Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

Messaggi di Marzo 2011

Preparazione del Siliciuro di magnesio

Post n°93 pubblicato il 31 Marzo 2011 da paoloalbert

Lo scopo di questo esperimento lo si vedrà appieno nel prossimo post (anche se qualcuno lo potrà facilmente intuire).

La reazione fondamentale da eseguire è la seguente:

4 Mg + SiO2 --> 2 MgO + Mg2Si

in cui il magnesio si ossida a spese dell'ossigeno della silice ed il silicio si riduce da ossido ad elemento e si combina con l'eccesso di magnesio per dare il siliciuro Mg2Si.

Preparazione della silice

Come fonte di SiO2 ho usato sabbia comune, a dire il vero molto impura per calcio e ferro; non avendo a disposizione silice pura, ho lavato prima la sabbia con acqua e poi con HCl al 15% a caldo; in questo modo viene eliminato il calcare ed un po' di ferro.
Risciacquando, decantando e filtrando più volte, rimane aderente al filtro in questo modo anche una buona parte della componente argillosa. Dopo aver fatto seccare all'aria, polverizzare un po' della sabbia trattata in mortaio, ottenendo una polvere grigia molto fine. A questo punto la silice va seccata a temperatura elevata mescolando, per eliminare ogni traccia di umidità.

La procedura che segue è delicata e va eseguita con le dovute precauzioni e in ambiente adatto. Modifiche maggiorative nelle dosi indicate o umidità nei reagenti possono portare a reazione incontrollata o comunque pericolosa.

Materiale occorrente:

- silice SiO2 pura (in mancanza, prepararla come sopra)
- magnesio in polvere
- provetta a perdere
- bunsen

- mescolare 2 g di polvere di magnesio e 1,5 g della silice prima preparata (questa è in leggero eccesso per compensare la purezza) e porli sul fondo di una provetta asciuttissima e "sacrificale". Il motivo di questo termine lo si capirà alla fine dell'esperimento.
Coprire la miscela con un paio di millimetri di silice, per isolarla dal contatto dell'aria.
Preparare un setup adeguato in cui sia possibile appendere con un morsetto la provetta inclinata a 45° in maniera stabile ed in modo che sia possibile investirla con la fiamma forte del bunsen. Porre il tutto su una base non infiammabile.

Non tenere manualmente la provetta con la pinza di legno!

Quando è tutto pronto investire la provetta con la fiamma del bunsen ed allontanarsi quanto basta in sicurezza; la reazione ci mette un po' ad avviarsi ma poi improvvisamente parte in un punto e diventa in un attimo assai "vivace" (eufemismo...!), con possibile proiezione di materiale incandescente, oltre ad emissione abbondantissima di fumo bianco di ossido di magnesio MgO.
La provetta fonde parzialmente, certamente si rompe ed ai frammenti rimane aderente un residuo nero; lasciar raffreddare, rompere completamente il fondo della provetta e separare il residuo dai pezzi di vetro.
Raccogliere il prodotto in un contenitore al riparo dall'umidità.

Naturalmente quando si parla di combustione avvengono sempre altre reazioni secondarie indesiderate, che portano il siliciuro di magnesio ottenuto ad essere molto impuro, tuttavia sufficiente per gli usi di curiosità che ne andremo a fare.
Mg2Si si presenta come una polvere nera, con alcune scagliette più grandi.
Bagnato con acqua emana odore di ammoniaca perchè in una delle reazioni secondarie si dorma anche azoturo di magnesio Mg3N2 che inumidito genera appunto NH3.

 

Magnesio siliciuro

 

Per ora mettiamo da parte il nostro nero siliciuro in attesa di vedere cosa sarà capace di fare la prossima volta.

 
 
 

Contatore Geiger FH-40b

Post n°92 pubblicato il 27 Marzo 2011 da paoloalbert

Poco meno di un quarto di secolo fa (mannaggia quanto tempo...!), mi ero procurato un contatore Geiger ex militare dell'Esercito tedesco, sull'onda emozionale dell'evento di ЧернобЫл, anche se troppo tardi per poterlo provare in diretta sul fall out italiano di quel disastro nucleare.
Quando l'ho preso speravo (e ovviamente non ho cambiato idea!) di non doverlo mai usare "sul campo", ma solo di studiarlo come curiosità tecnica e per una recensione che dovevo fare per una rivista di elettronica; dopo di chè finì a far compagnia a tanti altri apparecchi di provenienza ex militare serviti al medesimo scopo divulgativo.

In questi tempi molto sfortunati per il Sol Levante, ho riesumato il mio vecchio articolo e rispolverato l'apparecchio, purtroppo tornato forzatamente di moda con il disastro di Fukùshima.
Il Geiger qui presentato è il modello FH-40b, costruito nel 1963 dalla Frieseke & Hoepfner, nel pieno periodo della guerra fredda, quando tra i due muri contrapposti aleggiava costante la possibilità del lancio estemporaneo di qualche bombetta atomica tattica...
Tutti i reparti militari tedeschi, anche a basso livello, erano equipaggiati fin da allora di semplici ma affidabili apparecchi per la rilevazione campale di radioattività, e l'FH-40b è uno di quelli.

