Creato da nonnobizzarro il 06/10/2006
Diario di Viaggio
 

 

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Nello stereo suona Making Plans for Nigel.

Post n°48 pubblicato il 29 Dicembre 2007 da nonnobizzarro
Foto di nonnobizzarro

La versione bossa nova dei Nuovelle Vague. La voce sottile della cantante ondeggia come gli ammortizzatori scarichi della tua Mercury, la marimba in sottofondo va al ritmo dei tiranti di acciaio che scorrono nel finestrino e che ti tengono sospeso sull’acqua. Sei sul Manhattan bridge.

Il sole brucia sull’acqua del fiume e i fumi delle fabbriche si confondono con le nuvole. Un vento impietoso spira dal mare e, infatti, fuori dalla tua auto sportiva fa freddo. E tuttavia dentro l’abitacolo tutto è calmo, perfetto, di una calma sudamericana. Complice la manopola del riscaldamento che hai girato violentemente in senso orario. Non pensi a nulla, segui la strada. Tutto sembra semplice. Non ci sono scelte. Solo Flatbush Avenue che ti attende.

Svolti a destra su Atlantic Avenue e mentre negli occhi ti scorrono i Co-Op di mattoni rossi di Bed-Stuy, quelli in cui Spike Lee ha ambientato Fa la cosa giusta. Ti sorprendi di non vedere gente di colore per i marciapiedi, forse il quartiere è stato ripulito dalla cura Giuliani. Che forza questi repubblicani. Tolleranza zero. O forse, più probabilmente, gli abitanti del quartiere sono tutti chiusi in casa per via del freddo che fa.

Svolti a sinistra. Washington Avenue. Ai lati della strada, altre casette in mattoni rossi. Un tempo si potevano comprare a pochi dollari. Alcune venivano vendute per appena un dollaro. Bastava prometter al comune di farsi carico della ristrutturazione. Tuo zio Eddie ne aveva acquistate alcune negli anni settanta, ma poi le ha date via per saldare un debito contratto con la malavita organizzata (ma questa è un'altra storia).

Oggi quelle stesse case che un tempo lo stato di new York ti tirava appresso, vengono comprate da grandi società immobiliari, sventrate, trasformate in loft prestigiosi per artisti bianchi, possibilmente ebrei, e rivendute a milioni di dollari. Riqualificazione la chiamano.

Quando finalmente arrivi a Downing Street ti accorgi di star sorridendo. Non sai perché.

Fai manovra. Parcheggi. Scendi dall’auto. Ti allacci la giacca a vento. T’infili i guanti. Metti il tuo adorato cappello di pelo e finalmente alzi lo sguardo. Eccola: Broken Angel.

Fantastica. Pensi che ha avuto senso arrivare fino a lì anche se durante il tragitto il tuo cervello è stato invaso (come al solito) da George W. Bush, da suo padre e dall’incomprensibile politica estera dei “neocon” repubblicani.

Broken Angel non è un locale alla moda, non è un bar destrorso e non è un teatro alternativo. È un fabbricato. Un’abitazione. Una casa. Dentro ci vivono due vecchietti di nome Arthur e Cinthia. Arthur e Cinthia sono marito e moglie e vivono lì da un bel po’ di tempo. Dagli anni settanta per la precisione. E, infatti, Arthur e Cinthia sono due residui di Woodstock, due fricchettoni fuori tempo massimo, due outsider, due mezzi matti, due sfasati. E quella che hai davanti è la loro casa. Se la sono costruita con le loro mani, usando solo materiale di riciclo: vetri di bottiglie, piastrelle rotte, legno raccolto in discarica.

Hai letto della loro storia sul Village Voice, il settimanale gratuito e gay friendly della città, e hai pensato di farci un pezzo sopra, da vendere magari a Repubblica o, in alternativa, da regalare al Manifesto. Per questo sei arrivato fino a lì.

Prendi il coraggio a due mani. Anzi una. Bussi. Niente. Bussi di nuovo. Ancora Niente. Forse non c’è nessuno. Forse ti hanno scambiato per uno del comune. Hai letto che qualche tempo fa in quella casa è scoppiato un incendio. Una cosa piccola. I pompieri hanno impiegato dieci minuti a spegnerlo. Ma da quel momento ai due coniugi freak è stato intimato lo sfratto. La casa non è a norma. Neanche lontanamente da quel che vedi. Di buono c’è che un’immobiliare ha fatto un’offerta. Una buona offerta. Vorrebbero comprare il terreno per costruirci un altro loft, ma Arthur e Cintia non ne vogliono saperne di vendere. Artur ci ha messo 25 anni a costruire quella casa. Tu istintivamente stai dalla loro parte, ovvio. Pace e amore. Siempre. Bussi ancora, ma senza risultato. Ok, viaggio a vuoto. Forse non del tutto però.

Guardi bene la casa. Ci giri attorno. È strana, inquietante. Prendi la macchinetta e scatti qualche foto.

Un tipo magro e con accento italo americano che lavora al vicino deposito dell’esercito della salvezza, ti vede, ti studia, mentre fai il tuo inutile reportage su quell’accozzaglia di mattoni e vetri rotti. È così attratto da te che smette di fare quello che sta facendo, vale a dire caricare casse di vestiti usati su un grosso camion rosso e bianco e ti viene incontro.

C’è poca luce. Il sole sta tramontando e allora rimetti la macchinetta in borsa. Qualche foto decente però sei riuscita a farla.

L’uomo magro si avvicina e con un sorriso ironico, chiede: “Si può sapere che ci trovate di bello voi intellettuali in quel coso là?”

Tu, spiazzato cerchi dentro di te una risposta intelligente, ma siccome non la trovi dici quello che pensi: “Non lo so… è strana no? Cioè interessante.”

Lui ti guarda e scrollando le spalle, commenta: “Sarà… Ma a me sembra solo un mucchio di mattoni messi a caso… ma che ne capisco io… non ho mica studiato arte alla Columbia!” Ride. Anche tu ridi, però per qualche ragione ti senti borghese e, di conseguenza, anche un po’ in colpa.

Saluti il tipo e risali sulla tua Mercury. Nello stereo i Nouvelle Vague questa volta reinterpretano In A Forest dei Cure. Ti avvii di nuovo verso il Manhattan Bridge. Stesso tragitto, direzione opposta.

Ormai è notte e, anche se ti vergogni ad ammetterlo, sei sollevato di lasciarti Bed-Stuy alle spalle.

 
 
 
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