prevalentemente sugli alunni, seguono gli interventi rivolti ai genitori e alla scuola nella sua dimensione organizzativa. In particolare, il 37% sono attività di diagnosi legate a delle patologie, il 35% riguarda invece l'osservazione.
È la scuola media ad avere il maggior numero di tempo (60,2%) dedicato alle pratiche psicologiche, segue la scuola secondaria (58,8%), la scuola elementare (56,7%), l'Istituto comprensivo (47,4%) e, infine, la scuola dell'infanzia (43%).
"In assenza di un ruolo istituzionale riconosciuto e di chiari ordinamenti professionali in grado di regolamentare la professione - afferma Giuseppe Luigi Palma, Presidente del Cnop - l'attività psicologica nella scuola si riduce sistematicamente ad un'attività di consulenza, dimenticando le pratiche per lo sviluppo della persona, per l'educazione alla socialità e alla convivenza". "L'Italia, stando a questo quadro - conclude il presidente del Cnop - registra una grave arretratezza culturale nei confronti di quasi tutti i Paesi europei, dove esiste una legge che prevede l'inserimento dello psicologo nella scuola come figura stabile e di ruolo".
articolo completo al seguente indirizzo: http://notizie.alice.it/notizie/cronaca/2008/09_settembre/16/scuola_cnop_solo_l_italia_in_ue_non_ha_psicologi_tra_i_banchi,16085942.html
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Abbinare il sesso alla costrizione, usare corde (fossero anche foulard di seta), corsetti, manette, frustini e quant'altro, non è affatto pericoloso e, anzi, può dare addirittura più felicità di pratiche sessuali più tradizionali e meno trasgressive.
In Australia il 2% degli adulti dichiara di prendere parte a giochi sessuali con sadomasochismo, dominazione o sottomissione, per pura passione senza alcun risvolto psicanalitici (come reazioni a carenza sessuali o ad abusi subiti). Il piacere è a due: per chi è legato consiste nell'abbandonarsi totalmente al partner, per chi lega consiste nel sentire l'abbandono. In Italia mancano dati uffficiali ma in un sondaggio condotto qualche anno fa da Durex, ben 3 italiani su 10 hanno detto di utilizzare talvolta le sole manette: non bondage nel senso più tradizionale del termine, ma pur sempre una costrizione.
Stando ai risultati dello studio australiano, «bondage, disciplina e sadomasochismo (Bdsm) sono semplicemente un interesse sessuale o una sottocultura che attrae una minoranza», scrive Juliet Richters che ha coordinato lo studio. Le pratiche Bdsm sono più comuni fra gay, lesbiche e bisessuali, e i partecipanti hanno più probabilità di essere avventurosi sessualmente anche in altre maniere. «Tuttavia non hanno maggiore probabilità di essere costretti all'attività sessuale e non hanno una tendenza maggiore ad essere infelici o ansiosi». Anzi, gli uomini che vi prendono parte mostrano di essere perfino più felici, dato che registrano punteggi significativamente più bassi sulla scala del malessere psicologico, rispetto ad altri uomini.
articolo completo al seguente indirizzo: http://donna.libero.it/sotto_le_lenzuola/ne1305.phtml
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"Co-rumination". Questo il nome che alcuni psicologi americani hanno coniato poco più di cinque anni fa per indicare l'ossessiva abitudine delle donne, soprattutto le adolescenti, di parlare di tutto e per tanto tempo con le proprie amiche.
Il nome del disturbo è evocativo: ruminare infatti vuol dire masticare una seconda volta il cibo facendolo risalire dallo stomaco al rumine prima di digerirlo. Con le amiche, quindi, si tende a rimasticare per una seconda, terza, quarta volta (tendendo all'infinito) cio che è successo nella propria vita per poterlo digerire una volta per tutte. Ma è un'attitudine sana? Secondo gli psicologi non proprio. Non quando è eccessiva. Su questo oltre agli psicologi sarebbero d'accordo anche tutti gli uomini per i quali, pare, il rischio di co-rumination è sensibilmente più basso. Sono le adolescenti ad incappare più spesso in questo tipo di ossessione e dipendenza dal "parere dell'amica". "L'adolescenza è il periodo in cui per le ragazze esistono solo le amicizie e il rapporto con i pari; tendenzialmente tutti gli adolescenti preferiscono passare ore al telefono a parlare con i propri amici per poi ammutolirsi all'ora di cena quando mamma e papà chiedono come è andata la giornata", sottolinea Amanda Rose, la psicologa che ha coniato il termine "co-rumination" e che ha rilasciato un'interessante intervista al New York Times. "Il punto è che a volte questo atteggiamento sconfina nella dipendenza e nella perdita di contatto con la realtà che per tutti, ma in particolar modo per gli adolescenti, può essere molto pericolosa e può compromettere una normale socialità", continua la Rose. "In questo senso è importante il ruolo di mediazione di un adulto, che nei casi normali è uno o entrambi i genitori; talvolta però è necessario il parere di un esperto", aggiunge la Rose. "Per le donne adulte il discorso non è poi molto diverso; la tendenza a parlare tanto tra amiche è costituzionale. Sebbene non ci siano i rischi di commettere errori dettati dalla scarsa esperienza come per le più giovani, anche le donne adulte possono rimanere ingabbiate nei discorsi tra amiche e costruirsi una visione parziale e complicata del mondo", conclude la Rose.
ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:
http://it.notizie.yahoo.com/pensiero/20080911/thl-confessioni-tra-amiche-se-troppe-e-p-bd646f4.html
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Uno studio svolto in Canada dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH) per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha analizzato il profondo impatto dell’instabilità lavorativa sulla salute degli individui.