Senza entrare nel funzionamento di un Geiger (ciò si trova facilmente altrove), dico solo due parole sullo schema: tutto ruota attorno al tubo sensibile alle radiazioni β + γ (FHZ76V); un transistor funziona come oscillatore per la generazione dell'alta tensione necessaria al tubo (500 V) e altri tre transistors costituiscono gli stadi di amplificazione per il pilotaggio del milliamperometro e dell'uscita in cuffia.
Altra parte rappresenta le varie commutazioni di scala e altre accessorie.
L'alimentazione era data in origine da una batteria ricaricabile al Ni-Cd da 6V, che ho sostituito con due da 3V al litio.

I fondo scala di lettura dell'apparecchio sono rispettivamente 1 R/h, 25 mR/h, 0,5 mR/h, 10.000 impulsi/min, 320 impulsi/min e quindi l'unità di misura è espressa in mR/H (milliRoentgen/ora) ed in impulsi/min, che sono i classici ticchettii che si sentono nei film catastrofici quando viene inquadrato un Geiger.
La sensibilità sulle due scale 0-0,5 mR/h e 0-320 i/h è sufficiente a rilevare la radiazione naturale di fondo, che nella mia zona sono mediamente circa 6-7 impulsi al minuto. Essendo il fondo dovuto prevalentemente alla radiazione cosmica casuale, può capitare che lo strumento se ne rimanga zitto anche per mezzo minuto e poi improvvisamente riveli 3-4 "particelle" in una decina di secondi. Il fondo naturale è grossolanamente da 0,01 a 0,03 mR/h.

Per vedere e sentire lo strumento in funzione ho avvicinato per l'occasione al tubo sensibile un milliamperometro di un apparecchio aeronautico militare della seconda G.M., che ha i riferimenti che un tempo erano fosforescenti per poter essere letti al buio.
La fosforescenza era allora provocata aggiungendo alla vernice a base di solfuro di zinco una piccola quantità di sostanze radioattive (che non è possibile determinare: forse Th232, Ra226, ???).
(Per associazione, mi vengono in mente in questo momento le famose "Radium Girl" degli anni '20 dello scorso secolo: provate a dare un'occhiata cercando questo nome con Google e poi possiamo riparlare della sensibilità ambientalista di qualche decennio fa...).

Fh-40 1La radiattività letta con questo milliamperometro ex luminescente a contatto del tubo raggiunge picchi di 0,40 mR/h, una ventina di volte oltre il fondo naturale.
Ma possiedo anche un ALTRO milliamperometro, sempre dello stesso periodo, che lo batte di un ordine di grandezza!! (Per questo motivo, a suo tempo l'avevo nascosto talmente bene che in una ricerca affrettata tra le mie cose non sono riuscito a trovarlo... e ho dovuto usare la riserva).

Fh-40 2
Quando ho fatto le fotografie che si vedono qui accanto stava passando da noi la prima nube di Fukùshima (siamo nel 2011), e naturalmente, data l'estrema diluizione della radioattività dopo aver attraversato mezzo mondo, niente è stato rilevato dalle mie semplicissime e momentanee osservazioni.

Sarei curioso, solo virtualmente s'intende!, di vedere dove sarebbe andata la lancetta dell'FH-40 se mi fossi trovato nel medesimo momento in qualche posto del nord del Giappone...

 
 
 

Tornasole, un indicatore fuori moda

Post n°91 pubblicato il 23 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Mi trovo a possedere un po' di tornasole, quello classico, vegetale.
Si tratta di una vecchia tintura di chissà quanti anni fa, la quale, inusata da altrettanto tempo, ho voluto far risorgere per un attimo agli onori del pH, vista anche la bella giornata di fine inverno che mi ha permesso di fare un paio di foto.
Per chi non lo sapesse (che ci sia qualcuno?) il tornasole è un indicatore, cioè una sostanza che cambia colore a seconda dell'acidità, neutralità o basicità dell'ambiente in cui si trova: in sostanza indica il pH della soluzione.
I meno giovani avranno forse visto le vecchie "cartine", delle striscette di carta di colore tra il rosa e il viola chiaro che venivano usate nei laboratori scolastici per la verifica del pH, quando i fondi per i laboratori di chimica c'erano perfino per la scuola media...

 

Tornasole 2

 

L'ho chiamato indicatore fuori moda perchè ormai è un ausilio chimico assolutamente obsoleto, sostituito produttivamente da molti altri indicatori molto più selettivi nel range di pH da controllare, e soprattutto dalle comodissime "cartine universali": sono dei lunghi rotolini di carta assorbente imbevuta di una speciale miscela di indicatori che cambiano una varietà di colori in un range molto ampio, tant'è che dalla tonalità di colore assunta si può apprezzare il valore del pH di una soluzione a step di una unità, da 1 a 12 e in un campo più ristretto anche con maggior definizione.

Il tornasole (come quasi tutti gli indicatori singoli) ha due tonalità di colore: è rosso sotto pH 4,5 e viola-bluastro sopra pH 8,3; tra i due valori, cioè circa alla neutralità, è un brutto rosa smorto.

Tornasole 1Questa sostanza naturale è un colorante ricavato da molti vegetali diversi della famiglia dei licheni, a seconda della zona geografica; principalmente si ricavava dalla Roccella tinctoria, che è un lichene diffuso dall'area mediterranea a quella nordica.
Da questi licheni, fatti fermentare in bagni basici o ammoniacali (è interessante notare come nei secoli passati l'urina fosse un prodotto molto usato in preparazioni le più varie) si estraeva un tempo l"oricella", un colorante viola usato fin dal XVI secolo per tingere seta e lana.

