Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Sintesi del 4-(4'-Idrossi-3'-metossifenil)-3-buten-2-one

Post n°193 pubblicato il 18 Agosto 2012 da paoloalbert

Il nome altisonante di questa sintesi non rende giustizia alla sua discreta semplicità; è una sintesi carina e di soddisfazione nei risultati, anche se alla fine c'è "un'inezia" che personalmente avrei preferito non ci fosse: il doppio legame nella molecola!
Sì, perchè proprio questo differenzia il prodotto che andremo a preparare dallo zingerone, la sostanza che dà l'aroma allo zenzero, e come si sa io ho un debole per le molecole odorose.

 

4-(4'...one 1

 

Si tratta di una condensazione aldolica (ved. altrove), simile a quella presentata tempo addietro tra l'acetone e la benzaldeide per la sintesi del dibenzalacetone.
Lavorando stavolta in eccesso di chetone la condensazione con l'aldeide avviene da un solo lato del chetone stesso, e quindi, mettendoci a cavallo del carbonile -CO-, la molecola sarà asimmetrica.
 
In questo caso come aldeide è stata scelta l'odorosa vanillina (4-idrossi-3-mettossibenzaldeide), quella polverina bianca che la nonna metteva e mette nelle torte, mentre il chetone è sempre quel solvente che la sorella usa (usava) per togliersi lo smalto dalle unghie, cioè l'acetone.
Tutta roba semplice quindi, che potremmo trovare perfino al supermercato.
 
(Magari! Non credeteci... l'acetone puro chi lo trova più al supermercato? E attenti: scommetto un set completo di beute nuove che fra poco perfino la vanillina sarà considerata tossica e fuorilegge. 
Fuorilegge e introvabile come mille altre cose e diecimila idiozie correlate, che se ci penso mi viene l'orticaria!).


 
4-(4'...one 2


 
Materiale occorrente:
 
- Vanillina
- Acetone
- Sodio idrossido 
- Acido cloridrico
- Etanolo
 
In una beuta da 150 ml sciogliere 2,5 g di vanillina in 10 ml di acetone e preparare a parte una soluzione di 1 g di NaOH in 10 ml di acqua. 
Aggiungere questa soluzione alcalina a quella di vanillina; inizia subito la reazione di condensazione tra l'aldeide ed il chetone e la soluzione assume una colorazione gialla.

 

4-(4'...one 3

Dopo qualche minuto, se non si agita, si nota la formazione sul fondo di liquido rosso che si separa ma che si ridiscioglie semplicemente agitando. 
Porre la beuta su agitatore magnetico e lasciarvela per mezza giornata e ripetere l'operazione il giorno seguente; la colorazione del liquido diventa via via più rossa, fino a molto scuro dopo molte ore.

4-(4'...one 4

Alla fine aggiungere 50 ml di acido cloridrico al 10% e continuare ad agitare per circa un quarto d'ora. 
In seguito al mescolamento acido la soluzione intorbidisce sempre più fino al formarsi di una sospensione; sul fondo saranno dei granuletti più scuri, che vanno decantati, lavati e raccolti a parte.

4-(4'...one 5

 

Il solido filtrato si presenta microcristallino e di color verdino pallido.

4-(4'...one 6


A questo punto dare una lavatina con acqua, asciugare fin che si può per aspirazione d'aria e predisporre il solido per la purificazione per cristallizzazione.
Ho provato vari metodi di cristallizzazione da etanolo/acqua in varie percentuali ed alla fine quello che mi ha più soddisfatto è il seguente: in un becker da 100 ml sciogliere il prodotto in 50 ml di acqua molto calda, aggiungendovi a piccole porzioni qualche ml di etanolo fino ad ottenere una soluzione perfettamente limpida all'ebollizione.

Coprire il becher con vetrino d'orologio e lasciar raffreddare lentamente ed in riposo per qualche ora, fino a cristallizzazione completa.
Dai granuletti scuri prima raccolti si può recuperare in questo modo ancora un po' di prodotto, sfiorando con una striscia di carta da filtro il liquido catramoso che affiora bollendo.
Fltrare ancora alla pompa, lavando alla fine con un po' d'acqua fredda.

Lasciando asciugare all'aria il 4-(4ì-idrossi-3'-metossifenil)-3-buten-2-one si presenta sotto forma di bei cristallini aghiformi (o anche fogliette leggere, dipende dalle modalità di cristallizzazione) di colore giallo limone, quasi inodore.

 

4-(4'...one 7


La resa è stata 1,6 g ovvero circa il 50% del teorico, non molto, avendo sacrificato del prodotto durante le fasi finali; ho misurato (due volte) il punto di fusione ed è risultato di 128°; sarebbe interessante avere un riscontro bibliografico per avere un'idea più precisa della purezza.
Ho fatto questa sintesi un paio di volte, essendo un po' impegnativa nella fase finale di purificazione e cristallizzazione, che è molto "didattica" e dove c'è da sbizzarrirsi (e perdere resa...) nella sperimentazione.
 
Come si potrebbe saturare quel fastidioso doppio legame e trasformare il "buten-" in "butan-" -one e sentir così l'aroma dello zenzero?
I metodi che ho trovato sono tutti largamente inacessibili (per me) perchè coinvolgono reagenti costosi che non ho alcuna intenzione di avere (saturazione con idrogeno su palladio/carbonio..., atmosfere di argon e via di questo passo...).

Mi accontento pertanto di tenermi questo chetone così com'è con la sua bella insaturazione, e lo aggiungo ai personaggi della mia compagnia delle sintesi.

 
 
 

Sintesi del Cloruro di acetile

Post n°192 pubblicato il 06 Agosto 2012 da paoloalbert

Mi piacciono le sostanze particolarmente "reattive": sono attrici dinamiche e vivaci, sulle quali si può contare quando c'è da imbastire una bella commediola che abbia come trama una sintesina di chimica organica.
Ecco perchè il cloruro di acetile (come il cugino cloruro di benzoile) non può mancare tra i personaggi fondamentali di un home-lab versatile e pronto a reagire con efficienza alle richieste imprevedibili del proprio "gestore", che può svegliarsi una mattina e dire: -"oggi proviamo a fare..."

Acetilcloruro 1


Materiale occorrente:
 
- tionile cloruro SOCl2
- acido acetico CH3-COOH

- vetreria opportuna
 
Acetilcloruro 2In un pallone a due colli da 250 ml porre 80 ml di cloruro di tionile SOCl2 e in un imbuto gocciolatore 52 ml di acido acetico glaciale CH3-COOH.
Predisporre il setup sotto cappa o in ambiente opportuno con refrigerante allhin alla bocca del pallone, riscaldare a 45° e aggiungere l'acido acetico lentamente goccia a goccia agitando; ad ogni goccia si ha istantanea emissione di SO2 e HCl gassosi, che formano una caratteristica fumata alla bocca del refrigerante.

 


Acetilcloruro 3

 

Nel mio caso la "cappa" è costituita da una finestrella che si apre direttamente sul tetto dell'edificio dove ho il lab e che quasi sempre produce una utilissima corrente d'aria aspirante verso l'alto, come una perfetta cappa naturale.
Le foto sono molto esplicative in tal senso.

 

 

 

 

Acetilcloruro 4

Quando tutto l'acido è stato introdotto nel pallone, scaldare a riflusso per mezzo di un bagno d'acqua a 60-65° finchè non si ha più emissione di fumi bianchi (circa un'ora). 

Sostituire l'allhin con un condensatore Liebig e distillare raccogliendo fino a circa 65°

 

 

Il residuo, cAcetilcloruro 5ontenente chissà quali sottoprodotti clorurati, è estremamente irritante e lacrimogeno.
Ridistillare il prodotto, raccogliendo fino a circa 55-57°
Purtroppo la resa ottenuta in acetilcolruro è molto scarsa, circa il 30%; ritengo (ma è solo un'idea non confermata) che essendo un prodotto molto volatile parecchio se ne vada durante il riflusso assieme ai gas acidi, nonostante il refrigerante.
Altro se ne perde con le due distillazioni se si vuole un prodotto decentemente puro.
P.e. 52°, d.1,10

 

Acetilcloruro 6

 

Questo cloruro acilico si presenta come un liquido incoloro mobilissimo fumante all'aria (si idrolizza istantaneamente ad acido acetico ed acido cloridrico), di odore estremamente acre ed irritante, corrosivo, da maneggiare con molta cautela ma utile in tante reazioni di acetilazione.
Ha avuto l'onore di una bella bottiglietta ambrata e con tappo smerigliato, come si conviene per i reagenti "nobili" e attaccabrighe come sono tutti gli alogenuri acilici.

 
 
 

Gli alogenuri acilici

Post n°191 pubblicato il 01 Agosto 2012 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Gli alogenuri acilici sono reagenti fondamentali per la chimica organica per una nutrita serie di sostituzioni nucleofile, che avvengono ognuna nelle condizioni adatte.
Sono formati dall'unione di un alogeno con un radicale acido R-CO- e quindi la formula generale è R-CO-X, dove X è spesso il cloro (ma all'occorrenza anche F-Br e I).
In genere sono liquidi molto reattivi, fumanti all'aria e di odore estremamente acre e irritante; sono materiali da usare con attenzione e cautela.
 