Carles Muntaner e colleghi hanno trovato una correlazione tra bassi punteggi nei test atti a valutare il benessere fisico e mentale e impiego precario in diverse forme (contratti temporanei o bassi salari e assenza di benefit) in confronto con soggetti con impiego stabile.
Secondo i dati raccolti, lo stress lavorativo è associato con un rischio di insorgenza di patologie coronariche maggiore del 50 per cento, ed esiste una notevole evidenza che i lavori caratterizzati da forti richieste, un basso livello di controllo, e uno sbilanciamento tra sforzo e remunerazione sono fattori di rischio per depressione, disturbi d’ansia e abuso di sostanze.
ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:
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Secondo un articolo pubblicato su LiveScience, però, quando i piccoli studenti trascorrono un po' di tempo senza andare a scuola è possibile che il disagio di ritrovarsi tutto a un tratto immersi «a tempo pieno» in una situazione poco famigliare si trasformi in sintomi fisici reali. L'ansia per la scuola, che interessa il 5 per cento dei piccoli americani, assale indifferentemente bambini e bambine, in special modo quelli di 5, 6, 10 e 11 anni di età: tanto più lunga è stata l'assenza dai banchi, tanto più difficile è il rientro. Così, chiaramente, la riapertura delle scuole a settembre è il momento in cui si registra il maggior numero di casi, ma il fenomeno si presenta nel corso dell'intero anno. E così il piccolo piange, chiama la mamma e vuole ritornare a casa.
A SCUOLA LO STESSO - Secondo Lori Crosby, del reparto pediatrico del Children's Hospital Medical Center di Cincinnati, a meno che non vengano identificati i sintomi di una malattia contagiosa o non sia effettivamente presente la febbre, i genitori dei bimbi in questione dovrebbero ugualmente mandare a scuola i propri pargoli. «In caso di dubbi è sempre consigliabile sottoporre i bambini a visita pediatrica», sottolinea la Crosby identificando alcune delle ragioni per cui i bambini sviluppano questa forma di malessere. Tra queste, oltre all'ansia da separazione dalla casa e dalla mamma, vi può essere il timore di essere rifiutati dai compagni, la paura di finire vittime dei piccoli bulli, preoccupazioni per qualcosa che riguarda la famiglia (mamma e papà che non vanno d'accordo), ansia per compiti e interrogazioni, problemi nell'apprendimento. In tutti i casi, i bambini devono essere supportati e aiutati, e in tal senso può valere la pena di rivolgersi a uno psicologo per un consiglio e parlare con gli insegnanti.
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In agguato c’è una vera epidemia di “autumn blues”, la “depressione d'autunno” con cui molti italiani, ma non solo loro, stanno già facendo i conti. Il nostro benessere psicofisico dipende quasi sempre dalla nostra volontà, da come ci alimentiamo, dallo stile di vita adottato, da come ci rapportiamo con l’ambiente esterno, ma esistono anche dei fattori che, pur influendo altrettanto pesantemente sul nostro organismo, non sono affatto manipolabili. Sono quelli meteorologici come l’alternanza delle stagioni, l'irraggiamento solare, le escursioni termiche, la pressione atmosferica e l’azione e la variazione dei vari agenti atmosferici.
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La felicità non è un obiettivo, ma un processo. Ed è la felicità che porta il successo, non il contrario. Lo sostengono gli scienziati Usa, che dicono di sapere come ottenerla. "I critici dicevano che la felicità non si può studiare perché non si può misurare - attacca Ed Diener, professore di psicologia presso l'Università dell'Illinois - ma questo concetto è sbagliato. Molti considerano la felicità come un obiettivo, in realtà deve essere uno strumento". "Il materialismo, poi, non è un aspetto negativo - spiega - lo diventa solo se crediamo che possa sostituire altre cose come un lavoro importante, un buon matrimonio, i figli e gli amici. Le persone iniziano a rendersi conto che quelli che considerano i soldi più importanti dell'amore hanno livelli di soddisfazione più bassi nella vita". "La felicità non significa semplicemente sentirsi bene - spiega Diener- La felicità è un bene per il soggetto e per tutta la società. Le persone felici hanno più successo, relazioni migliori con gli altri, sono più sane e vivono più a lungo". Sonia Lyubomirsky, professoressa di psicologia presso l'Uc Riverside, sostiene che solo il 50% della felicità è iscritta nei geni: il restante 40% è intenzionale, il 10% circostanziale. "Metà della predisposizione alla felicità non è possibile modificarla - spiega - Quella che resta dobbiamo crearcela da soli".
ARTICOLO COMPLETO AL SEGUENTE INDIRIZZO:
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Parliamo di «emo». Un fenomeno in origine musicale, ma che pare sia diventato ormai un'ondata culturale tra gli adolescenti, in Inghilterra e Stati Uniti all'inizio, e poi in tutto il mondo: ovviamente grazie a Internet. Che cos’è «emo»? Che cosa vuol dire? Se un non-adepto lontano qualche decennio (in termini di età) dai suoi epigoni vuole saperlo può per esempio
Stile emo secondo Wikipedia |
Il modo di vestire, a leggere l'inchiesta potrrebbe essere vagamente
Emblematica, a questo proposito, la storia di un ragazzo «emo» che avrebbe «postato» su Myspace un messaggio in cui annunciava il suo suicidio. Fatto poi che sarebbe stato confermato, e seguito da ondate di «post» di partecipazione e dolore da parte degli altri «emo», ma anche di acidissimi commenti dei «non-emo» della comunità virtuale, con toni del tipo: «Se gli piaceva quella musica spazzatura si è dato quello che si meritava». E con il forte dubbio che la storia stessa non fosse altro che uno scherzo (pare che il «suicida» si sia connesso il giorno dopo la sua «morte» per leggere i commenti al suo ipotetico gesto).