Il principio colorante fondamentale di questi prodotti è il 7-idrossifenoxazone e suoi derivati, ma sono presenti molti altri costituenti, come le orceine, che sono molecole di 3,5-diidrossitoluene legato variamente al 7-idrossifenoxazone.

Non sono riuscito a trovare una giustificazione certa dell'etimologia del nome italiano tornasole e francese (tournesol); il prefisso "torna" esprime chiaramente il senso di "voltare, girare" come i girasoli si volgono verso il sole, come del resto ricorda anche il prof. Guilizzoni nella sua "Etimologia di alcuni termini scientifico-tecnici".
Ma perchè un così chiaro riferimento ai girasoli, piante estremamente diverse dalla Roccella mi rimane ignoto.
Molto più convincente è invece l'interpretazione per le lingue anglosassoni e nordiche, che lo chiamano litmus: dal vichingo "lit-mosi" (inglese litr "dye" e mosi "moss"), cioè "muschio colorante".
Il nostro arcaico termine "laccamuffa" con il quale si chiamava talvolta il tornasole, deriva sicuramente da questo termine nordico.
Questo storico indicatore, perso terreno nei laboratori chimici e negli opifici tintori, ne ha guadagnato altrettanto nel comune linguaggio per trasposizione figurata, tanto che oggi è diventato comune il modo di dire "cartina di tornasole" per indicare qualcosa che indica o meno lo stato d'essere di una situazione, magari anche politica.

Strana sorte per questa sostanza! Ma guardiamola qui sotto nella sua veste chimica più consona: le tre provette sono rispettivamente acida, basica e neutra, e questi sono i colori reali (che a dire il vero non sono un granchè) del vero tornasole.


Tornasole 3

 

 
 
 

Galeotto fu il libro

Post n°90 pubblicato il 19 Marzo 2011 da paoloalbert

Parlando recentemente dell'acqua borica ho voluto accennare alla buon'anima di mia nonna Beatrice, la quale, grazie alla sua immancabile bottiglia di H3BO3 nell'armadio, ritengo che abbia in qualche modo contribuito all'impianto del virus chimico nell'allora verde e incontaminato DNA del sottoscritto.
Ma questa della nonna fu solo una secondaria "infezione" fra le tante che mi colpirono chimicamente in tenera età: sono sicuro che il vero "innesto", se così si può dire, che modificò per sempre e irreversibilmente la mia "doppia elica" fu cagionato dalla precocissima lettura del libro che si vede qui sotto.

 

Squinabol 1

 

Il prof. S.Squinabol, illustre geologo di Rovereto, era certo una mente eclettica (una parte di merito va certo riconosciuta anche al prof. Cresci) perchè questo bel tomo targato 1898 contiene argomenti di chimica, di fisica, di mineralogia e di elettrologia, tutti descritti in maniera semplice e accattivante, e nello stesso tempo esauriente quanto basta agli scopi del libro, che era destinato agli alunni (nel caso dei miei bisnonni, di Rovereto) delle allora "scuole normali", corrispondenti alle classi superiori di oggi.

Le immagini di questi libri sono tutti piccoli capolavori tecnici di disegno e ombreggiatura, che rendono l'oggetto rappresentato molto più significativo di una cruda fotografia; ne propongo due come esempio: la simulazione in laboratorio delle camere a piombo per la produzione dell'acido solforico

 

Squinabol 3

 

e la generazione artificiale dei "fuochi fatui" (ovvero delle fosfine PH3 e P2H4), con gli immancabili anelli di fumo che si innalzano dal recipiente pieno d'acqua!

 

Squinabol 2

 

Ma il libro è pieno di immagini simili, su ogni argomento trattato: dalla pistola di Volta innescata con una macchina elettrostatica, al fonografo di Edison fresco di invenzione, alla macchina di Carrè per fabbricare il ghiaccio, fino alla più spinta avanguardia: il telegrafo senza fili, fresco... di concezione!

Potevo, io bimbo non ancora vaccinato a niente (ma certamente "presensibilizzato" per cause ignote), rimanere insensibile a reiterate e reiterate letture del libro del bisnonno?
Avrei potuto resistergli? No, impossibile! Tant'è che ancora oggi ogni tanto me lo guardo...

 
 
 

La sfilata delle Acque storiche

Post n°89 pubblicato il 16 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Siamo in periodo di Carnevale (chimico, s'intende...): perchè non far sfilare virtualmente delle mascherine in costume d'epoca, travestite da Acque storiche?
Infatti c'è acqua e acqua nella vecchia chimica dei miei post: anzi ce ne sono tante!
Andiamo a dare un'occhiata...

Faccio marciare queste "Acque storiche" così come me le sono ricordate, più o meno secondo l'uso che di questa "acqua" si faceva; non è detto che siano tutte formate letteralmente da H2O, (anzi nessuna lo è del tutto)  e nemmeno che siano completamente obsolete: qualcuna di esse si usa ancora ed ha conservato il nome originale. Immaginiamocele vestite come meglio ci pare: taca banda!



LE ACQUE ALOGENATE

Le soluzioni acquose degli alogeni sono abbastanza importanti per la chimica analitica:

Acqua di cloro: è una soluzione di due volumi di cloro Cl2 in un volume di acqua (il cloro è poco in peso!); si forma un equilibrio ionico di Cl-, H+ e ClO-. Ha le stesse proprietà ossidanti del cloro gassoso, ma in forma blanda e maneggevole.