L'alogenuro acilico tipico è il cloruro di acetile CH3-CO-Cl, che prendo come cavia per gli esempi sottostanti:
 
- per idrolisi in ambiente basico danno l'acido corrispondente (sotto forma di sale alcalino) da cui sono derivati;
es. acetile cloruro + idrossido di sodio --> acetato di sodio (e da questo --> acido acetico) CH3-COOH
 
- con un anione carbossilato (il sale di un acido) in ambiente etereo danno le anidridi, anche asimmetriche;
es. acetile cloruro + sodio propionato --> anidride propionacetica CH3-CO-O-CO-CH2-CH3
 
- per alcolisi in ambiente basico o in piridina danno l'estere corrispondente;
es. acetile cloruro + metanolo --> metile acetato CH3-CO-OCH3
 
- per ammonolisi con ammoniaca danno le ammidi;
es. acetile cloruro + ammoniaca --> acetammide CH3-CO-NH2
 
- per "amminolisi" con ammine primarie e secondarie danno le ammidi N-sostituite;
es. acetile cloruro + dietilammina --> N,N-dietilacetammide CH3-CO-N(-CH2-CH3)2
 
- per riduzione drastica danno l'alcol corrispondente;
es. acetile cloruro + litio-alluminio idruro --> etanolo CH3-CH2-OH
 
Mi sembra possa bastare vero?
Per usare materialmente (e non solo in teoria) un alogenuro acilico ci sono due strade: una bella comoda e in discesa (si compra) e una brutta, scomoda e in salita (si fa).
Finita una vecchia e piccola riserva che avevo da anni di questo simpatico e tosto reagente, volevo ripristinarla, ma... secondo la moderna italica consuetudine mi hanno chiesto un prezzo da rapina e io, se non sono proprio costretto, i prezzi da rapina non li accetto mai per principio.
Morale? Me ne son fatto un campioncino, appunto proprio per principio!

La prossima volta vedremo come.

 
 
 

Intervallo... con Noise generator

Post n°190 pubblicato il 25 Luglio 2012 da paoloalbert

generatore rumore


Cosa ci fa un generatore di rumore (radio, non acustico!) su un blog di chimica sperimentale?
Niente... se non fosse che l'autore del blog si dedica ogni tanto anche agli altri hobbies, e non solo ad ingarbugliare atomi e molecole.
Per questo non ci sono sul blog molte novità chimiche in questo periodo, e beute e alambicchi sono rimasti spesso puliti, sostituiti da tutt'altro tipo di esperimenti.
Corsi e ricorsi degli interessi personali...

Ho fatto intanto questo generatore di rumore, che non serve a spaventare la gente ma per la taratura e la verifica delle antenne HF (nel range da 3 a 30 MHz).
Abbinato ad un ricevitore permette di verificare alcuni parametri dell'antenna stessa e la sua esatta frequenza di risonanza.
Diamo anche a lui lo spazietto che si merita, e consideriamolo come la cartolina sostitutiva del solito "INTERVALLO" che ogni tanto metto quando serve qualche attimo di pausa.
 
Sento nella stanza accanto le provette che si agitano più del solito... 
- Lo so che volete essere sporcate, abbiate ancora un po' di pazienza... prima o poi torno anche da voi!-

 
 
 

Sintesi del Piroantimoniato di potassio; fase operativa.

Post n°189 pubblicato il 18 Luglio 2012 da paoloalbert

Premetto subito, avendola ripetuta più volte cocciutamente, che la preparazione di questo reattivo per il sodio è comunque di bassissima resa, con esiti nel mio caso mai andati completamente a buon fine.
Ecco come ho proceduto, come da fonte bibliografica:
 
-mescolare 5 g di ossido di antimonio Sb2O3 con 5 g di KOH e 5 ml di acqua.
Lasciare in riposo la pastella bianca, mescolando ogni tanto.
Se l'antimonio è un anfotero, lasciandolo così avvinghiato alla base forte formerà un po' di antimonito, K3SbO3.
Detto questo, l'ho lasciato in intimità con la potassa per una notte intera.
Il giorno successivo diluire con 90 ml di acqua e aggiungere 5,5 g di ossido di rame CuO come ossidante per portare l'antimonio da Sb3+ a Sb5+.
Portare all'ebollizione per un paio d'ore; per evitare l'evaporazione, ho collegato un refrigerante a ricadere, come in una sintesi organica.
Filtrare per ottenere un soluzione limpida; ritenevo l'operazione difficile e invece si filtra con facilità.
Evaporare poi per ebollizione ad un decimo del volume iniziale.
Conservare così com'è una porzione di questa soluzione perchè qui cominciano i veri problemi, che non sono riuscito a risolvere in nessuna maniera.
 
L'autore della procedura a questo punto dice di lasciar raffreddare ed aggiungere un egual volume di etanolo: mescolando si otterrà un precipitato viscoso aderente alle pareti del recipiente.
Raffreddare e filtrare, lavando sul filtro con etanolo al 50%.
Seccare velocemente all'aria e polverizzare la massa bianca.
Ho ripetuto più volte queste operazioni, volte a separare l'eccesso di KOH residua dal composto dell'antimonio, ma non riuscendo mai ad ottenere alla fine un composto solubile; sembra che tutto idrolizzi con estrema facilità ed in ambiente anche solo neutro si forma sempre un precipitato fioccoso.

 

Piroantimoniato 1

 

Precipitato fioccoso (acido antimonico?) che si forma in varie fasi della sperimentazione con il piroantimoniato.

Questo NON è il piroantimoniato sodico, del tutto diverso.

Seccando il prodotto si ottiene una polvere del tutto insolubile ed inutile.
Dopo molte prove, per il test del sodio ho quindi utilizzato la soluzione contenente ancora parecchio KOH, senza più tentare la purificazione con etanolo.
 
Il "piroantimoniato di potassio" era considerato fino agli anni '50 come il sale acido di potassio dell'acido piroantimonico KH2Sb2O7; successivamente si è visto che in realtà si tratta di un ortoantimoniato idrato KH2SbO4.2H2O, assimilabile all'acquacomplesso K[Sb(OH)6]; quest'ultimo per termolisi dà il vero piroantimoniato (ma che non è il reattivo per il sodio):
 
2 K[Sb(OH)6 --> K2H2Sb2O7 + 5 H2O
 
Infine ecco raggiunto in questo paio di fotografie qui sotto lo scopo di tutto questo accidente di lavoraccio (soprattutto bibliografico e di spreco materiali): vedere una soluzione di cloruro di sodio che precipita con un reagente!

 

Piroantimoniato 2

Prova in bianco: soluzione molto diluita di piroantimoniato; si nota comunque un principio di idrolisi, nonostante la forte alcalinità residua.

 

Piroantimoniato 3

Aggiunta di sol. di NaCl: prec. microcristallino: finalmente!
 
La precipitazione dello ione sodio non è immediata ma richiede un certo tempo e avviene meglio con il classico sfregamento delle pareti della provetta con una bacchetta di vetro; dopo qualche tempo si osserva il piroantimoniato di sodio sotto forma di un caratteristico precipitato microcristallino, che forma l'opalescenza che si vede nell'immagine.
 
Bello vero? Bah, quelle buon'anime di Delacroix, Berzelius, Knorre, Olschewski, Fremy potevano pur darmi la soddisfazione di ottenere un po' di polvere pura da mettere via... niente! 
Ma va bene lo stesso: il sodio venir giù l'ho visto, e tanto me lo faccio bastare.

 
 
 

Sintesi del Piroantimoniato di potassio; prima parte.

Post n°188 pubblicato il 14 Luglio 2012 da paoloalbert

Se dovessi dire qual'è la preparazione chimica che più mi ha fatto tribolare direi che quella del piroantimoniato la metterei prima in classifica.
Perchè tanta difficoltà in quella che sembra una "banale" sintesi inorganica?
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Mi piacciono le cose un po' "esotiche": allora cosa c'è di più strano di un sale di sodio insolubile? Pochissimi sono i sali insolubili dei metalli alcalini, tant'è che per l'analisi qualitativa (quella classica) non vi si ricorre comunemente.

Il potassio si può precipitare come cobaltinitrito K2[Co(NO2)6] (del quale ho già parlato), oppure con la reazione di Carnot come tiosolfato potassico-bismutico K3[Bi(S2O3)3], oppure ancora come cloroplatinato K2PtCl6.

E il sodio?
Il sodio è ancora peggio: costui precipita solo come "piroantimoniato" Na[Sb(OH)6] col vecchissimo e glorioso reagente di cui vado a parlare, oppure come acetato doppio di sodio e uranile CH3COO(UO2)2.CH3COONa

E il litio?
Peggio del peggio: costui precipita solo come un periodato complesso di ferro e litio in condizioni particolari.
 
Per tali motivi era era da molto tempo che volevo produrmi un po' di piroantimoniato potassico per poter vedere il sodio cadere nella provetta come una pera matura.
 
Qui sono cominciati problemi, del tutto imprevisti: la procedura per la sintesi del reagente, che ritenevo assolutamente accessibile nella opportuna bibliografia storica, si è dimostrata quasi del tutto introvabile.
Tutti conoscono e citano (a questo punto ritengo solo per sentito dire...) il piroantimoniato, ma nessun testo da me consultato in tantissime ricerche, sia cartacee che virtuali, ne riportava una decente procedura di preparazione.
(A dire il vero una persona disponibile e competente mi aveva suggerito un metodo tratto da un antico testo, ma mi mancava l'antimonio metallico e la sintesi non era del tutto convincente per qualche motivo; idem per un'altra strana preparazione che avevo trovato chissà dove e che partiva dal tartaro emetico, cioè dal tartrato di potassio e antimonile).
 