(Da Internet) |
Ma se pensate di aver capito una volta per tutte i codici dell'abbigliamento «emo», basta che diate un'occhiata a questo post scovato su una community italiana per poter socraticamente concludere che «non si sa un bel nulla».
Tuttavia, anche se la faccenda rimane misteriosa, vale probabilmente la pena anche che chi è oltre gli "anta" ne prenda almeno atto, soprattutto se si è genitore di qualche adolescente.
Non foss'altro perché «emo» sta per emo-zione, ma è anche la radice greca della parola «sangue» e, sebbene questi neo-romantici, a dispetto di accenti melanconici e predilezione per gli antidepressivi non appaiano davvero autodistruttivi, meglio essere informati.
Una prova? Basta leggere quest'altro post, scovato su un'altra community italiana, che commenta la definzione di «emo»che abbiamo riportato sopra da wikipedia
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ROMA - Colette si rifiutava di andare a scuola. Frequentava la quarta in un istituto parigino, era la migliore allieva della sua classe. "Ho telefonato alla direttrice - racconta sua madre - le ho domandato l'autorizzazione di cambiare istituto. Mi ha risposto che mia figlia doveva solo essere più forte". Colette però era sempre più spesso ricoverata in infermeria, poi un giorno ebbe una crisi di disperazione durante una lezione e minacciò di suicidarsi. È questa una delle storie raccontate in un recente articolo su "Le Monde" che descrive una paura che sembrava tramontata e che spesso viene ignorata: la fobia della scuola.
Una paura che può manifestarsi con pianti, tremori, mal di pancia e di testa, crisi di panico prima di varcare la soglia della classe. A volte sembrano capricci, incomprensibili ribellioni, crisi adolescenziali. Possono essere invece sintomi di un disagio che colpisce bambini e ragazzi, dalle prime classi fino al liceo, e che permane anche in una scuola che ha dimenticato da tempo i metodi autoritari e che ha fatto dell'accoglienza e della comprensione i suoi slogan educativi.
La fobia della scuola viene descritta per la prima volta nel 1941 dalla psichiatra americana Adélaïde Johnson, ed è stata per anni spiegata essenzialmente come conseguenza di relazioni di dipendenza irrisolte tra madre e figlio. Poi, la definizione si è allargata alla nozione di rifiuto della scuola e oggi tende ad includere le cause più svariate, come l'angoscia della separazione, la paura degli scherzi dei compagni, degli insegnanti, il timore di avere brutti voti, di deludere. "Secondo i medici che prestano consulenza tecnica per la pubblica istruzione il fenomeno sarebbe in crescita", afferma Jeanne-Marie Urcun del ministero della Pubblica istruzione francese.
Secondo gli esperti riguarda circa il 2 per cento dei bambini della scuola dell'obbligo. La fobia della scuola raggiunge dei picchi nei momenti chiave del percorso scolastico: tra i 5 e i 7 anni, all'inizio della scuola primaria, tra i 10 e gli 11 anni, all'inizio delle medie, e a partire dai 14 anni. "Quando capitano questi casi si segnalano a pediatri e psicologi ma i casi più gravi sono rari", spiega la psicologa Tilde Giani Gallino. "Prima si andava a scuola a sei anni, magari i bambini non frequentavano neanche l'asilo e molti, come anche le mamme, vivevano male il distacco. Oggi parecchie cose sono cambiate, le madri vanno a lavorare e i bambini arrivano davanti alla scuola e dicono ciao senza problemi. Per questo i casi di fobia della scuola appaiono più evidenti. Bisogna però fare attenzione che non si stia enfatizzando una nuova malattia rendendo patologico un atteggiamento che è normale o comunque risolvibile. Questo potrebbe essere un terreno vergine da medicalizzare, che farebbe l'interesse delle case farmaceutiche".
Se in Italia non è ancora allarme, in Francia è stato deciso di aprire un corso specifico per i giovani che hanno un rifiuto della scuola. "Mi sono dovuta confrontare negli ultimi anni con una domanda crescente da parte dei genitori, dei capi degli istituti e dei medici psichiatri di accogliere giovani che stavano smettendo di andare a scuola o che non erano più in grado di uscire di casa", afferma il provveditore Françoise Le Mer, che ha deciso di aprire un corso specifico con il sostegno dell'Accademia e della fondazione per la Salute degli studenti di Francia per tutti quelli che hanno paura della scuola, la rifiutano, soffrono in classe senza un apparente perché. "Sono tutti degli alunni eccellenti che erano sottoposti a una pressione troppo forte o che si annoiavano".
(15 febbraio 2007)
- fonte www.repubblica.it
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Tristi, senza capire nemmeno il perché, e sotto pressione: così si sentono le teenager inglesi che, mentre sfogliano le riviste o navigano sui siti web, inciampano in continuazione in immagini e stimoli che evocano uno stile di vita ed estetico che genera insoddisfazione e inadeguatezza. Lo sostiene uno studio britannico promosso dalla Girlguiding britannica e dalla Mental Health Foundation: il bombardamento mediatico sulla chirurgia plastica e i modelli sessuali cui sono sottoposti gli adolescenti è causa di stress e disagio soprattutto tra le ragazze. Le giovanissime sentono di dover crescere troppo in fretta e il risultato è un'eccessiva vulnerabilità. E la parte del leone nella frustrazione dilagante è ancora una volta interpretata dall'ideale di magrezza eccessiva e di corpo perfetto.