Acqua di bromo: bella soluzione di colore rosso aranciato al 3% di Br2; usata soprattutto in chimica organica per il riconoscimento dei doppi legami, ai quali il bromo si lega con conseguente decolorazione del reattivo.

Esisteva anche una sfuggente Acqua di iodio, utile per la conferma analitica dei bromuri col metodo all'argento.


LE ACQUE "ALCALINO-TERROSE"

Chiamo in questo modo le soluzioni acquose degli idrossidi dei metalli alcalino-terrosi.

Acqua di calce: soluzione allo 0,5% di idrossido di calcio, Ca(OH)2; serve/serviva come liquido alcalino in varie occasioni, in arte, nel restauro, per regolare il pH degli acquari, ecc.

Acqua di barite: soluzione al 5% di idrossido dai bario, Ba(OH)2; può essere ancora utile per la rivelazione o la conferma della presenza di anidride carbonica in un gas: il Ba(OH)2 in presenza di anidride carbonica (CO2) si trasforma in carbonato di bario BaCO3 insolubile e ben visibile.

Per completezza c'era una volta anche la più esotica e suggestiva Acqua di stronziana, Sr(OH)2, di usi analoghi, dove il metallo alcalino-terroso è il simpatico Stronzio.


LE ACQUE MEDICINALI

Le acque ad uso di farmacopea sono infinite se ci si vuol riferire anche ai decotti e soluzioni di sostanze curative di origine per lo più vegetale; in questa sede voglio ricordare invece solo un paio di acque prettamente chimiche, la cui presenza nelle domestiche "farmacie" risale fino a non molti decenni fa.

Acqua borica: soluzione al 3% di acido borico, H3BO3, estratto soprattutto da alcune sorgenti toscane di vapore caldo (soffioni boraciferi); l’acqua borica veniva generalmente utilizzata per disinfettare leggere lesioni come eczemi e ustioni, e per bagni oculari. Ricordo che mia nonna ne aveva sempre una bottiglia pronta nell'armadietto... assieme a tante altre belle cose dei tempi che furono. Sicuramente devo qualcosa anche a mia nonna riguardo il virus chimico che mi ha contagiato sin da piccolo!

Acqua vegeto-minerale: era una soluzione al 1% di acetato basico di piombo, Pb(CH3-COO)2.Pb(OH)2, ed era detta anche Acqua di Saturno; serviva per lenire i dolori dovuti a contusioni o slogature. Oggi questo zuccherino sale di piombo, anche allora sorvegliato speciale, non sarebbe certo lasciato libero...).

Acqua epatica (anche Acqua zolfa): è una soluzione naturale di acido solfidrico H2S.
Ancora oggi questa acqua termale è in vendita (a carissimo prezzo!) in minibottigliette con spruzzatore per irrigazioni nasali. Sentite cosa dice in merito Pier Segni sulle sue "Chiose sopra Dante" nel 1846:
"Et era questo lago sì puzzolente in alcune parti per l'acqua zolfa che dentro vi entrava, che spesse volte gli uccelli che sopra vi volavano, per lo gran puzzo cadevano morti".

Acqua tofana: mi prendo la libertà di aggiungere qui, anche se certamente medicinale non è, la cosiddetta Acqua tofana o Acquetta di Perugia: nonostante il nome carino e insospettabile, era una micidiale soluzione, in gran voga soprattutto nel periodo rinascimentale, di anidride arseniosa As2O3, con aggiunta di altre sostanze estremamente tossiche (sali di piombo, alcaloidi come cantaridina, atropina, aconitina) usata espressamente per avvelenare il prossimo. E' uno dei simboli degli antichi veleni, un tempo assai più usati di oggi per liberarsi degli scomodi concorrenti agli effimeri troni o, più modestamente, dei concorrenti... di letto!


LE ACQUE SBIANCANTI

Sono soluzioni di ipocloriti alcalini, utili prodotti per l'industria e per l'impiego domestico.

Acqua di Javel: è una soluzione al 5% di ipoclorito di sodio, NaClO, ed è ancora ai giorni nostri sulla cresta dell'onda. Se potessimo andare in un ipotetico supermercato di un secolo fa, la normale candeggina si troverebbe sullo scaffale in una bella bottiglia di vetro con una arzigogolata etichetta belle epoque: "Acqua di Javel"! (dal nome del quartiere parigino Javel, nel quale lavorava a fine '700 il famoso chimico C.L.Berthollet).

Acqua di Labarraque: idem come sopra, ma si dà un po' le arie da nobile! Anzichè essere plebeo ipoclorito di sodio era aristocratico ipoclorito di potassio KClO.
Non è più in uso da un centinaio d'anni perchè i sali potassici costano assai di più di quelli sodici e non ha quindi ragion d'essere.

Acqua ossigenata: il perossido di idrogeno H2O2 non è certo caduto in disuso e rimane un importantissimo prodotto industriale e reagente chimico. Come uso detergente/sbiancante l'acqua ossigenata viene oggi usata spesso sotto forma di perborato di sodio (NaBO2.H2O2.3H2O) , ormai anche lui sostituito dal percarbonato di sodio (Na2CO3.1,5H2O2), sostanze che in acqua calda liberano H2O2 e indirettamente ossigeno attivo, dalle proprietà disinfettanti e sbiancanti per il bucato.
L'acqua ossigenata entrerebbe di diritto anche nelle precedenti acque medicinali, ma la cito solo qui dato che la sua azione disinfettante è dovuta proprio allo svolgimento di ossigeno attivo, fortemente ossidante.