Quindi buio quasi assoluto fino a chè... fino a chè mi sono venute in soccorso ancora una volta le ventiquattromila (!) pagine del Nouveau Traité de Chimie Minérale (P.Pascal, Masson ed., Paris, 1963).
In questa ponderosissima opera si trova anche una modalità di preparazione del piroantimoniato potassico, con tanto di citazioni di coloro che la fecero: Delacroix, Berzelius, Knorre, Olschewski, Fremy.

La prossima volta tenterò, sperando nell'aiuto di queste buone anime...

 
 
 

Piccolo intervallo estivo

Post n°187 pubblicato il 03 Luglio 2012 da paoloalbert

Fine giugno - primi luglio 2012: caldo tropicale sull'Italia...

Aspettando il prossimo post, nell'intervallo ci sta questa vecchia immagine presa quando sperimentavo con le celle di Peltier: un bel becher fresco sudante che vorrebbe trasformarsi in acqua ghiacciata...

 

Becher freddo

Evviva il caldo, evviva il freddo!

 

 

 
 
 

Silice blù: la fine

Post n°186 pubblicato il 27 Giugno 2012 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Questo dovrebbe essere l'ultimo lavoro riguardo la saga della silice blù, e l'inizio del periodo annuale di rarefazione dei post su questo blog.
Ogni tanto metterò qualcosa, ma con meno frequenza, in accordo con la mia limitata disponibilità estiva di accesso a Internet.
Ho verificato che, volendo, se ne può fare un uso meno intensivo senza traumi da astinenza.
 
Allora, riprendiamo in mano per l'ultima volta il famigerato sacchetto di silice per gatti e scegliamo una bella manciatina di granelli blù; stavolta ne ho presi 6 grammi, che essendo molto leggeri fanno una mezza mortaiata da macinare finemente.
Per fortuna sono facilissimi e teneri da ridurre in polvere, niente a che vedere con la durezza che la parola silice evoca.
Questa prova consiste nel mettere in pratica il suggerimento di Paolo Gifh, che consigliava di tentare di sciogliere il colorante con un solvente opportuno, lasciando inalterata la silice.
Ho provato con vari solventi, polari e apolari e che non vado a citare: quello decisamente migliore si è dimostrato il banale esano.
(Lo considero un solvente stupido: non mi piacciono le sostanze poco o niente reattive!)
 
Contrariamente al solito, non ho documentato con foto nessuna fase del lavoro: per una volta credetemi sulla parola...
 
Dopo vigorosa agitazione della polvere col solvente, l'ho lasciato in contatto per molte ore, mescolando ogni tanto, per cercare di portar fuori dal reticolo cristallino la maggior quantità di colorante possibile.
La soluzione subito si colora di un bel blù promettente che però non scurisce più di tanto e in nessun modo si riesce a decolorare i granelli completamente, nemmeno con più estrazioni.
Forse con un soxleht si riuscirebbe a far di meglio, ma mi sono comunque accontentato di una bella capsulina di esano colorato.
Direi che ho estratto circa la metà del colorante contenuto nel campione e l'ho ritenuto sufficiente. 
 
Ho decantato la soluzione limpida ed evaporato tranquillamente al sole, ottenendo prima un liquido sempre più scuro fino ad un concentrato viola che si è risolto alla fine in pochi milligrammi di polverina scura.
Un saggio estemporaneo alla fiamma ed il comportamento alla combustione mi ha fornito l'iniziale sospetto che la sostanza fosse organica... totalmente organica intendo, senza metalli coordinati alla molecola.
Ma era un'idea sicuramente da verificare.
Ho arroventato allora la sostanza poco sotto il calor rosso, per trasformare l'eventuale metallo in ossido; il residuo (sempre meno!) si è risolto in una puntina di polvere scura; ho aggiunto qualche goccia di HCl e HNO3 per ossidare il tutto e trasformare il più possibile l'eventuale metallo in sale solubile, sul quale condurre le prove finali.
 
Sulla poca soluzione cloridrica ho iniziato per scaramanzia con la ricerca del ferro: alleluja, viene negativa!
Poi il rame... il nichel... il cobalto... tutte negative! (Sembra proprio anche il Co: che strano)
E quel residuo scuro? Ritengo fosse semplicemente carbonio: se avessi insistito con l'arroventamento sono sicuro che sarei rimasto con la capsulina vuota e pulita.

Non ci sono metalli in quella roba (o almeno io non li ho trovati).

Conclusione: l'ipotesi che a questo punto mi sento di fare è che il colorante sia del tutto organico (il colmo sarebbe se fosse veramente estratto di cavolo rosso, vero Teresa? :) :) )
Definire con esattezza COSA sia la sostanza con precisione è assolutamente impossibile con analisi di questo tipo, come facilmente si comprenderà.
Solo in Cina sanno esattamente cosa hanno aggiunto al precipitato siliceo...
 
Questa volta è veramente finita...
                    
B U O N E   V A C A N Z E   A   T U T T I !

 
 
 

Il Flogisto e il "peso negativo"

Post n°185 pubblicato il 21 Giugno 2012 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Sono convinto che la realtà superi sempre la fantasia.
Tuttavia vi è (almeno) un caso storico dove sembra che questa affermazione possa essere messa in dubbio: solo una fantasia galoppante poteva superare la concreta realtà del concetto di "peso" di un oggetto, nel senso ovvio che più si aggiunge massa più quell'oggetto peserà.
Lapalissiano! Mica tanto... c'è stato anche chi si è spinto ad asserire il contrario.
Ma partiamo dal principio.

Lo sviluppo dell'arte mineraria e metallurgica nei secoli XIV, XV e XVI aveva spinto gli studiosi a prestare particolare attenzione al fenomeno per cui un metallo sottoposto all'azione del fuoco in presenza di aria si trasformava in una "calce" (noi oggi la chiamiamo "ossido") oppure, viceversa, che una calce opportunamente trattata poteva ripristinare il metallo di partenza.
La somiglianza esteriore fra i prodotti di una normale combustione e quelli di una calcinazione faceva pensare ad una sorta di analogia tra i due fenomeni.
Si deve allo iatrochimico tedesco (seguace di Paracelso) Johann Beker e al suo allievo Georg Ernst Stahl (1660-1734) la prima spiegazione unitaria dei due fenomeni; lo fecero tirando in ballo una "sostanza" che sarebbe rimasta in favor di scienza per lunghi anni a venire, fino ed oltre alle inconfutabili esperienze del "rivoluzionario" Lavoisier (al collo del quale, a dire il vero, la parola rivoluzione non giovò certamente...).

La "sostanza" che Stahl introdusse artificialmente per spiegare i fenomeni di cui sopra derivava dalla "terra infiammabile" di Beker e la chiamò FLOGISTO, cioè "pricipio di infiammabilità", presente in quasi tutti i corpi naturali: animali, vegetali e minerali.
Ogni corpo che in qualche modo potesse dar luogo ad una sorta di combustione conteneva il flogisto, che veniva liberato dalla combustione stessa, secondo lo schema:

materia combustibile (in senso lato) --> materia deflogisticata + flogisto

Il flogisto si allontanava dall'ambiente di reazione e si disperdeva nell'aria, producendo i fenomeni termici associati alla combustione; l'aria dunque non partecipava alla reazione, ma aveva un ruolo puramente fisico di dispersione del flogisto.
Si capisce che sostanze facilmente combustibili e infiammabili fossero considerate ricchissime in flogisto, mentre poche altre (la sabbia, il sale, ...) ne erano prive.

E i metalli?
I metalli non bruciano, ma... calcinano! E allora anch'essi dovevano contenere il flogisto, secondo il seguente ragionamento:

metallo --> calce + flogisto

Ecco accomunati, grazie a questo nuovo amico, i due fenomeni apparentemente simili della combustione e della calcinazione!
E il flogisto, una volta liberato, dove andava a finire?
Per esso iniziava un vero e proprio ciclo, che lo portava ad essere prima assorbito dalle piante, da queste passava agli animali e da questi finalmente ritornava al regno minerale.
Il "principio di infiammabilità" poteva perciò tramettersi da una sostanza all'altra all'interno dei tre regni della natura.
Per esempio mescolando e arroventando una calce (un ossido) con carbone (ricchissimo in flogisto) si poteva ripristinare il metallo facendo assorbire alla calce l'eccesso di flogisto del carbone.

Col senno di poi noi diremmo: PbO + C --> Pb + CO
Stahl diceva: Calce di piombo + Carbone(flogisticato) --> Piombo(flogisticato) + Carbone(deflogisticato)

Suggestivo vero? Ma adesso viene il bello.

Essendo il flogisto considerato una "terra" (quella infiammabile di Beker!) doveva essere dotato di peso, e ciò creava non pochi problemi all'interno della teoria, poichè era noto che una "calce" pesava di più del metallo che l'aveva generata.

Ma un metallo che ne perde un pezzo (il flogisto) alla fine deve pesare DI MENO, non di più'! Come la mettiamo?
Semplice: questa anomalia, in nome della potenza esplicativa della teoria, veniva semplicemente trascurata, o ritenuta irrilevante, o si pensava che si sarebbe potuta spiegare in futuro.
Qualcuno, più ortodosso, pensò perfino ad una soluzione elegantissima, da vero principe del Foro: la calce pesa di più? Elementare Watson: è perchè il flogisto ha un peso "negativo"! Ergo, più ne togli e più pesa il rimanente!
Geniale il salvagente per la teoria, vero?