ADOLESCENZA – L'adolescenza è un'età notoriamente irrequieta, durante la quale si attraversano picchi emotivi e si scopre il tormento esistenziale. Ma è pur vero che è una fase della vita di grande vitalità e spensieratezza, nel corso della quale c'è una fame di vita e di esperienze difficilmente ripetibile. Eppure sempre più ragazzi, prima ancora di varcare la soglia dei sedici anni, si sentono depressi e poco motivati. E questo non è normale. L'argomento è inflazionato, ma dolorosamente vero, e trova un'ulteriore conferma in un sondaggio a cui hanno partecipato 350 adolescenti di 4 differenti categorie sociali e culturali.
LA RICERCA – L'inchiesta, dall'evocativo titolo «Generation Under Stress?» (Generazione sotto stress?), sottolinea che due ragazze su cinque, subito dopo aver letto una rivista o dopo aver visitato un sito, avvertono un senso di ansietà e di depressione generato dal non sentirsi pronte al mondo che le aspetta. La cultura della taglia zero, così come viene chiamata dagli esperti, partorisce un modello pericoloso e ancora una volta inneggiante all'anoressia, e il consumismo che aleggia intorno a gadget irrinunciabili come l'iPod o l'ultimo modello di cellulare è responsabile di un grande disagio. Infine, a conferma di un triste clima di incertezza, il 74 per cento delle teenagers si sente in pericolo.
LE CIFRE – I numeri di questo disagio sono inquietanti: il 42 per cento delle giovanissime tra i 10 e i 14 anni è stato oggetto di offese o prevaricazioni, il 32 per cento ha un amico/a che soffre di disordini alimentari e la metà di loro conosce qualche coetaneo che soffre di depressione. Infine, per le giovani donne e per le ragazzine è normale avere comportamenti autolesionisti. Secondo il dottor Andrew McCulloch, amministratore delegato della Mental Health Foundation, il fenomeno non è da imputare solo alla qualità dell'informazione e dell'intrattenimento, ma anche alla prematura esposizione di molte pre-adolescenti a stimoli che non le dovrebbero riguardare. La generazione di oggi viene sottoposta a input adulti quando ancora non è pronta per assorbirli, né fisicamente né psicologicamente, e la risposta è uno stato di tristezza e di confusione che ostacola un corretto sviluppo. Il danno alla crescita emotiva è altissimo: difficilmente quelli della generazione sotto stress potranno diventare adulti felici e i media hanno delle grandi responsabilità.
Emanuela Di Pasqua
14 luglio 2008(ultima modifica: 21 luglio 2008)
fonte www.corriere.it
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LA vendetta potrà anche essere dolce, ma il perdono alla lunga è molto meglio. Se ne sta accorgendo anche la scienza, che dedica sempre più studi ai benefici psicologici e fisici che si innescano quando si smette di provare risentimento, rancore, rabbia, sostituendoli invece con sentimenti positivi.
Perdonare, arrivando ad augurarsi il bene di chi ci ha fatto soffrire, si traduce in un calo della pressione, minori sintomi depressivi e un senso di benessere generale. Un balsamo non solo per l'anima, quindi, ma anche per il corpo. Ne è convinto uno dei guru della nuova "scienza del perdono", lo psicologo Robert D. Enright dell'Università del Wisconsin, ma la tendenza è in atto già da una decina d'anni, durante i quali - riferisce il Los Angeles Times - i ricercatori hanno ammassato una discreta mole di dati sugli effetti terapeutici di quella che finora è stata considerata più che altro come una virtù insegnata dalla religione o tutt'al più un arte per pochi eletti.
Per chi ha subito uno sgarro o un vero e proprio trauma - compresi casi estremi come la violenza fisica, l'assassinio di un familiare, le mutilazioni dei conflitti etnici - pensare di andare oltre, superare il dolore augurandosi la felicità del proprio aguzzino, può suonare improbabile o essere vissuto come una provocazione. Eppure, sostengono gli scienziati, è questa la chiave per diminuire il rischio di sviluppare malattie cardiache e disturbi mentali scatenati dal ricordo ossessivo di cosa ci ha fatto male.
Proprio come correre o giocare a tennis, il perdono è qualcosa che si può imparare allenandosi: ci sono corsi specifici, in cui si comincia a stare meglio anche dopo poche sedute. Pioniera in questo campo è stata l'équipe dello psicologo Loren Toussaint della Luther University di Decorah, in Iowa, che per prima ha stabilito un nesso fra la salute e la propensione al perdono. Uno loro studio nazionale, pubblicato nel 2001 sul Journal of Adult Development, mostrava che solo il 52 per cento degli americani dicevano di essere riusciti a perdonare chi aveva fatto loro del male. Ma fra questi, quelli che avevano 45 anni o più, godevano di miglior salute rispetto agli altri che non erano riusciti a perdonare.
Gli scatti d'ira aumentano il rischio di aritmie, attacchi cardiaci e causano un aumento della pressione sanguigna, spiega al Los Angeles Times il dottor Douglas Russell, cardiologo, che in uno studio del 2003 ha documentato come dopo sole 10 ore di "corso di perdono" le funzionalità coronariche dei pazienti già migliorassero.
Il campo è in evoluzione ed ha suscitato molto entusiasmo; eppure l'insistenza sul superamento felice del trauma ad ogni costo non convince tutti. A volte, come nel caso delle vittime dell'incesto, parlare di perdono può essere troppo, sostiene Linda Davis, a capo della associazione Survivors of Incest Anonymous: "arrivare ad una forma di accettazione è già abbastanza. Il perdono è un di più, non è necessario raggiungerlo". Non solo. Qualcuno fa anche notare che se il perdono arriva troppo facilmente, potrebbe nascondere ben altro, come un senso di colpa che porta la vittima ad assolvere gli altri prendendo su di sé la responsabilità di una violenza: atteggiamento tutt'altro che terapeutico.