LE ACQUE ACIDE

Non mi riferisco alle deboli e dannose piogge acide, ma a sostanze che acide lo sono veramente in massimo grado.

Acqua regia: L'acqua regia è una miscela composta da un volume di acido nitrico HNO3 e tre volumi di acido cloridrico HCl concentrati. I due acidi mescolati danno origine al cloruro di nitrosile NOCl, sostanza estremamente aggressiva nei confronti di quasi tutti i metalli; il suo nome deriva dalla sua capacità di sciogliere i metalli nobili, oro compreso, considerato dagli alchimisti il "re dei metalli" in quanto praticamente inattaccabile dalle altre sostanze. Nessuno dei due acidi che compongono l'acqua regia riuscirebbe singolarmente ad attaccare l'oro ed il platino; d'altra parte vi sono alcuni metalli particolari, come il tantalio, l'iridio, l'osmio e pochi altri, che sono eroicamente in grado di resistere anche all’acqua regia!

Acqua forte: è acido nitrico, HNO3, al 65%; si usava e si usa ancora per la corrosione del rame nella fabbricazione delle cosiddette "acqueforti"; è una tecnica di stampa nella quale lastre di rame sono incise opportunamente con immagini per mezzo dell'acido, e forniscono le matrici per delle vere opere d'arte, alle quali si sono cimentati grandissimi artisti del passato e del presente (allego in fondo come piccolo esempio una vecchia cartolina ottocentesca ottenuta all'acquaforte).


LE ACQUE SOLVENTI

Acqua ragia: dal greco "radnis" goccia, si intende per acqua ragia un distillato ottenuto dalla resina che stilla dalle conifere, specialmente dal pino marittimo. Mi è capitato di vedere di persona questa raccolta qualche anno fa campeggiando in un suggestivo bosco portoghese circondato da queste profumate piante, ognuna col suo barattolino alla base pieno di resina!
E' detta anche olio di trementina o essenza di trementina ed è un liquido incolore, di odore penetrante, usato come solvente; è composta principalmente da terpeni (pinene) e  sesquiterpeni.
I terpeni sono biomolecole costituite da multipli dell'isoprene...
L'acqua ragia naturale (più costosa) è sempre più sostituita dalla cosiddetta "acqua ragia minerale", che è una miscela di idrocarburi alifatici e in minor misura aromatici. Per motivi commerciali si tende a mantenere il nome originale per dare un senso più "naturale"  al prodotto, visto che oggi la stupida moda del "chimicamente corretto" impone che tutto ciò che è "naturale" sia buono e tutto ciò che è "chimico" sia  per definizione cattivo.

L'Acqua in sè è il principale solvente della natura, ma ciò è sottinteso e non val la pena di aggiungere nulla a questo concetto, che è fondamentale e complesso dal punto di vista chimico-fisico, ma che esula da questi nostri semplici discorsi.

Le mie 16 liquide mascherine del Carnevale Chimico sono sfilate, magari qualcuna mi è anche sfuggita... se la trovate in giro, ditemelo! Mi spiace solo non poter abbinare ad ogni "acqua" una adeguata immagine, che ci sarebbe stata benissimo! Ma ne sarebbe risultato un post troppo ingombrante (lo è già così com'è!) ed allora ne metto solo una in rappresentanza di tutte e in omaggio, se mi è permesso il singolare accostamento, all'acido nitrico e a Durer, con la sua acquaforte sull'Arte e l'Alchimia.


Arte alchimia Durer

 
 
 

Una reazione specifica per il rame

Post n°88 pubblicato il 14 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

In chimica analitica tradizionale s'intende per reazione specifica una reazione (che si evidenzia in qualche modo) che avviene solo con un determinato catione o anione.
Ricordo che i cationi sono i metalli (o meglio i loro ioni in soluzione) e gli anioni i residui acidi (solfati, cloruri, nitrati, ecc.).

Quando la chimica analitica poteva contare meno di adesso di sofisticate e ultrasensibili apparecchiature per la determinazione della composizione di una sostanza incognita, l'impiego delle reazioni specifiche era abbastanza diffuso e di evidente utilità per dirimere qualche dubbio in merito ad una analisi.
Avendone l'occasione ho riprovato un vecchio metodo per la ricerca del rame per mezzo di un reattivo particolare, la benzoinossima.
Le ossime sono in chimica organica quelle sostanze che hanno attaccato da qualche parte il gruppo =N-OH, come si può vedere dalla formula del reattivo protagonista dell'esperimento di oggi.

 

Benzoinossima

 

Anche questo metodo di analisi è merito di quello spirito intraprendente di Fritz Feigl (1923, foto) del quale già ho parlato brevemente in occasione del periodato di potassio.

Materiale occorrente:

-soluzione al 5% di benzoinossima in etanolo
- soluzione diluitissima di un sale di rame
- ammoniaca
- vetreria opportuna

Ho seguito la procedura indicata qui sotto, provando il test su una soluzione contenente circa 200 mg/l di acetato di rame, pari ad una concentrazione di poco più di  50 mg/l di ioni rame.

Rame benzoinossima 1-Mettere in un piccolo becker qualche ml di ammoniaca concentrata e coprirlo con una carta da filtro; porre al centro un paio di gocce di soluzione contenente Cu2+, lasciare che si espandano sulla carta; aggiungervi sopra un altro paio di gocce di reattivo benzoinossima.