A parte la facile ironia, c'è però da dire che Lavoisier non era ancora arrivato ed il metodo quantitativo, fondamentale per i futuri sviluppi della chimica, non aveva in quel periodo quel significato che noi oggi diamo per scontato.
Semplicemente ci si faceva poco caso.
La teoria di Stahl ebbe grande successo in tutta l'Europa scientifica del settecento, con seguaci assolutamente illustri fino agli inizi del XIX secolo; ci vorrà la forza sperimentale di Antoine Laurent Lavoisier per sconvolgere completamente l'edificio storico e sperimentale della chimica, facendo alla fine crollare anche la suggestiva teoria del flogisto, da allora evaporato nel nulla, rendendoci tutti inesorabilmente e perennemente "deflogisticati".

 
 
 

Aggiornamento al post n. 180

Post n°184 pubblicato il 16 Giugno 2012 da paoloalbert

Il mistero del colorante blù del gel di silice continua... -"Come primaaa, più di primaaaa...", cantava una volta Tony Dallara!
La pulce nell'orecchio che mi ha suggerito il bravo Paolo Gifh ha dato i suoi frutti: per essere sicuri che il ferro derivasse veramente dal pigmento blù e non da qualche altra parte, mi ha indirettamente consigliato di fare una prova in bianco.
L'ho fatta e siamo d'accapo!

Ho appunto rifatto (e anche con maggior cura) la medesima procedura vista precedentemente di attacco del gel di silice con acido fluoridrico e ripresa del residuo secco con HCl, sulla cui soluzione fare poi il test per il ferro o altro eventuale.
Ho preso stavolta SOLO granellini incolori, senza quelli colorati: se il colorante è il catione ferro, in questo campione in teoria non dovrebbe esserci!
Qui sotto si vede la soluzione fluoridrica prima di essere concentrata e tirata a secco, e stavolta non è verde. Un piccolo buon segno!

 

Gel Si 8

 

Una volta arrivati a secco... ecco la prima sorpresa: un bel residuo inaspettato, color beige.

 

Gel Si 8


Aggiungo HCl sperando che NON diventi giallo e invece... giallo come un mandarino cinese!

 

Gel Si 9


Mannaggia, c'è ferro anche stavolta, quel colore lì ormai è un'ossessione e lo conosco bene.
...ho fatto le prove del ferro svogliatamente, sapendo già che sarebbero venute positivissime.

Conclusione: il ferro E' nel gel di silice, indipendentemente se sia colorato o meno.

Per sapere le cose con esattezza bisognerebbe fare una analisi quantitativa come si deve e vedere se nei granelli blù c'è PIU' ferro rispetto a quelli incolori.
Naturalmente un'analisi di questo tipo esula completamente dalle mie possibilità, e pertanto dichiaro ufficialmente "sospeso" (non archiviato!) il caso, in attesa di future informazioni che ci illuminino su questo piccolo giallo del gel di silice colorato.

(Prima di chiudere bottega e sistemare la vetreria mi sono levato un ultimissimo scrupolo: ho fatto la prova in bianco anche sull'acido fluoridrico, pur sapendo che era puro e del tutto esente da ferro... come effettivamente era!).

La saga continua...

 
 
 

Il problema del vaso poroso

Post n°183 pubblicato il 13 Giugno 2012 da paoloalbert

Quando si ha a che fare con l'elettrochimica prima o poi non si scappa: si ha il problema del "vaso poroso"!

E' un elemento indispensabile quando le soluzioni in gioco sono due (come spesso accade), le quali non devono mescolarsi ma deve essere consentito uno scambio ionico tra di esse.

L'esempio classico sono le pile Daniell, Bunsen o Leclanchè, dove i due metalli sono nella rispettiva semicella separati appunto da un introvabile "vaso poroso".

Anch'io non sapevo mai come risolvere questo problema... fino a ieri, quando sono riuscito inaspettatamente a farmi fare da un artigiano della ceramica il cilindretto che si vede in foto.
Ha un diametro di 35 mm ed è alto il doppio e naturalmente è cotto ad un migliaio di gradi ma senza lo smalto che lo renderebbe lucido e impermeabile.
Riempito d'acqua, dopo un po' lo si sente leggermente "sudare" all'esterno.

Finalmente potrò tentare un esperimento di elettrochimica al quale pensavo da tempo e qualcos'altro che mi verrà in mente.

 

Vaso poroso


Ecco un problema che sembrava del tutto irrisolubile e che si è invece felicemente concluso!

 

 
 
 

Colorimetro PA mode, release 2.0

Post n°182 pubblicato il 08 Giugno 2012 da paoloalbert

I lettori più affezionati di questo blog ricorderanno che nei post dal 96 al 99 si parlò di un "C O L O R I M E T R O" che avevo costruito quasi per gioco, in una delle mie alternanze ricorrenti tra hobby chimico ed hobby elettronico.
Non rifaccio qui tutto il discorso, ma rimando eventualmente a quelle pagine con questo link.

Il punto più debole della prima versione dell'apparecchio era la celletta di misura; in questa viene inserito il campione da analizzare, sotto forma di una soluzione più o meno colorata.
Quella costruita a suo tempo era veramente troppo rudimentale e poco affidabile ed è servita solo come verifica del funzionamento di principio dello strumento, con poche possibilità di eseguire qualche misura degna di questo nome.

Ora ho ricostruito la celletta in maniera leggermente diversa, con più cura e con dimensioni adeguate a contenere esattamente una cuvetta da 10 mm per spettrofotometria (non quelle costosissime in quarzo, ovviamente!).

 

Celletta nuova

 

Le due "protuberanze" in tubetto di rame che si vedono nell'immagine contengono rispettivamente un diodo LED di illuminazione (a destra) ed un fototransistor di lettura (a sinistra).

La luce emessa dal LED (di una certa lunghezza d'onda) è costretta ad attraversare il campione posto nel mezzo ed il raggio luminoso uscente viene captato dal fotoTR, il quale produce un segnale che è mandato poi al resto del circuito.
E' intuitivo pensare che il raggio luminoso "uscente" sarà tanto più attenuato tanto maggiore sarà la concentrazione del liquido colorato attraversato; meno intuitivo è il fatto che l'attenuazione non è affatto uguale per tutte le lunghezze d'onda della luce (quindi per tutti i colori) ma ogni sostanza ha una curva di attenuazione specifica, che varia moltissimo in funzione di questa lunghezza d'onda.

Ecco per esempio qui sotto il grafico che rappresenta "l'assorbanza" del blù di metilene in funzione del colore incidente: mentre nel viola-blù l'assorbimento è minimo, nel rosso cupo esso aumenta di circa 70mila volte.

 

Assorbimento blù metilene


Ciò può essere sfruttato per misurare per esempio concentrazioni incognite di sostanze con il metodo spettrofotometrico (ved. altrove per chi vuole approfondire).
Ho testato il mio apparecchietto con alcuni cationi e anioni colorati ed anche proprio col blù di metilene, per il quale esso  sembra avere un particolare feeling... con i risultati che si vedono nel sottostante grafico.

 

Colorimetro metilene


In ascisse del grafico c'è la concentrazione in mg/l di sostanza ed in ordinate la lettura al milliamperometro, in una scala arbitraria da 0 a 50.
L'illuminazione, in accordo con quanto detto sopra, è stata fatta nel rosso a 630 nm.
Mi ha stupito l'estrema sensibilità verso questo (potentissimo) colorante, dato che possono essere misurate quantità dell'ordine di frazioni di mg per litro, che corrispondono per esempio a soluzioni molar-milionesime o molar-decimilionesime!
Questa è la massima sensibilità che ho finora verificato per lo strumento, se mi è concesso questo termine.

Naturalmente tutto questo è stato fatto per gioco (vogliamo essere più generosi? Diciamo allora per ricerca personale...) e non vi è nessuna velleità di misurazioni quantitative nè di impiego pratico di questo "colorimetro alla mia maniera".

Ma rimane molto forte e impagabile, questa sì, la soddisfazione di aver fatto (e imparato!) qualcosa abbinando la teoria con la pratica, la chimica con l'elettronica... mixando semplicemente un paio di hobbies. Cosa si vuole di più?

 
 
 

Intermezzo messicano

Post n°181 pubblicato il 03 Giugno 2012 da paoloalbert

Una immagine vale come mille parole... si dice, ed è vero.
Le immagini che propongo in questo intermezzo nascono dal fascino che su di me esercita la magia quasi alchimistica dell'estrazione degli elementi dalla terra.

 

Conicalcite 1

 

Il bel minerale verde che si vede (è un piccolo souvenir che mi sono regalato) deriva dall'alterazione ossidativa di minerali di rame e arsenico ed è un arseniato idrato di rame e calcio, di formula CuCa(AsO4)(OH).

Si chiama Conicalcite e non ha niente a che vedere con la calcite (carbonato di calcio) ma deve il nome all'allusione dal greco "chalkos" (rame) e "koni" (polvere).
Si presenta come spalmature granulose verdi brillanti su un fondo generalmente ferritico.
Il campione deriva dalla miniera Ojuela di Mapimi, in provincia di Durango, Messico.