In uno studio su pazienti che hanno contratto l'Hiv Lydia Temoshok, dell'Istituto di virologia umana dell'Università del Maryland, ha identificato in modo specifico questa tipologia di pazienti, che ha classificato come "C". Se il tipo "A" è arrabbiato e può andare incontro a problemi cardiaci a causa della propria ira e il tipo "B", invece, riesce ad avere uno stato di salute migliore degli altri perché affronta la malattia nel modo giusto, il tipo "C" nega i problemi e sopprime i propri reali sentimenti: proprio quest'ultima categoria va incontro ad una maggiore possibilità di sviluppare l'Aids e il melanoma per lo stress eccessivo in cui vive e cui sottopone il proprio sistema immunitario.
(3 gennaio 2008)
di Alessia Manfredi fonte www.repubblica.it
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ALECTOFOROFOBIA È la paura del pollame, ovviamente molto più diffusa dallo scoppio dei primi casi di aviaria. La parola viene dal greco «alektoris», gallina. ANUPTAFOBIA È il terrore di restare «single», da «nupta» sposa in latino con «a» privativo. BIOFOBIA È il timore di catastrofi ecologiche e di nuove epidemie. Terrori «classici»: la Bse (Encefalopatia spongiforme bovina); l’influenza aviaria; il timore di alimentarsi con gli Ogm; la paura di eventi come lo «tsunami» o di uragani come «Katrina» e delle conseguenze del buco dell’ozono. CYBERFOBIA Paura di tutto ciò che ha a che fare con i computer. EUROFOBIA È nata dopo l’euforia per l’unificazione europea. È caratterizzata dal senso di perdita e dalla sensazione di dover condividere qualcosa con Paesi di cui in precedenza si era solo sentito parlare. ISLAMFOBIA Nasce dal timore che l’Islam si appresti a conquistare il mondo sconvolgendo il nostro stile di vita. QU’IDAFOBIA È il timore di essere vittime di attentati compiuti dai terroristi di Al-Quaeda guidati da Osama bin Laden. PAUPEROFOBIA È la paura di sembrare poveri e non è assolutamente in relazione con il conto in banca. Obbliga a confrontare continuamente ciò che si ha e ciò che hanno gli altri. Vizia le regole sociali e famigliari. Costringe spesso a comprare prodotti che non ci si possono permettere. Il termine viene da «pauper» , povero in latino. PROSOFOBIA È il timore del progresso sociale. Viene dal greco: «proso», che significa: io vado avanti. QUASIMODOFOBIA È la preoccupazione eccessiva per il proprio aspetto, alla base di certi eccessi della chirurgia estetica. Il termine deriva dal Quasimodo, il campanaro gobbo, di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. SAMHAINOFOBIA È la paura di Halloween, deriva dall’antica parola irlandese «samhain», fine dell’estate. SINOFOBIA Consiste nell’interesse morboso e nella paura per tutto quello che succede in Cina. 05 novembre 2006 fonte www.corriere.it |
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Non aver paura delle fobie Grande rilievo è stato dato nei giorni scorsi, in seguito a un servizio pubblicato da «Time», a un sito Internet dove compare l' elenco di 500 forme di fobia. La faccenda è curiosa e quindi fa notizia, tuttavia la lista di quel sito (www.phobialist.com) contiene cose come la siderofobia (la paura delle stelle) o la suocerofobia (si commenta da sola) che nulla hanno a che fare con le fobie; senza contare l' inserimento della fotofobia che, nonostante il nome, niente c' entra con le fobie, trattandosi di un' avversione alla luce tipica di chi ha disturbi organici come una congiuntivite oppure un' emicrania. Ma che cosa sono, allora, le fobie? Sono disturbi psichici comuni; molti di noi convivono con le fobie senza aver mai pensato di soffrire d' una patologia: nella maggioranza dei casi, infatti, il fobico non si rivolge né allo psichiatra né al medico di famiglia. Eppure, parecchie sarebbero le possibilità di cura delle fobie, come hanno indicato di recente due psichiatri, Isaac Marks dell' Institute of Psychiatry di Londra e Reuven Dar del Department of Psychology della Tel Aviv University, in un articolo apparso sul «British Journal of Psychiatry». Psicoterapia comportamentale, cognitiva e tecniche di rilassamento sono tutte efficaci per superare queste avversioni esagerate. Vediamo, allora, di capire meglio di che cosa si tratta. Fino a qualche anno fa, per indicare le fobie gli psichiatri parlavano di «fobia semplice» e con questo termine il disturbo era indicato nel Manuale diagnostico e statistico dell' American Psychiatric Association, la bibbia della nosografia psichiatrica internazionale. Nella versione successiva di questo manuale si parla invece di «fobia specifica» e questo è il termine in uso. Il cambiamento è avvenuto per uniformare la dizione a quella presente in un' altra classificazione, la Classificazione internazionale delle malattie diffusa soprattutto in Europa. Si distinguono cinque diversi tipi di fobie. Vediamole una per una. Animali Alcuni animali sono oggetto di fobie più di altri e in cima alla lista ci sono certamente serpenti, insetti, uccelli, topi, gatti e cani. Tra gli insetti sono soprattutto i ragni a far paura e infatti per questa fobia esiste un termine preciso che è aracnofobia. È possibile che tali fobie siano un residuo dei tempi in cui l' uomo viveva a stretto contatto con l' ambiente naturale e questi animali rappresentavano una minaccia reale. Da tenere presente che durante l' infanzia può manifestarsi un timore verso alcuni animali che non necessariamente permarrà nell' adulto. Le fobie verso gli animali sono molto più frequenti tra le donne, mentre non si rileva una particolare tendenza familiare. Di solito si tratta di una fobia che non interferisce molto con la vita di chi ne soffre. Ambiente naturale Lampi, tuoni, vento, oscurità possono essere oggetto di fobie che rientrano nella grande categoria dell' ambiente naturale. Chi ne soffre può essere costretto a restare in casa quando l' evento naturale temuto è in arrivo. Questa condizione viene vissuta con angoscia e alla continua ricerca di figure di riferimento che possano svolgere un ruolo protettivo. Anche per questo tipo di fobie è valido quando detto prima sull' origine ancestrale. Sangue e ferite Una certa avversione verso l' esposizione alle ferite proprie e