Dopo un po' apparirà un alone verde chiaro, in dipendenza della concentrazione.
Come si vede la reazione è sensibilissima.

 

Rame benzoinossima 2Per visualizzare macroscopicamente il complesso verde che il reattivo forma con il rame, ho preparato una provetta con una concentrazione in rame maggiore, resa leggermente basica con ammoniaca, ed ho aggiunto lentamente, senza mescolare, circa 1 ml di reattivo: si vede bene il precipitato verde nell'interfaccia tra i due liquidi.

Il metodo con la carta da filtro è comunque molto più sensibile e corretto.

Un altro reattivo interessante e molto simile che dà più o meno le stesse reazioni con il rame è la salicilaldossima, che da soluzioni debolmente acetiche forma un precipitato giallo-verde. 
Avevo già detto che mi sono simpatici tutti i composti dello zolfo? No?
Allora ci sarebbe anche un terzo interesssantissimo e molto più esotico reagente, l'acido rubeanidrico o dithiooxamide (H2N-CS-CS-NH2)... ma per ora lasciamo in pace questo composto visto che la sua sintesi, nonostante la semplice formula, non è proprio fattibile.

 
 
 

La chimica in maschera

Post n°87 pubblicato il 11 Marzo 2011 da paoloalbert

Il 2011 è stato nominato dall'ONU, dall'UNESCO e dalla IUPAC "Anno internazionale della Chimica".
Tra le iniziative proposte a vari livelli, ve n'è una simpatica ospitata questo mese (la terza edizione del 2011) sul blog del "chimico impertinente" Gifh, ed è il Carnevale della chimica.

 

Acqua

 

L'ACQUA: UNA SOLUZIONE CHIMICA, è il tema proposto; l'argomento, pur esplicito, non è letteralmente vincolante poichè sono ammesse opportune divagazioni trasversali dalla secca formula H2O.

 

Apprezzando l'invito di Gifh a partecipare a questa edizione del Carnevale, che ha scopo divulgativo scientifico ed è dedicato principalmente ai non chimici, tenterò di scrivere qualcosina che mi verrà in mente che abbia attinenza al tema proposto.

La scadenza del "gioco" è il 23 marzo, quindi se entro tale data si leggerà qualcosa di acquoso sul blog, quella sarà la mia mascherata...

 

 
 
 

Ma perchè tre pale? (Terza e ultima puntata)

Post n°86 pubblicato il 08 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Per quella serie di considerazioni aerodinamiche viste, per le quali le pale nella rotazione attorno all'asse del rotore sono alternativamente una forza motrice e un freno, la soluzione migliore (se non ci fossero problemi di bilanciamento) si otterrebbe con un sistema monopala, che avrebbe la maggior velocità di rotazione e quindi maggior rendimento meccanico al sistema di ingranaggi per l'alternatore collegato all'asse.
Questo perchè un'elica, a parità di potenza assorbita, gira tanto più velocemente quanto meno numerose sono le pale.
La velocità di rotazione di un sistema eolico è quindi inversamente proporzionale al numero delle pale: una sola pala (bilanciata!) = velocità alta; tante pale = velocità bassa.
(Ricordare i film western: le palette sono tante e fanno un bell'effetto ottico, ma il rotore gira lento!).

Fondamentale per questi lavori è la legge di Betz che mette in relazione la potenza ottenibile al rotore con i parametri del vento e della superficie descritta dall'elica:

P = 0,5 d S v (v12 - v22)
dove d è la densità dell'aria, S la superficie descritta dal rotore, v la velocità del vento libero a quella quota, v1 e v2 rispettivamente le velocità davanti e dietro al rotore.

Salta immediatamente all'occhio che nella formula non appare il numero delle pale, ma l'area da esse sottesa nella rotazione e che l'energia è proporzionale al cubo della velocità!

Una conseguenza fondamentale e dimostrabile (non qui!) della legge di Betz è che la potenza massima estraibile dal vento è il 59% dell'energia cinetica del vento stesso (è facilmente intuibile che se TUTTA l'energia fosse estratta, il vento dovrebbe "fermarsi" tra le pale... I moderni rotori ne estraggono al massimo circa il 50%.

La rotazione delle pale sul loro asse viene usata per angolarle in modo che presentino un differente angolo di attacco al vento e mantengano costante il loro numero di giri indipendentemente dalla forza vento; quando esso supera i limiti di progettazione le pale vengono messe in bandiera e il sistema si ferma.
E' interessante anche considerare gli sforzi che deve sopportare il sistema per bruschi cambiamenti nella direzione del vento per regolare l'imbardata: si pensi al lavoro richiesto per variare l'asse di rotazione verticale di questo enorme giroscopio...

Il fatto che le pale siano sottili (cioè che abbiano un forte allungamento), è per migliorare il rendimento aerodinamico delle stesse, in quanto in questa configurazione si riducono le resistenze indotte, come nel principio delle ali degli alianti, che hanno allungamenti spaventosamente più elevati rispetto a quelli di un aereo a motore.
Tutto il discorso spiega bene anche il perchè (ragionando all'inverso) le eliche degli aerei non abbiano trenta pale, "per avvitarsi meglio nell'aria", come qualcuno potrebbe credere..., ma in genere solo tre anch'esse!!!
Mi viene in mente anche il caso delle eliche dei moderni sommergibili atomici, che per essere silenziosissimi devono avere una rotazione dell'elica la più lenta possibile: ecco spiegato perchè le loro eliche hanno (queste sì) tante pale!

