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CHIMICA sperimentale

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La Tenda Rossa - Parte seconda

Post n°247 pubblicato il 26 Settembre 2013 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Analisi di un salvataggio:
qualche considerazione sui motivi per i quali, nonostante tutto, la tragedia non fu totale
.

La spedizione in dirigibile del generale Umberto Nobile al Polo Nord, avvenimento che nel 1928 doveva essere di risonanza e prestigio mondiale per l'Italia, e che tenne tutti col fiato sospeso per un paio di mesi, finì come si sa in tragedia: l'aeronave nel viaggio di ritorno si schiantò sui ghiacci della banchisa polare con 16 persone a bordo, al di fuori di ogni concepibile rotta di soccorso.
Alla fine la tragedia fu per metà scongiurata, perchè dopo 48 giorni di disperazione, otto persone poterono essere salvate localizzandole alla deriva sul pack artico (di 16, una morì nell'impatto, altre sei rimasero imprigionate nei resti del dirigibile che volò via nella tempesta e una morì di stenti nel tentativo di raggiungere la terraferma); tralasciando volutamente tutti gli antefatti ed i particolari, per i quali esiste una consistente bibliografia, lo scopo di queste note è di ragionare su come il salvataggio fu sostanzialmente possibile grazie a tre fattori chiave, la cui concomitanza non sempre si realizza e che in questo caso fu particolarmente fortuita e fortunata:

- la tenacia
- l'intraprendenza
- la perseveranza

Questi tre positivi fattori umani, sono nello stesso ordine direttamente riconducibili ad altrettante persone fisiche (anche se non solo a loro):

- a Giuseppe Biagi, il radiotelegrafista della spedizione, che non smise mai di agire anche quando tutte le speranze sembravano perdute (la tenacia)

- al giovane radioamatore russo Nikolaj Schmidt della sperduta regione di Arcangelo, che per primo sentì i segnali di soccorso e li volle riferire (l'intraprendenza)

- al prof. Rudolf Samoilovitch, responsabile del soccorso col rompighiaccio russo Krassin, che non mollò nonostante fosse ai limiti delle possibilità (la perseveranza)

Anche se non solo a loro: infatti la gara di generosità che mezzo mondo mise in atto per il salvataggio dei naufraghi del dirigibile "Italia" fu veramente notevole, ed è triste dover contrapporre ancora una volta a tanta abnegazione altrettanta meschinità, doppiogiochismo ed, ancor peggio, mancanza di professionalità da parte degli organismi ufficiali italiani (anche loro, ALLORA COME OGGI, riconducibili a precise persone fisiche).
Nel caso specifico tali persone erano purtroppo numerose e molto influenti, come si conviene quando è in gioco il prestigio personale in occasione di un avvenimento di tale importanza.

Il Generale Umberto Nobile, che per le grandi capacità professionali poteva permettersi di non nascondere il suo antifascismo anche in piena era mussoliniana, era già inviso a molti sia per gelosie professionali che per i suoi sentimenti politici.
I suoi nemici erano veramente potenti; basta il solo nome di Italo Balbo, a quel tempo secondo solo al Duce, per capire la strana atmosfera di contrapposizione nella quale si sviluppò la spedizione: da una parte occasione di facciata per la propaganda e la gloria della potenza dell'Italia fascista, dall'altra però portata avanti da un personaggio scomodo e fuori dalle grazie di Balbo e di quasi tutta l'intellighenzia Aeronautica.
Fin dall'inizio furono messi infiniti bastoni fra le ruote della spedizione, che Nobile riuscì in qualche modo a scansare fin che le cose andarono bene; non li poté più scansare allorché fu necessario prendere atto che la gloria gratuita da raccogliere era drammaticamente sfumata con la caduta dell'aeronave, e che occorreva organizzare una spedizione di soccorso, costosa, urgente e possibilmente efficiente.

Tali bastoni e l’inefficienza fecero ben presto sentire i loro nefasti effetti.
Le operazioni di salvataggio, anche se pomposamente sostenute dal Governo italiano, furono in pratica lasciate in mano all'iniziativa personale di coraggiosi soccorritori, molti dei quali veramente eroici, come Sora, Van Dongen, Maddalena, i quali non solo furono mal supportati ma probabilmente anche mal sopportati dai superiori.
Buona e migliore sorte ebbero alcuni governi stranieri (svedese, russo, ecc.) che avrebbero alla fine vinto perfino il servile disfattismo del comandante Romagna della "Città di Milano", la nave appoggio della spedizione ancorata alla Baia del Re.

Alla nave facevano capo tutte le comunicazioni da e per il dirigibile e poi dalla nave per Roma-S.Paolo, sulle lunghezze d'onda di 900 e 33 metri (333 KHz e 9090 KHz).
Il nome "Città di Milano" era costantemente in bocca ai naufraghi sperduti sul pack, i quali, avendo a loro disposizione una radio di emergenza funzionante (la famosa Ondina 33, oggi al Museo Navale di La Spezia) in mano ad un radiotelegrafista esperto come Biagi, ovviamente confidavano nell'essere sentiti e nel ricevere soccorsi ancora nei primi giorni dopo la caduta.

Sulla nave vi era invece l'atteggiamento attendista di chi non sa cosa fare; l'etere attorno alla nave era però inquieto e pieno di messaggi (messaggi che Biagi riceveva benissimo, e che li davano quasi sicuramente per morti!) che quindi invece di conforto portavano apprensione ai dispersi.

PERCHE' I NAUFRAGHI SENTIVANO BENISSIMO LA NAVE, E LA NAVE NON SENTIVA LORO?

E' quello che vedremo la prossima volta.

 
 
 
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