altrui è molto diffusa, tanto da poter essere considerata naturale. Si tratta di un timore frequente durante l' infanzia, ma questa è anche l' epoca della vita durante la quale si sviluppano le vere fobie che poi persisteranno nell' adulto. Questa fobia ha una peculiarità: chi ne soffre può reagire con ridotta frequenza cardiaca e abbassamento della pressione arteriosa, presupposto di una crisi lipotimica, in altre parole, uno svenimento. Accade esattamente il contrario di ciò che succede di norma nelle altre fobie, per le quali l' esposizione all' oggetto temuto provoca aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa. Nel 70 per cento dei casi, chi ne è affetto ha almeno un genitore che soffre dello stesso disturbo. Situazioni a rischio Si tratta del timore di trovarsi in situazioni vissute come potenzialmente pericolose, ad esempio andare in aereo, in automobile, in treno, in ascensore, ma anche trovarsi in luoghi chiusi o troppo aperti. Un tipo di fobia manifestatosi di recente è la fobia dello spazio: chi ne soffre teme di cadere quando si trova a non avere appoggi o sostegni vicini, come una parete o una sedia. Sembra che questa condizione abbia una precisa base organica costituita da un' anomalia funzionale dell' emisfero destro che causa un deficit visuospaziale. Altre cause È una categoria residua, nella quale finiscono tutte le fobie che non possono rientrare nelle categorie precedenti. Esempi sono l' evitamento fobico di situazioni nelle quale vi è un (anche remoto) rischio di restare soffocati, di vomitare o di contrarre una malattia. DANILO DI DIODORO DIAGNOSI Semplice avversione o patologia? I criteri per distinguerle D ato che quasi tutti hanno una repulsione verso qualche oggetto o situazione, come si fa a capire quando di vera fobia si tratta? Ecco alcuni caratteri distintivi che dovrebbero far pensare a un vero e proprio disturbo psicologico. L' esposizione, o anche solo l' attesa dell' esposizione, a un oggetto temuto provoca una condizione di paura marcata e persistente, che spesso la persona stessa riconosce essere eccessiva e irragionevole. Nei bambini l' ansia provocata dall' oggetto temuto può manifestarsi anche solo piangendo, con scoppi d' ira o irrigidimento, oppure aggrappandosi a una figura di riferimento, come un genitore. La situazione o l' oggetto sono accuratamente evitati, oppure sopportati, ma a prezzo di un' elevata ansia o di un estremo disagio. Questo evitamento può interferire in maniera significativa con le normali abitudini di vita. Molte persone affette da forme non gravi di fobia, convivono senza troppe difficoltà con questo loro problema, almeno fino a quando l' evitamento dell' oggetto temuto non va a intralciare troppo la loro normale esistenza. NOTEXT Cosa c' è all' origine di questi timori esagerati M a da dove vengono le fobie? Per molti anni si è dato credito a una complessa ipotesi psicoanalitica sull' origine delle fobie, fondata sulla convinzione che l' ansia sperimentata fosse una specie di segnale di allarme dovuto a una spinta inconscia proibita che premeva per potersi esprimere a livello dell' Io cosciente. Oggi questa ipotesi non trova più molto credito, mentre, più pragmaticamente, si tende a dare importanza ad altri fattori. Uno di questi è la tendenza al crearsi di un accoppiamento tra un oggetto o una situazione specifica e le emozioni di paura e panico. Si è ipotizzato che alcune persone potrebbero avere una tendenza di base ad avvertire paura o ansia; su questa predisposizione si svilupperebbe facilmente un accoppiamento con specifiche situazioni, ad esempio un animale, un mezzo di trasporto, che è stato causa di un' esperienza emozionale negativa, anche se non particolarmente grave. Un altro possibile meccanismo alla base delle fobie è il cosiddetto modellamento: una persona tendente alle reazioni d' ansia assiste a una reazione fobica di un' altra persona (spesso significativa affettivamente) e, per così dire, la fa sua. Altre volte la fobia può svilupparsi per l' esagerata identificazione con un avvertimento: ad esempio, una persona, più spesso un bambino, messa in guardia contro alcuni insetti, può introiettare talmente l' avvertimento da allargarlo fino a sviluppare una vera fobia anche verso insetti di per sé innocui. Per guarire Fai amicizia con i tuoi terrori L ' elemento di fondo della psicoterapia delle fobie è la cosiddetta desensibilizzazione. E' una tecnica di tipo comportamentale che consiste nell' esposizione programmata e graduale all' oggetto della propria fobia, alla presenza del terapeuta, che nello stesso tempo insegna alla persona alcune tecniche per il controllo dell' ansia. Spiegazioni Alla desensibilizzazione può essere aggiunto un approccio di tipo cognitivo, basato sul rinforzo della consapevolezza che la situazione temuta non comporta rischi reali. Il terapeuta quindi spiega alla persona affetta dalla fobia che lo stato di allarme provato non è giustificato, con l' obiettivo di giungere a una vera e propria ristrutturazione cognitiva, fino al punto in cui l' associazione automatica oggetto temuto-stato di allarme viene smontata. Per la fobia per il sangue, gli aghi e le ferite, piuttosto comune, alcuni terapeuti allenano i loro pazienti a contrarre l' intero corpo durante l' esposizione all' oggetto temuto, e a restare seduti, per contrastare la tendenza allo svenimento tipica di questo tipo di fobie. Rilassamento Le tecniche di rilassamento che hanno dimostrato di essere utili sono basate su un generale acquietamento delle funzioni fisiologiche, ma anche sull' allenamento a riconoscere le proprie reazioni, e quindi a controllarle. In questo caso non vi è esposizione diretta all' oggetto temuto né ristrutturazione cognitiva, ma soltanto lo sviluppo di nuove forme di autocontrollo. Farmaci Sebbene non esistano specifici farmaci per ogni situazione fobica, diverse sono le molecole che sono state sperimentate con qualche successo, così che in realtà oggi non è detto che si debba contare solo sull' apporto della psicoterapia. Discreti risultati sono stati ottenuti, ad esempio, con farmaci appartenenti alla categoria dei beta-bloccanti, come l' atenololo e il propanololo.