Mi piace sempre collegare le cose alla loro origine... e allora con la magia di Street View piacevolmente girovago per le deserte vie di sperdute località nel cuore del Messico.
E' emozionante girare il Mondo anche in questo modo.
Per me lo è davvero, e lo faccio spessissimo; non in posti turistici ma quasi sempre in luoghi altrimenti inaccessibili.

 

 
 
 

Seconda parte dell'analisi felina

Post n°180 pubblicato il 30 Maggio 2012 da paoloalbert

Segue dalla puntata precedente.

Dobbiamo cercare di scoprire se il colorante blù di alcuni granelli di silice è organico o inorganico e l'eventuale catione.
Se completamente organico, dopo opportuno trattamento sarà distrutto e in ogni caso non residuerà sali metallici.
Se inorganico, o organico coordinato con ioni metallici, residuerà appunto un composto del catione.
Mano alla vetreria!

Macino finemente i 5 g di granelli blù e li tratto in un recipiente di polietilene resistente all'acido fluoridrico con 20 ml di HF al 40%: la reazione (da farsi ovviamente in ambiente idoneo; io in questi casi mi metto comodamente all'aperto) è subito molto vivace ed in poco tempo tutto il prodotto è perfettamente sciolto; prendo atto che la colorazione è verde ma non ancora significativa.

  I gr

Gel Si 1

 Gel Si 2

 

 

 

 

 

 

Allontano a questo punto tutto il silicio per ebollizione prolungata a bagno maria e ottengo un concentrato con ancora molto HF in eccesso, nella soluzione più altobollente di 100°.

Voglio tirare tutto a secco, come fare? Non potendo adoperare per ovvie ragioni oggetti in vetro (nè tantomeno crogiolini in platino!), preparo per l'occasione un piccolo evaporatore in teflon fresandone una cavità in un pezzetto di questo materiale; il teflon può essere riscaldato anche ad alta temperatura e resiste perfettamente all'acido fluoridrico.
Penso anche che questo estemporaneo oggetto potrebbe tornar utile in future occasioni e quindi lo faccio seduta stante!
Lo si può vedere nella foto, con la soluzione verde che si sta concentrando.

 

Gel Si 3

 

Una volta arrivato a secchezza... sorpresa, ecco il risultato! Un bel po' di mg di residuo perfettamente gestibili, ma non di un bel colore azzurro come mi sarei maggiormente aspettato, bensì di un sospetto color ruggine.

 

Gel Si 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non sarà mica ferro anche stavolta! (ormai il ferro mi sta stufando quando salta fuori mentre mi aspetto altri elementi!).

Preparo una soluzione cloridrica del residuo (indovinate di che colore... gialla!) e testo il cobalto con il saggio di Vogel, cerco il rame con il saggio all'etilxantato e... non mi resta che confermare il ferro con le solite prove che abbiamo visto troppe volte.
Mannaggia, tutte negative tranne quella del ferro, positivissima!

 

Gel Si 5 Gel Si 6

 

 

 

 

 

Test con tiocianato - Test con ferrocianuro

 

Gel Si 6

 Gel Si 7

 

 

 

 

 

 

Test con K etilxantato - Test con tracce di rame aggiunte

 

Conclusioni


ramecobalto ci sono in quei granelli, almeno non nelle quantità umane che un'analisi di tipo classico può svelare.
Ferro ce n'è infinitamente troppo perchè derivi dalle modalità analitiche, quindi ritengo che sia proprio quello l'elemento cromatico del gel di silice.
Altri elementi (se non eventualmente in tracce) li escluderei a priori.

Chissà quale prodotto cinese a base di ferro, forse ftalocianine o qualcosa di simile?

Non ne ho la più pallida idea e nemmeno trovo niente al riguardo in bibiografia.
Ma almeno sono riuscito (salvo impreviste cantonate...) a smascherare l'innocuo catione!
Naturalmente io ho analizzato IL MIO gel di silice, presumendo che corrisponda in linea di massima a quello che comprava  Teresa.

Io la mia parte l'ho fatta; nel frattempo il gatto è stato alloggiato a fare i suoi bisognini in maniera diversa, se con minore o maggiore soddisfazione questo non lo so.
Di una cosa sono sicuro: al micio non gliene sarebbe potuto fregar de meno delle mie fatiche.

 
 
 

Un'analisi dedicata... al gatto!

Post n°179 pubblicato il 26 Maggio 2012 da paoloalbert

No, non mi è dato di volta il cervello (almeno non del tutto...), ma il discorso che segue è veramente dedicato a un gatto, quello della gentile Teresa (alla quale mi permetto invece di dedicare il quadro di Renoir...).

 

Renoir gatto


Teresa, che oltre ad essere una chimica con i fiocchi è amante dei gatti, li tratta da gran signori e li fa alloggiare secondo le moderne comodità, ovvero con l'ausilio di un abbondante strato di lettiera a base di gel di silice.
Quel particolare gel di silice (che in pratica è un polimero del biossido di silicio idrato nSiO2.H2O) oltre a possedere le igieniche proprietà assorbenti che tutti conosciamo, ha anche qualcosa in più: alcuni granelli del medesimo non sono incolori come dovrebbero, ma decisamente blù.

Un bel blù profondo.

Tempo fa si discuteva con Teresa a cosa fosse dovuta quella colorazione; le risposte ottenute interpellando il venditore avevano portato, come facilmente prevedibile, a risultati poco o per niente attendibili (tipo improbabilissime antocianine, oltretutto... di cavolo rosso!).

La prima cosa che un chimico pensa quando vede un vetro blù è che sia colorato con sali/ossidi di cobalto.
L'abbiamo pensato anche noi, anche se si tendeva ad escluderlo a causa dell'assicurazione ricevuta dalla ditta che il prodotto fosse assolutamente innoquo anche riguardo lo smaltimento.
Poteva anche essere un colorante organico... ma nel reticolo cristallino della silice?
Azzardai l'ipotesi che potesse trattarsi di cupro-ftalocianine, coloranti estremamente resistenti agli attacchi chimici e potenti quanto basta a colorare con qualche grammo un'infinità di granelli; basta inglobarli in qualche modo in una sufficiente quantità di silice precipitata.

Rimaneva però il dubbio: sarà cobalto, rame, coloranti organici o che altro?

Per cercare di dirimere la questione a modo mio mi sono procurato un sacchetto di lettiera per gatti (e vabbè, vuol dire che non avendo gatti avrò gel di silice per tutta la vita...) ed ho separato cinque grammi di granellini blù dalla gran massa degli incolori.
Cercare di separare e concentrare l'eventuale catione inglobato NELLA SILICE in piccolissima quantità non è così semplice... e io per fare le mie prove da chimica ottocentesca ho bisogno di quantità ponderali di sostanza.
Non ho quelle macchine dei laboratori di adesso che butti dentro dieci molecole di una cosa e l'apparecchio ti dice cosa c'è  atomo per atomo!
(Ho già detto che ammiro infinitamente queste macchine, ma proprio non le vorrei: che hobby sarebbe lavorare così?).

Insomma con la silice non servono mezzi termini, bisogna ricorrere al suo quasi unico nemico, un tipo duro e brutale: l'acido fluoridrico!
Qui sotto si capisce perchè l'acido fluoridrico è il nemico numero uno della silice:

SiO2 + 4 HF --> SiF4 + 2 H2O
3 SiF4 + 3 H2O --> H2SiO3 + 2 H2SiF6


si forma tetrafluoruro di silicio (volatile!) e acido fluosilicico, che a caldo si scinde ulteriormente in SiF4 e HF, mentre l'acido silicico è ancora gel di silice: in pratica pian piano è possibile attaccare la silice allontanando tutto il silicio sotto forma gassosa.
E così ho fatto.

La prossima volta vedremo come, assieme agli inaspettati risultati.

 
 
 

Test sulla pila Grenet

Post n°178 pubblicato il 18 Maggio 2012 da paoloalbert

Dopo un paio di post "storici", devo mantenere la promessa di mettere mano alla vetreria!
Lo faccio arrangiando una piccola Grenet dimostrativa, giusto per verificare quanto affermato precedentemente e per ritornare, appena possibile, in stretta sintonia col titolo di questo blog.

Materiale occorrente

- potassio bicromato K2Cr2O7
- acido solforico H2SO4
- una lamina di zinco
- un cilindretto di carbone di storta
- un multimetro digitale

In un becker da 50 ml preparare una soluzione di 3,5 g di K2Cr2O7 e 3 ml di H2SO4 conc. in 40 ml di acqua.
Si otterrà una bella soluzione rosso vivo, dovuta alla colorazione dell'acido cromico H2CrO4 formatosi.
Preparare anche una lamina di zinco (la mia era mm 10x80, spessore 2 mm) e un cilindretto di carbone di storta, per esempio recuperandolo da una vecchia pila zinco-carbone.
(Attenzione che queste pile sono in via di estinzione (sostituite da quelle alcaline) e pertanto è meglio recuperare fin che si può questi elettrodi di carbone, che torneranno utilissimi in tanti esperimenti di elettrochimica spicciola).