Da tutte queste lunghissime considerazioni (un discorso a puntate così lungo di sicuro non lo faccio più... ma dovevo prima di tutto essere convinto io stesso!), si deduce che il sistema a tre pale è la soluzione più usata perchè è quella col maggior rendimento fluidodinamico/economico:
                                                C.V.D.!

Spero che anche Guglielmo si sia convinto: io tutto quello che avevo da dire l'ho detto.

 
 
 

Ma perchè tre pale? (Seconda puntata)

Post n°85 pubblicato il 06 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Ora facciamo finta che il nostro generatore eolico abbia solo due pale.

La pala in alto ha una spinta data dal vento molto più elevata di quella in basso, perchè la differenza di quota rispetto al suolo è un fattore importantissimo; essa ha una grande efficenza ma deve sopportare una grande spinta assiale nella direzione del vento e questo la fa torcere nella sua direzione; la pala in basso ha una spinta inferiore e una efficenza più bassa, inoltre contribuisce negativamente anche la presenza ricorrente della torre che crea un flusso di sottovento.
Questa pala ha una spinta in direzione del vento molto più ridotta; ne consegue che ad ogni giro del rotore, la pala in alto è spinta indietro e questo fa torcere verso l'alto l'asse dell'elica; quando la pala che era in alto comincia a scendere la spinta del vento cala e la torsione diminuisce ma contemporaneamente inizia la spinta sulla pala opposta che stà salendo e che quando sarà in alto provocherà una torsione dell'asse nell'altra direzione rispetto alla precedente...

Da queste considerazioni si vede chiaramente che quando le pale sono orizzontali rispetto al terreno, la pala che scende diventa un freno per la pala che sale, e viceversa!
Quando la pala che è scesa in basso passa davanti alla torre praticamente non subisce nessuna pressione verso la direzione del vento, proprio mentre la pala in alto è al massimo di pressione e torsione, e questo comporta una notevole oscillazione del piano di rotazione delle pale, che in alto è spinto nella direzione del vento e in basso al contrario.
L'oscillazione avanti indietro delle pale sul piano di rotazione ne potrebbe compromettere l'integrità se non ci fosse una torre enormemente più robusta di quello che sembrerebbe necessario a prima vista. Combinando insieme tutte queste grossolane considerazioni, si vede che il rotore e l'asse di rotazione sono sottoposti a incredibili torsioni momentanee e questo richiede strutture robuste e pesanti, con i relativi problemi di peso, inerzia e stabilità da mettere in conto economico.

Proviamo allora ad aggiungere una ulteriore pala e creiamo il rotore a tre pale poste a 120 gradi.
Si vedrà che quando una pala è in alto le altre sono a 120 gradi in basso e la loro somma riduce o equilibra lo sbilanciamento del rotore nella parte alta; inoltre quando una pala passa davanti alla torre e riduce al minimo la spinta frontale, le altre si trovano a 120 gradi superirmente, ma meno alte che non nella situazione verticale più sfavorevole. Il sistema diventa molto più equilibrato.

Se usiamo un rotore a 4 pale torniamo al problema delle 2 pale ma con doppio peso; se ne usassimo di più (per esempio cinque, sette), per la teoria delle turbine a canale aperto (dove non c'è una voluta di contenimento al flusso del fluido) le resistenze sulle pale dipendono dal numero delle pale stesse, per cui più numerose sono, maggiore è la resistenza al vento e minore è la velocità di rotazione.

Ecco che la cosa diventa subito sfavorevole, a cui si devono aggiungere anche le complicazioni insostenibili (economicamente) per il peso e gli sforzi dei quali dicevamo sopra.

La prossima puntata aggiungerà alteriori elementi e sarà finalmente quella conclusiva.

 
 
 

Ma perchè tre pale? (Prima puntata)

Post n°84 pubblicato il 04 Marzo 2011 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

- Ma perchè mai i generatori eolici hanno tutti tre pale?- mi chiese qualche tempo fa il mio amico Guglielmo, anche lui come il sottoscritto un "curiosone" di scienza e tecnica.
Bella domanda! Preso in contropiede, la mia risposta immediata fu: -perchè il "tre pale" è la situazione strutturale con il massimo rendimento fluidodinamico/economico.

Ero sicuro della giustezza della risposta (e la confermo ancora di più ora) ma restava da vedere il perchè, senza il quale una risposta anche se corretta non ha senso.
Ho cercato navigando in rete di dare una motivazione soddisfacente a questa risposta data di getto, senza coinvolgere concetti e formule matematiche, ma solo bastando una spiegazione che potesse essere capita intuitivamente.

L'obiezione che il profano (intendo il profano evoluto, non colui che bovinamente non si chiede mai niente!) fa di solito è:
- perchè solo tre pale? Perchè tutto quello spazio tra una pala e l'altra, dove il vento passa senza spingere? Se con tre pale spinge con forza 3, con otto pale spingerà con forza 8! Elementare Watson!

Nossignori... elementare un cavolo! Vediamo se riesco a riassumere le motivazioni fisiche che mi hanno convinto che effettivamente il sistema a tre pale è il migliore compromesso.