Di Diodoro Danilo
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(20 maggio 2001) - Corriere Salute
fonte www.corriere.it
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A Roma sperimentata la pet-therapy per la cefalea nei piccoli, con buoni risultati anche a lungo termine |
Un pony, un pastore maremmano, maialini cinesi, 150 uccelli di diverse specie, una capretta, 4-5 criceti nani, 20 conigli che scorrazzano su 1500 metri quadri arricchiti da alberi ad alto fusto. Sono questi i «dottori» del «reparto di "pet therapy", la «terapia dei cuccioli», utilizzati dagli specialisti (umani) dell'ospedale San Carlo Nancy, di Roma, per curare il mal di testa nei bambini. La cura coi cuccioli sarebbe capace di dimezzare la durata e la frequenza degli attacchidi mal di testa nei bambini, con risultati che perdurano anche a distanza di anni. Lo dicono i primi risultati a lungo termine su un campione elevato di piccoli pazienti della pet therapy contro le cefalee dei bambini. A renderlo noto è Davide Moscato, neuropsichiatra, direttore del centro cefalee infantili del San Carlo di Nancy, Roma. «Mediamente durata e frequenza degli attacchi si sono ridotte di oltre il 50% dopo un ciclo di terapia» ha dichiarato l'esperto. «Per molti di loro, 260 bambini dai 5 ai 17 anni, gli attacchi sono addirittura scomparsi. Il tutto nell'arco di sei mesi, senza l'uso di farmaci, ma solo con 20-25 sedute di 1,5 ore ciascuna in gruppi di 8 bambini con lo psicoterapeuta. Il dato interessante è che gli effetti della pet therapy perdurano a lungo termine, anche quando non vengono più alla fattoria». «Abbiamo trattato anche circa 30 adulti con mal di testa con buoni risultati», anche se gli adulti siano più restii a sottoporsi alla pet therapy». PROGETTI FUTURI - E in attesa che la fattoria-ospedale allarghi il proprio recinto, ci sono nuovi ambiti di intervento della pet therapy nell'ospedale romano: «abbiamo iniziato ad utilizzarla su bambini con patologie psichiatriche, forti ansie, depressioni, fobie, iperattività e deficit d'attenzione (Adhd), autismo. 09 maggio 2007 |
fonte www.corriere.it
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E adesso chi glielo dice ai napoletani che oltre ai mille angeli della monnezza che arriveranno in città a giorni, Guido Bertolaso ha bussato alle porte della federazione psicologi per i popoli per arruolare 300 psicologi che scenderannoa Napoli nei mesi luglio, agosto e settembre?
Il verbo scendere non è casuale. Psicologi per i popoli (il bando per Napoli è visibile nel sito www.psicologiper ipopoli.it) rappresenta le associazioni di volontariato degli psicologi delle regioni Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige,Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Lazio.
Tutte al centro-nord, dunque. Le regole d'ingaggio sono semplici.
I volontari saranno «naturalmente ospitati, vitto e alloggio compresi, presso la logistica che sarà allestita in apposite aree di Protezione Civile». E fin qui nulla di strano.
Quella che solleverà inevitabili discussioni è la motivazione che ha indotto Guido Bertolaso a coinvolgere questo piccolo esercito di studiosi delle mente umana. Spiega nel sito il responsabile dell'associazione, Angelo Ranzato: «Non si tratta di sostituire i netturbini nella raccolta dei rifiuti, ma di partecipare alle iniziative informative, culturali e di sensibilizzazione che accompagneranno l'avvio della raccolta differenziata presso la popolazione». Insomma, c'è bisogno dei discepoli di Sigmund Freud per far digerire la raccolta differenziata ai napoletani? Noi sappiamo soltanto che la proposta degli angeli della monnezza, lanciata da questo giornale e ripresa dal premier Silvio Berlusconi durante la conferenza stampa dello scorso 11 di giugno, è stata bollata come «scandalosa» da tutta l'intellighenzia partenopea, a partire da Mirella Barracco, gran cerimoniera del rinascimento napoletano: «La storia dei volontari che passano il Garigliano e vengono a fare i missionari a Napoli facendosi fotografare su una montagnola di monnezza non riesco proprio a mandarla giù».