 

pilla test 1

                                     I componenti

 

Lo scopo di questo lavoro era verificare i parametri tensione/corrente della pila e quindi è indispensabile almeno un tester affidabile; ho usato il multimetro Schlumberger che si vede in seguito nelle immagini.
Collegare i puntali dell'apparecchio ai due elettrodi, immergere prima l'elettrodo positivo (il carbone) e sistemarlo in modo che sia stabile e non vada poi a toccare la lamina di zinco una volta immersa.
Regolare il tester, e immergere quest'ultima andando subito a misurare la corrente di corto circuito: 860 mA!

 

Pila test 2
Misura della corrente di c.c.

Considerata la superficie immersa dell'elettrodo di carbone (5,5 cm2) ne risulta una densità di corrente di più di 15 A/dm2, come una robusta elettrolisi!
Naturalmente la corrente di c.c. non è mantenibile per lungo tempo, perchè tende subito a diminuire per polarizzazione (gli elettrodi si rivestono di un velo di gas che li isola parzialmente) e la misura va quindi effettuata velocemente.
Si notano in queste condizioni di c.c. le intense reazioni redox nella soluzione: lo zinco passa in soluzione e si ricopre istantaneamente di una patina verdastra (solfato di cromo Cr2(SO4)3 che cola nel liquido e lo scurisce velocemente).

Estrarre lo zinco, lasciar respirare un attimo la povera pila tirata per i capelli e andiamo poi a misurare la tensione a circuito aperto: ecco fatto, 1,947 Volt. Perfetto, come da teoria!
Nel post precedente si era calcolata la tensione come 1,99 Volt: il risultato pratico ne conferma il valore quasi perfettamente allineato con la teoria, c.v.d.

 

Pila test 3
Misura della tensione a vuoto

Non resta che provare a collegare un carico qualsiasi funzionante a bassa tensione; è abbastanza scontato scegliere un LED, che almeno ci fa vedere in maniera "lampante" che la pila emette potenza elettrica.

Pila test 4   
Pila e LED 

Eccoli bello illuminato! Naturalmente, dato il minimo assorbimento (una ventina di mA) questa piletta dimostrativa potrebbe tenerlo acceso per un'infinità di tempo, se non fosse... per la mancanza di mercurio!
Nella vera pila Grenet l'elettrodo negativo era formato da una lamina di zinco amalgamato, per diminuire la corrosione del metallo in acido con relativo svolgimento di idrogeno (non metto la reazione!).
In questa pila dimostrativa non mi sono preso la briga di amalgamare la lamina ed ho usato zinco puro, pertanto esso reagisce anche a circuito aperto sviluppando idrogeno e consumandosi inutilmente.
Ma era scontato che questo generatore avesse in ogni caso vita breve... il tempo di fare qualche foto e nulla più!

Ora devo trovare il sistema di arrangiare in qualche modo un piccolo vaso poroso per un altro esperimento elettrochimico che mi sta a cuore da tempo (ben più complesso di questo!); appena possibile se ne riparlerà.

 
 
 

Pile di una volta

Post n°177 pubblicato il 14 Maggio 2012 da paoloalbert

Anche oggi un po' di storia... la prossima volta metto mano alla vetreria, promesso!
Però non potevo far a meno di parlarne, visto la bella pila che ho fotografato: guarda una Grenet!... mi son detto mentre girovagavo per una famosa fiera-mercato.
Questa boccia di vetro da un paio di litri, il suo collo largo con il tappo di ebanite e i serrafili in ottone nichelato la rendono assolutamente inconfondibile.

 

Pila Grenet

 

Monsieur Eugene Grenet per la verità ha fatto un po' troppo il furbo, perchè è dal 1856 che si prende tutto il merito per aver dato il nome a questa pila, che in realtà era stata inventata già quattordici anni prima da Johann Christian Poggendorff; lui l'ha resa solo un po' più pratica, prendendosi pure un brevetto tre anni più tardi.

Come è fatta questa Poggendorff-Grenet?
Come si vede, è costituita appunto da una grande boccia di vetro come sopra detto.
I due serrafili che attraversano il coperchio sono collegati al di sotto in questo modo:

- quello laterale si collega a due spesse lamine di carbone spaziate un paio di centimetri e lunghe quanto basta per arrivare fino quasi al fondo del contenitore (di solito i serrafili positivi sono due, uno per lamina, ai lati di quello centrale negativo).

- quello centrale permette il passagggio attraverso il forellino di un'astina in ottone (mancante in questo esemplare) collegata inferiormente ad una lamina di zinco (anch'essa mancante) posta tra le due di carbone; in tal modo può essere immersa o estratta dal liquido elettrolita.
Essa viene immersa nella soluzione solo quando si vuole creare una differenza di potenziale ai morsetti, bloccandola nella posizione voluta per mezzo di quella vitina che si vede.
Lo zinco era amalgamato con mercurio per proteggere l’elettrodo dall’attacco dell’elettrolita a circuito aperto.

Questa pila, come quella di Volta, è un generatore ad un solo conduttore di seconda classe, cioè di una pila in cui la soluzione elettrolitica è una sola (conduttori di prima classe sono gli elettrodi metallici, di seconda la soluzione ionica).
La lamina di zinco è l'elettrodo negativo della pila e durante il funzionamento va via via consumandosi; gli elettrodi di carbone collegati in parallelo (polo positivo) sono invece inerti, cioè servono per trasportare gli elettroni, ma non subiscono alcuna reazione.
Poggendorff usava originariamente per la sua pila una soluzione di CrO3 (anidride cromica), un bel solido in scagliette rosse solubilissime in acqua: in pratica una soluzione di acido cromico H2CrO4.

Grenet sostituì questo composto, scomodo da ottenere puro, con una soluzione solforica di bicromato di potassio K2Cr2O7, che è poi la stessa cosa (l'anidride cromica si ottiene per azione dell'H2SO4 sul bicromato; è la separazione successiva della CrO3 pura che è difficile).

Cosa avviene all'interno della bottiglia, quando la lamina di zinco viene abbassata?

Come in tutte le pile avviene una reazione di ossidoriduzione:

3 Zn + 2 CrO3 + 12 H+ => 3 Zn2+ + 2 Cr3+ + 6 H2O

e più concretamente:

3 Zn + K2Cr2O7 + 7 H2SO4 --> Cr2(SO4)3 + 7 H2O + K2SO4 + 3 ZnSO4

Ecco spiegato come gli elettrodi di carbone non partecipino alla reazione (non si consumano), mentre la povera lamina di zinco deve ossidarsi prendendosi sulle spalle metà del lavoro e sciogliendosi lentamente nella soluzione come solfato di zinco ZnSO4.
L'altra metà del lavoro la fa la soluzione, che si riduce da -CrO42- a -Cr3+ e contemporaneamente si impoverisce di ioni H+.
Da essa emerge il fatto che sia la lamina che l'elettrolita subiscono un graduale degrado, e la pila si "consuma": da un bel colore rosso vivo, la soluzione tende ad assumere alla fine la colorazione verdastra caratteristica degli ioni cromo -Cr3+ e la lamina di zinco si assottiglia sempre più.

E riguardo la forza elettromotrice, cioè la tensione ai morsetti?
I potenziali redox delle semireazioni dicono che:

Zn --> Zn2+ = -0,76 V
-Cr2O72- --> Cr3+ = +1,23 V

il salto teorico totale è 1,99 volt, pienamente corrispondente con la realtà, che è intorno a questo valore.

La disposizione degli elettrodi, molto vicini e di grande superficie, unita al tipo di elettrolita, conferisce alla pila una resistenza interna particolarmente bassa e la rende quindi idonea ad erogare correnti molto intense, anche se per poco tempo.

Ricordo che la POTENZA elettrica di un qualsiasi dispositivo è data dal prodotto della tensione per la corrente, cioè dai Volt per gli Ampere (non è mai superfluo ripeterlo...).
I volt sono in genere "facili" da ottenere, gli Ampere no, e sono questi che contano in elettrotecnica!

Dov'erano usate queste pile?

Per quanto affidabili e capaci di produrre un'intensa corrente, le pile al bicromato sono andate in disuso verso la fine del XIX secolo perché tendevano a "scaricarsi" troppo velocemente, anche se lo zinco veniva inserito soltanto quando si voleva alimentare il circuito utilizzatore.
(Nel brevetto di Grenet si fa uso addirittura di aria soffiata sugli elettrodi come depolarizzante per aumentare l'efficienza, ma ciò riguardava grandi generatori, non il singolo elemento che trattiamo in questa sede).

Oltre che per i telegrafi e le poche cose che allora andavano a corrente, erano le pile ideali da laboratorio didattico, pronte ed affidabili e che per di più non emettevano gas durante il funzionamento.
E' vero che erano a base di inquinantissimi sali di cromo esavalenti, ma allora chi ci pensava a queste cose?

Rubo dalla rete (miniera inesauribile di ogni notizia!) questa bellissima cartolina fin de siecle, nella quale si vedono campeggiare sui tavoli di un'aula dell'Istituto Industriale di Fermo delle belle Grenet... pardon, Poggendorff!

 

Altri tempi


Voglio concludere con una amara considerazione guardando la cartolina: allora non erano ancora arrivati i famigerati tagli e in classe si "lavorava" davvero... alacremente!

 
 
 

Il Genio della Lampada

Post n°176 pubblicato il 08 Maggio 2012 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

L'amico Marco mi ha recentemente invitato ad assistere ad una bella (quanto inconsueta!) conferenza sulla "Breve storia delle lampade da minatore"... ghiotta occasione alla quale ho dovuto con rammarico rinunciare.
L'oggetto "lampada da minatore" può rimandare il pensiero sai a che cosa?
A Penzance, sperduto paesello della Cornovaglia!
E perchè mai? Perchè qui è nato un genio, il Genio della Lampada, che con una insignificante reticella ha salvato la vita non a migliaia, ma ad un'infinità di lavoratori.

