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Il pensiero porta l'uomo dalla schiavitù alla libertà

Creato da Enrico.rega il 25/03/2009

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Scrivo di getto

Post n°15 pubblicato il 01 Aprile 2009 da Enrico.rega

 

 

Inizialmente, come tutti, pensavo dipendesse da me, da una qualche causa ignota e remota del mio inconscio.

Quando si prova questa sensazione il primo capo di imputazione è sicuramente il proprio io, senza precisamente saper stabilire bene cosa, ma nel mio io c’è qualcosa che non va. E’ l’esame di coscienza il primo inevitabile passo, l’analisi dei propri sensi di colpa e delle proprie responsabilità.

Oltretutto, non nego che si tratti di un percorso sicuramente costruttivo, attraverso cui cogliere e carpire il senso di molti stati d’animo.

Ma la frustrazione, a volte, nonostante questo percorso introspettivo giunga ad una conclusione razionale, resta forte e colora di paura e ansia ogni giornata.

Un senso di frustrazione che scaturisce da quel sentimento di impotenza e di paralisi in cui ci si trova come naufraghi su una zattera colpita da onde di tempesta in mezzo all’oceano, dove non è che si può far tanto se non aggrapparsi saldamente e sperare nel miracolo di risvegliarsi su una spiaggia .

Allora mi domando una cosa: se tutto ciò, nonostante le mie assolutamente importanti ed innegabili responsabilità, non dipendesse anche da qualche fattore esterno, al di fuori del mio io, che fino ad oggi magari ho sottovalutato.

Perché non è possibile che, vinti i propri sensi di colpa, e fatto pace con l’altalenante barcamenarsi della propria coscienza, questo senso di frustrazione persista con forza dentro di me. Comincio, quindi, a guardare il mondo esterno sotto un altro punto di vista, con lo sguardo curioso di chi cerca di scorgervi un segno, un indizio qualsiasi. Ma è tanto tempo, ormai, che questo atteggiamento di osservazione dei fenomeni esterni ricopre gran parte delle mie giornate e, purtroppo, la conclusione a cui sono giunto non è che mi rincuori molto. Ora, beninteso che questa sia solo una scrittura istintiva, vorrei dire che forse debba essere intesa proprio in tal senso e cioè senza soffermarsi troppo su quanto venga affermato e ricercando un senso complessivo e finale all’intero discorso. E quindi, se affermo che intorno a noi esistono delle gabbie enormi, attraverso le quali, esposti al mondo esterno, percepiamo di esso non più di quanto ci vienga concesso, immagino si tratti di un discorso di un profondo pessimismo, ma che nessuno può realmente e assolutamente negare. Se affermo che, l’uomo nasce, o meglio, nasceva in libertà, viveva in libertà, cresceva, maturava e moriva in libertà, amava in libertà, parlava in libertà, quanti di voi possono negare questo? Quanti di voi possono affermare che quel passato prossimo usato nel verbo “nasceva” sia decisamente errato se analizzato e ragionato con gli occhi rivolti al futuro. Quanti di voi possono concretamente affermare di vivere al di fuori di schemi e sistemi, al di fuori di gabbie trasparenti, e poter esprimere tutta la propria personalità senza dover modificare nulla di sé stessi o senza vedersi privare di qualcosa?

Giusto ieri pensavo ad una cosa: mi domandavo, in un momento di assoluta meditazione, quanto tempo fosse che il mio sguardo non incrociasse un altro sguardo per qualche attimo e, da quello sguardo, giusto in quell’attimo poter cogliere più di quanto ogni parola fosse capace di trasmettere. Quanto tempo è che non mi capita di essere rapito da uno sguardo? Eppure, mi accorgo, che il mio sguardo è sempre rivolto verso quello altrui e gli occhi sono la prima cosa che vado istintivamente a cercare. E quando capita di incrociare l’altrui sguardo, questi inevitabilmente lo rivolge altrove, in alto, in basso,  di lato. Purché io non possa essere in grado di leggervi attraverso.

Ora, questo, non è così lontano da quanto ho affermato in precedenza e con il discorso di vivere all’interno di gabbie,  ma mi viene in mente che spesso l’uomo non sia capace di esprimere la propria personalità, temendo per un qualsiasi motivo anche il semplice fatto di incrociare lo sguardo di un’altra persona, per paura che questa possa leggervi attraverso e ho paura e temo davvero che questo avvenga perché si abbia paura del prossimo. E quando si vive all’interno di un sistema in cui ci si chiude nella propria sfera, nella propria gabbia, e non ci si rivolge al prossimo neanche con uno sguardo, come si può pensare di poter vivere in una libertà maggiore rispetto a quella che ci si è concessa? Se l’uomo si è pian piano chiuso in sé stesso, nei suoi modelli, nei suoi stereotipi che altro non sono che la proiezione delle proprie paure, come può pensare di allearsi e far branco con gli altri membri del proprio gruppo di appartenenza sociale e di specie, per poter dar sfogo al suo pieno intelletto? Perché l’uomo ha smesso così improvvisamente di associarsi, di discutere, di crescere con i suoi simili? Perché ha perso la passione verso l’arte della cultura, della politica - nel suo senso di arte di governo - e piuttosto ha iniziato ad utilizzare la politica nel suo più claustrofobico senso di chiusura e allontanamento, di scissione e separazione?  Viviamo all’interno di gabbie, viviamo sulla stessa terra, ma su pianeti separati, dove ognuno ritaglia il proprio piccolo enorme spazio fatto di congetture e pregiudizi verso il prossimo e dove l’egoismo per il proprio spazio è quanto di più caro abbiamo e difendiamo. Senza capire il vero senso per cui siamo qui, ora e insieme e stiamo perdendo l’appuntamento con la vita e con la libertà. Di cui nessuno può privarci. Anche una semplice libertà come quella di cogliere uno sguardo.


                                                                                                              Enrico Regaiolli

 

 
 
 
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