Di rincalzo agli angeli, passeranno il Garigliano gli psicologi della monnezza, che già la settimana scorsa si sono riuniti in gran segreto a Bologna per mettere a punto lo sbarco napoletano. Il requisito minimo per partecipare è la laurea triennale in psicologia.
Forse un po' poco, ma evidentemente è necessario allargare il raggio degli arruolandi. «A fronte di 65mila iscritti e decine di migliaia di laureati in formazione, ci saranno 300 volontari psicologi per questa mobilitazione eccezionale?», si chiedono un po' retoricamente i responsabili di psicologi per i popoli? La chiusa, però, è ancora più rivelatrice: «Se pensi di poter essere tra questi 300 coraggiosi invia la tua adesione con i tuoi dati a psicologivolontari@gmail.com». Riusciranno i nostri «coraggiosi» eroi a somministrare ai riottosi napoletani le regole basiche della raccolta differenziata?
Dimenticavamo: a quando il sito «psicologi per la differenziata»?
Mariano Maugeri
FONTE www.ilsole24ore.it
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Shopping, internet e palestra se l' ossessione diventa schiavitù
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Repubblica — 05 dicembre 2004
fonte www.repubblica.it
vedi anche http://www.iltuopsicologo.it/dipendenza%20da%20gioco.asp
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Modena - Aveva letto apprezzamenti su internet rivolti al suo ragazzo. E aveva alzato la voce con una delle autrici di quelle avances esplicite: «sei bellissimo... noi siamo libere...». Sembrava che tutto fosse finito lì. Una storia di gelosie tra adolescenti, ma non è andata così. La studentessa è stata aspettata fuori da scuola da un gruppetto di ragazze ed è stata presa a calci e pugni. Tanto da essere costretta a ricorrere alle cure del pronto soccorso dell'ospedale della cittadina della Bassa Modenese.
L'ennesimo caso di bullismo a scuola, che in questa fetta d'Emilia arriva tra l'altro a poca distanza dalla pubblicazione di una indagine effettuata tra le scuole Medie di tre Comuni vicini, che dice che il fenomeno non è solo maschile, ma c'è anche un 32,2% di ragazze vittime che dichiara di esserlo per mano delle proprie coetanee.
Ed è esattamente quello che è accaduto a una studentessa quindicenne, residente nel Mantovano, e iscritta alla prima classe dell'istituto tecnico Luosi di Mirandola. La ragazza, martedì scorso, è stata accerchiata e poi picchiata da un gruppo di otto studentesse, dopo che aveva affrontato una di loro per avvertirla di lasciare stare il fidanzatino. «Le hanno tirato i capelli fino a strapparglieli, poi l'hanno presa a calci e pugni, apostrofandola con brutte parole davanti a tutti», ha raccontato un alunno del Luosi che ha assistito come altri all'aggressione. «E nessuno di loro ha avuto il coraggio di intervenire, di difenderla. Nessuno che abbia chiamato il personale della scuola o il 113. Questi ragazzi sono pronti a fare i filmati con i telefonini, poi scappano o chiudono gli occhi quando accadono queste cose...», accusa un gruppo di genitori.
Dalla famiglia della studentessa vittima dell'aggressione e da parte dell'istituto Luosi non partirà nessuna denuncia. Nessun esposto. «L'aggressione si è svolta all'esterno della scuola, nel vialetto di passaggio. I genitori dell'alunna hanno espresso la volontà di non denunciare le responsabili della violenza - ha fatto sapere la prof. Maria Cristina Mignatti, la preside a capo di entrambi gli istituti e che formano con l'altro istituto Galilei, un polo scolastico frequentato da oltre duemila studenti -. Ma posso assicurare che la nostra linea di condotta sarà ancora più dura. È tempo di tolleranza zero».
A scatenare l'ira delle «bulle» alcuni commenti anonimi rivolti al fidanzatino della quindicenne che frequenta il Luosi e apparsi on line. La vittima dell'aggressione aveva attribuito quelle avances online («sei bellissimo...», «sono libera...») a una studentessa del secondo anno proprio del vicino «Cattaneo», che la coppietta di adolescenti aveva incontrato alcuni giorni prima in una discoteca. La ragazzina, allora, aveva affrontato la sua rivale invitandola a stare alla larga dal fidanzato e questa, dopo aver respinto le accuse, martedì scorso l'ha aspettata all'uscita dalla scuola. E con un gruppetto di altre sette amiche le ha teso una imboscata picchiandola con calci e pugni.
Sotto choc, la vittima è stata poi costretta a fare ricorso alle cure del pronto soccorso raccontando l'accaduto ai genitori al ritorno a casa. Identificate le «bulle» sono state convocate con i rispettivi genitori dalla preside che, comunque, non potrà prendere nei loro confronti alcun provvedimento visto che l'aggressione è avvenuta fuori dagli istituti scolastici. Il tutto a distanza di pochi mesi da una indagine condotta tra 1242 alunni dagli 11 ai 14 anni d'età che frequentano però le scuole Medie dei vicini Comuni di Carpi, Campogalliano, Novi e Soliera che evidenzia l'ascesa del bullismo. Un fenomeno che aumenta con l'età degli alunni: si passa infatti dal 7,8% di bulli delle classi prime al 15,2% delle classi terze. Con gli alunni stranieri che ne sono vittime più di quelli italiani.
fonte www.ilgiornale.it
vedi anche articolo: http://www.iltuopsicologo.it/anche_le_pupe_diventano_bulle.asp
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