Mmmm, oggi sento odore di puntata biografica...
Spegni il bunsen e metti via gli alambicchi!
Andiamo a documentarci un po' e poi parliamo come viene viene sulle vicende di un Padre della scienza.

                                   ---°°°OOO°°°---

Nel 1778, la moglie del falegname di questa sconosciuta località (Penzance) mette al mondo il piccolo Humphry, destinato a diventare uno degli scienziati più celebri della sua epoca.

Humphry (che faceva Davy di cognome), ragazzo brillante con una mente curiosa come si conviene ad uno che aspiri ad un grande futuro, studia grazie al patrocinio di persone illuminate e impara tutto ciò che a fine '700 si imparava: materie classiche, matematica, elettricità, magnetismo, medicina e soprattutto sperimentazione pratica.
(Da qualche parte lo si fa ancora...).

A diciannove anni (allora si era precoci!) gli viene in mano nientemeno che il libro del povero Laurent Lavoisier "Traité de Chimie Elémentaire"; dato che Humphry aveva imparato anche il francese, può ripetere alcuni degli esperimenti di Lavoisier e veder pubblicati i suoi risultati.

Altro colpaccio di fortuna fu l'incontro a Penzance con Gregory Watt (figlio del grande James), appena giunto dall'Università di Edimburgo dove aveva studiato chimica e geologia. I due diventano amici e così il nostro protagonista viene "introdotto" (a cosa servirebbero le conoscenze altrimenti?) presso eminenti scienziati, tra cui Boulton, Priestley, e un certo Thomas Beddoes, medico di primo piano a Bristol.
Costui aveva in progetto di allestire un grande Ospedale di Pneumatica, in cui vari gas sarebbero stati somministrati ai pazienti (nel senso letterale del termine...) per il trattamento di malattie varie e ipocondria.
A quei tempi quando non si sapeva cosa diagnosticare si diceva "-soffre di ipocondria".
Davy diventa assistente e si trasferisce a Bristol, trovando un ottimo laboratorio dove poter sperimentare a piacere.

Ora succede che tra le scoperte contemporanee di Joseph Priestley vi fosse un gas che lui che aveva nominato "gas di azoto deflogisticato" (ma che simpatico questo flogisto! Bisognerebbe parlarne!).
Nel 1799 Davy sperimenta con questo gas e lo ribattezza protossido di azoto (N2O).
L'inalazione sperimentale del gas da parte del giovane Humphry (si vede che gli piaceva sniffare) gli provoca uno stato di euforia, che darà origine al nome "gas esilarante" che l'N2O tutt'ora tenacemente mantiene.
Ma non è tutto: siccome anche gli scienziati hanno il mal di denti, in occasione di un attacco Humphry si accorge che l'N2O gli fa un effetto anestetico.
Ma che bella scoperta! Ecco il protossido di azoto diventare lo standard per l'esecuzione di lavori dentali in tutto il mondo.
E così il nostro Davy, poco più che ventenne, diviene ben noto negli ambienti scientifici e sociali.

Sua Eccellenza il conte di Rumford, Sir Benjamin Thompson, fonda nel 1800 la Royal Institution, col fine di promuovere le scoperte scientifiche e la loro applicazione industriale. Come Assistente in Chimica e Direttore del prestigioso laboratorio  viene nominato... Humphry Davy!
Le sue abilità come oratore e presentatore impressionano il pubblico e subito dopo, nel 1802, il Nostro è stimato Professore di Chimica presso la prestigiosa istituzione.

Alcuni anni prima Luigi Galvani (sempre alle prese con le sue rane...) aveva mostrato la relazione tra alcune reazioni chimiche e la corrente elettrica, ma non solo: Alessandro Volta aveva nel frattempo inventato la pila, una fonte facilmente riproducibile di corrente.
Davy vede che il processo di Galvani può essere invertito e la pila di Volta lo aiuta.
Dice: se reazioni chimiche possono produrre una corrente elettrica, allo stesso modo una corrente elettrica può scindere i composti nei loro componenti!
E così, in una conferenza alla Royal Society nel 1806, Davy descrive il metodo di "elettro analisi" (elettrolisi) per scomporre l'acqua in idrogeno e ossigeno. Davy avvia da queste osservazioni una grande serie di esperimenti, che lo portano nel 1807 alla scoperta del potassio e del sodio metallici, preparati a partire dagli idrossidi. In seguito (e scusate se è poco!) prepara per elettrolisi di sali fusi gli elementi alcalino-terrosi magnesio, calcio, stronzio, bario!
Mica facile neanche oggi. Bel colpo Humphry!

Giusto duecento anni fa, si ritira dal suo incarico a tempo pieno per diventare professore onorario alla Royal Institution.
Questo gli dà più tempo per seguire i suoi interessi non solo nel campo della ricerca ma perfino nella pesca, nella poesia e in quant'altro... e perchè no, nelle attenzioni verso una ricca vedova di nome Jane.

Ma non smette di sperimentare: già giocando col pericolosissimo cloruro d'azoto NCl3 aveva perso temporaneamente la vista (Pierre Dulong, lo scopritore di questa sostanza, ci perdette definitivamente, oltre a un occhio, anche due dita...) e si prende un assistente, ma non si accontenta di uno qualsiasi, si sceglie Michael Faraday!
Davy decide di compiere un viaggio nel continente (accompagnato da Faraday) sia per andarsi a ritirare il Prix Napoleone in Francia, sia per visitare il sud Europa.
In Francia incontra il famoso chimico francese Joseph Gay-Lussac e il fisico Andre Marie Ampere.
          
       - ma quanti attori famosi ci sono in questa storia?-

Ampere gli aveva chiesto aiuto riguardo un misterioso composto che faceva i fumi viola.
Davy sperimenta addirittura nella sua stanza d'albergo francese, producendo (si vede che non ne aveva avuto ancora abbastanza!) fumi ed esplosioni: la sostanza viene identificata come elemento iodio, scoperto casualmente nel 1811 da Courtois.
Per quanto riguarda le esplosioni in camera, visto che si parla di iodio, possiamo immaginare facilmente a cosa fossero dovute...

Giunto in Italia, visto che si trova nel Paese del sole, cosa fa? Concentra i raggi solari con una lente e sacrifica un diamante bruciandolo in una sfera di vetro piena di ossigeno, dimostrando che diamante e carbonio non sono altro che lo stesso elemento. Di chi era quel diamante? Non lo so.

Tornato in patria, in nostro Humphry si dà da fare per risolvere un problema pratico di enorme importanza, che gli conferirà gloria e riconoscenza perenne.
In quel tempo gli incidenti nelle miniere di carbone erano all'ordine del giorno, dato che il grisou (metano) mieteva migliaia di vittime in tutta Europa e in Inghilterra in particolare.

Osservato che l'accensione di un gas infiammabile non si propaga attraverso una reticella metallica sufficientemente fitta, Davy inventa la famosa "lampada di sicurezza" per le miniere, in sostanza una semplice lampada a olio con la fiamma protetta da un contenitore a rete, che impedisce l'esplosione del gas in galleria.
Il Nostro, con gran gesto di magnanimità non brevetta la sua lampada ma ne fa dono alla nazione (non solo alla nazione, ma soprattutto a tante di quelle che, senza la sua scoperta, sarebbero diventate future vedove...).

Nel 1829 Davy, in uno dei suoi tour europei, viene colpito da un ictus a Roma. Durante il viaggio di ritorno a casa Sir Humphry Davy muore a Ginevra, dove è sepolto.

Lampada Davy

 

                                  ---°°°OOO°°°---

Non ho potuto assistere alla conferenza sulle lampade da minatore, ma in compenso ho colto l'occasione per ripassarmi un po' di storia... qualcosina ho guadagnato lo stesso!
Ora, scusami Humphry, ti prendo virtualmente per mano e ti porto addirittura a partecipare al diciassettesimo Carnevale della Chimica (ospitato sul blog di Leonardo Petrillo Scienza e Musica): vedrai che ci sarà tanta gente che conosci!

 
 
 

Sintesi del 1-Naftalensulfonato sodico

Post n°175 pubblicato il 04 Maggio 2012 da paoloalbert

Oggi niente divagazioni storico-personali: lo chef ci schiaffa in tavola un piatto di sola chimicaccia per palati allenati. Ogni tanto una portata pesante rende più gradevoli le successive...

In seguito a una interessante discussione scaturita riguardo la solfonazione del naftalene, ho provato la sintesi del sale alcalino dell'isomero alfa dell'acido naftalensulfonico, per verificare l'andamento della solfonazione operando in condizioni "cinetiche", ovvero sfruttando la velocità di formazione elevata di questo isomero a temperatura relativamente bassa, rispetto all'andamento "termodinamico" di formazione del più stabile beta preparato in precedenza.
La procedura ricalca fedelmente quella già proposta (ved. post dedicato); ho solo ridotto di un fattore 2,5 le quantità dei reagenti, dato che si trattava di una verifica e non di una preparazione finalizzata a sintesi successive.
Verifica cioè sulla effettiva solfonazione completa e veloce in posizione alfa in condizioni fast-soft, ovvero scaldando appena a fusione e operando molto velocemente, in maniera esattamente opposta a quella necessaria per ottenere in grande maggioranza l'isomero beta.
Traducendo:
- temperatura alta e tempi lunghi --> acido 2-naftalensulfonico (prodotto "termodinamico")
- temperatura bassa e tempi brevi --> acido 1-naftalensulfonico (prodotto "cinetico")


Naftalensulfonato 1

 

Materiale occorrente:
- naftalene
- acido solforico
- sodio idrossido
- sodio cloruro
- vetreria opportuna
 
- in un pallone da 250 ml introdurre 20 g di naftalene e riscaldare fino a fusione (80°), senza oltrepassare questa temperatura.
In una beuta da 50 ml preriscaldare contemporaneamente 18 ml di H2SO4 conc. alla stessa temperatura.
Ho fatto questo per evitare di dovere riscaldare ancora la miscela alla successiva aggiunta dell'acido freddo, affinchè sia possibile operare velocemente (mi ero posto il limite di due minuti complessivi per l'intera solfonazione).
In poche porzioni, agitando vigorosamente, aggiungere l'acido al naftalene fuso, tenendo sempre d'occhio il termometro immerso; se la miscela tende ad aumentare in temperatura raffreddare leggermente affinchè si mantenga nel range 80-85°

Naftalensulfonato 2Il naftalene tende a sublimare facilmente e nelle zone fredde del pallone si formerà uno straterello di sostanza sublimata, che non parteciperà alla reazione.
Trascorsi i due minuti complessivi dall'inizio dell'aggiunta di acido, versare subito in 250 ml di acqua fredda la miscela di H2SO4 residuo e di acido 1-naftalensulfonico formatosi.
La leggera torbidità è dovuta al naftalene non reagito, che comunque è molto poco; potrebbe essere dovuta anche a piccole quantità di dinaftilsulfone C10H7-SO2-C10H7 insolubile, ma non posso confermare che la sua formazione avvenga anche a temperatura così bassa.

Naftalensulfonato 3In ogni caso filtrare, ottenendo una soluzione solo leggermente opalescente.
Neutralizzare ora con NaOH al 20%; siccome c'è H2SO4 in eccesso ne serve una buona quantità e verso la fine procedere molto lentamente, senza far diventare basica la soluzione.
Procedere ora alla "salatura", per far precipitare la maggior quantità possibile del naftalensulfonato sodico; per far questo saturare con NaCl solido, mescolando fino a soluzione e poi aggiungere ulteriormente.

Naftalensulfonato 4Scaldare fino a circa 80° eventualmente continuando ad aggiungere NaCl alla soluzione che a caldo rimane leggermente rosata ma quasi limpida.
Lasciando raffreddare si ha abbondante separazione di 1-naftalensulfonato sodico in microcristallini leggeri ma molto meno voluminosi rispetto all'isomero beta e purtroppo molto più solubili.
Filtrare su buchner spremendo il più possibile il prodotto, che rilascia l'acqua molto facilmente.

Lavare goccia a goccia con acqua molto fredda per eliminare il più possibile i cloruri e i solfati, che in ogni caso rimarranno in piccola quantità nel prodotto; non è possibile lavare più di tanto perchè questo naftalensulfonato come dicevo è ben solubile in acqua e insistendo col lavaggio se ne perderebbe troppo.
Per questo motivo non ho ricristallizzato da NaCl perchè non avrei guadagnato in purezza e ne avrei perso ancora.
Dopo il lavaggio lasciar seccare all'aria.

 

Naftalensulfonato 5

 

Il 1-naftalensulfonato sodico si presenta sotto forma di polvere microcritallina leggera che tende a impaccarsi di colore appena appena beige; non deve odorare per niente di naftalina.
Anche questa sintesi è abbastanza facile (attenzione alla T°!) ed è servita allo scopo prefissato.
La resa ottenuta è di 12 g, pari ad un misero 33%, che si spiega in grandissima parte per le perdite per solubilità e non per il naftalene non reagito (che reputo inferiore al 10%, a parte quello sublimato).
Purtroppo non ho alcun modo di verificare la purezza in isomero alfa rispetto al beta, ma avendo operato a temperatura appena sopra il punto di fusione e molto velocemente, probabilmente il beta stava ancora organizzandosi per farsi largo nell'ambiente che già la miscela solfonante è stata buttata in acqua; quindi dovrebbe essere in netta minoranza. 
Almeno credo (e spero a ragione!) che sia andata così; le proprietà diverse, anche macroscopicamente, dei due prodotti dovrebbero confermare questa ipotesi.

 
 
 

Un minerale "buttato nell'acido"

Post n°174 pubblicato il 27 Aprile 2012 da paoloalbert

A Montevecchio ero riuscito fortunosamente a reperire, come si ricorderà, due "sassi" interessanti, gli unici fortemente mineralizzati che ero riuscito a trovare razzolando in una discarica difficilmente accessibile.
E' arrivata l'ora di "buttare nell'acido" (...fare un'analisi ruspante ma attendibile dei metalli contenuti) uno di questi campioni; quello più significativo è quello a destra nelle immagini qui sotto.

 

Montevecchio 1 Montevecchio 2

 

 

 

 

 

Devo dire che l'analisi ha completamente smentito le mie supposizioni: avevo ritenuto trattarsi di blenda... e invece di tutt'altro si tratta!

Ma andiamo a procedere.

Ho inizialmente misurato la densità del minerale, che ha fornito un valore di 3,5; il colore è molto scuro, con riflessi metallici e associazione evidente a galena, che è un minerale abbastanza inconfondibile (la foto non rende l'idea).
I tratti "somatici" del minerale, una certa esperienza, l'associazione con la galena e il sito di reperimento mi indirizzavano decisamente verso una blenda scura ma molto probabile.

Ho trattato 5 g di minerale, scegliendo la parte con meno ganga, con acido cloridrico concentrato a caldo, fino a dissoluzione quasi completa.
Il residuo insolubile era costituito da quarzo.
Il colore della soluzione, giallo carico, è stato un indice immediato dell'alto contenuto in ferro del campione.
Dopo aver tirato a secco, ottenendo un abbondante residuo giallo-marrone, ho ripreso con HCl diluito e filtrato.
Mi riproponevo di eseguire l'analisi sistematica per gruppi, mirata solo al piombo (eventuale argento), allo zinco e al cadmio, secondo l'idea iniziale della blenda.
La presenza di quintalate di ferro rendeva impossibile questo procedimento, rendendo necessario separare per quanto possibile il ferro dal resto.

Per puro scrupolo, ma senza alcuna aspettativa reale, ho trattato il residuo sul filtro con ammoniaca concentrata in modo che l'eventuale AgCl presente si solubilizzasse sotto forma di Ag(NH3)2Cl e su questo percolato limpido ho aggiunto di nuovo HCl per far riprecipitare l'AgCl: la mancanza del minimo accenno di intorbidamento ha fatto escludere la presenza di argento nel campione (in quantità "umane" si capisce; le tracce infinitesime non ci interessano).

Prima di procedere a separare il ferro per cercare lo zinco, ho trattato una parte della soluzione cloridrica di base, opportunamente diluita, con cromato di potassio K2CrO4, ottenendo un significativo precipitato di cromato giallo di piombo PbCrO4, indice della presenza di questo metallo.


Montevecchio 3

                      Precipitazione del cromato di piombo

Il piombo infatti, se in piccola quantità, non rimane tutto come residuo insolubile del primo gruppo analitico ma passa in soluzione anche sotto forma del poco solubile PbCl2 e viene rivelato con sicurezza dal cromato.

Successivamente ho trattato la soluzione cloridrica con NaOH fino a pH fortemente alcalino, in maniera da far precipitare tutto il ferro come idrossido e solubilizzare lo zinco come zincato Na2Zn(OH)4.
Ho lasciato decantare perfettamente (filtrare l'idrossido ferrico è quasi impossibile!) e sulla soluzione limpida portata a pH neutro ho fatto gorgogliare acido solfidrico H2S per far precipitare tutto lo zinco presente (si può sostituire vantaggiosamente questa reazione per riscaldamento con tioacetammide).
Risultato: tracce minime di precipitato, lo zinco è presente solo in quantità irrilevante.

Allora per consolazione non rimaneva altro che fare le due classiche quanto scontate prove per il ferro col tiocianato e col ferrocianuro.
Del tiocianato mi manca l'immagine mentre un becher di soluzione diluita si riempie di blù con un po' di sol. di K ferrocianuro.

 

 Montevecchio 4

Ferrocianuro ferrico (Blù di Prussia)

Non metto le formule e le reazioni perchè sono banali e scontate; ecco le due foto finali, del tiocianato ferrico e del blù di Prussia, che dichiarano a gran voce che il minerale trovato NON era blenda ma un volgare (per modo di dire) minerale di ferro contaminato, diciamo così, da una discreta quantità di galena con associata pochissima blenda.
A Montevecchio esistevano anche dei filoni a ferro (ossidi vari) e la dimostrazione è anche il colore di quel rio dai depositi limonitici che scende a est della miniera e che si vede in una foto di un post precedente.

Morale: a Montevecchio, regno incontrastato del piombo e dello zinco, sono andato a beccare proprio un filone di mineralaccio di ferro... bah, dovrò mettere in conto di ritornare in Sardegna per forza!

 
 
 

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