Il mio amico giustamente osservava che i rotori eolici usati per pompare l'acqua nelle fattorie western hanno tantissime palette, tante che quasi non ci vede attraverso... quelli sì che dovrebbero rendere!
Nossignori nemmeno qui: questi generatori eolici rudimentali (come i bei mulini a vento del paese dei tulipani) sfruttano il vento secondo la teoria della turbina ad impulso, in cui l'energia prelevata dal vento è solo quella parte di energia meccanica bruta che sbatte sulle pale e le spinge via; in questi rotori le pale sono dei semplici pannelli piani che essendo angolati rispetto alla direzione del vento ricevono una spinta laterale la cui componente sommata tra tutte le varie pale crea la rotazione. L'efficenza di questi antichi rotori, pur essendo bassissima (non essendoci mezzi di paragone!), era però ottima a quei tempi piuttosto di niente e non mancando mai il vento si pompava acqua e si macinava il grano che era un piacere!

I moderni generatori eolici basano invece il loro funzionamento non sulla spinta ma sull'effetto di portanza creato sulle pale dal flusso del vento; le pale in questo caso non sono più dei pannelli piani ma sono strutture a profilo alare altamente efficenti dal punto di vista aerodinamico, esattaemente come la differenza tra il flusso di aria che scorre sotto e sopra le ali di un aereo lo tiene sollevato o come una barca Hi-Tech che partecipa alla America's Cup vola sull'acqua grazie al flusso d'aria che scorre davanti e dietro alle sue vele.

Eliminiamo quindi subito i generatori "tipo western" (la cui efficienza è paragonabile agli ottocenteschi battelli a pale del Mississippi) e teniamo buoni quelli moderni (la cui efficienza è paragonabile alle eliche delle superpetroliere).

Fine della prima puntata: poichè il discorso tutto unito era troppo lungo e diventava noioso, lo devo spezzare addirittura in tre parti; fra un po' di tempo la seconda puntata.

 
 
 

L'acidità dell'olio di oliva

Post n°83 pubblicato il 01 Marzo 2011 da paoloalbert

Anche se sono estimatore e goloso consumatore dei buoni olii di oliva italiani, non starò certo a tesserne le lodi in questa sede inappropriata; essa si presta ad "assaggiarlo", ma solo dal punto di vista chimico...
I controlli analitici dell'olio sono potenzialmente numerosissimi, determinando tanti di quei parametri che si può arrivare veramente conoscere tutto quello che si vuole sulla sua genuinità e quant'altro; io mi sono limitato solo alla semplicissima determinazione di uno dei fattori più importanti dal punto di vista organolettico: l'acidità libera.

Ma perchè l'olio può essere più o meno "acido"? Abbiamo visto l'altra volta che gli acidi non sono presenti allo stato libero, ma sotto forma di esteri della glicerina e quindi l'olio non dovrebbe essere "acido".
Succede però che in funzione della provenienza, della condizione delle olive alla raccolta, della loro conservazione prima della spremitura e dello stato di conservazione dell'olio stesso, una più o meno piccola parte dei trigliceridi tendono ad idrolizzarsi, staccando gli acidi grassi dalla glicerina ed aumentando l'acidità libera.
In questo caso l'idrolisi è esattamente la reazione opposta all'esterificazione: rivedendo il post 80, occorre leggere la reazione non da sinistra a destra ma viceversa:

estere + acqua --> acido + alcol, quindi:

trioleato di glicerile + acqua --> acido oleico + glicerina

(l'idrolisi non avviene così facilmente: non significa che mescolando olio e acqua si ottiene la reazione di cui sopra!)

Questa parziale idrolisi si esprime analiticamente in quantità di acido oleico libero, ed è in pratica l'acidità dell'olio, quella che quando è eccessiva lascia in gola una spiacevole sensazione di "ruvidità". Si dice anche che l'olio acido "raschia in gola".

Per pura curiosità avevo controllato tempo fa un campione di rinomato olio extravergine delle colline moreniche del Garda, commercialmente definito "a bassissima acidità"; recentemente per questo lavoro ho rifatto il test su un altro ottimo olio ma volutamente più "stagionato" (era da qualche mese in bottiglia chiusa ma non piena) andando a verificare, con un margine di errore tollerabile, le rispettive acidità.

Materiale occorrente:

- miscela 1:1 etanolo/etere resa perfettamente neutra alla fenolftaleina con qualche goccia di idrossido di potassio KOH
- soluzione di KOH 0,05 N
- sol. 1% di fenolftaleina
- buretta 5 ml

A 5 g esatti di olio vengono aggiunti in una beuta 50 ml della miscela alcool/etere, agitando fino a soluzione.
Si aggiungono poche gocce di fenolftaleina e si titola con KOH 0,05 N; la soluzione passa improvvisamente da incolora a persistente colorazione rosa allorchè tutto l'acido libero è stato salificato.  


Olio oliva 1

Olio oliva 2

 

 

 

 

 

 

 

 

Se n è il volume in ml consumato, l'acidità in oleico è espressa dalla formula:

% oleico = n x 0,282

ml di KOH consumati nelle due prove: 0,95 e 2,6

L'olio extravergine dovrebbe avere acidità inferiore all'1%; nel campione analizzato in precedenza avevo ottenuto un valore veramente basso di 0,27%, quindi soddisfacente pienamente i requisiti dichiarati, sia dal punto di vista organolettico (il più importante!) che da quello chimico.
Anche il secondo test, risultando un'acidità dello 0,73%, ha superato la prova pur essendo vecchiotto e conservato in condizioni non ottimali, ma si partiva sempre da un olio ottimo e di sicura provenienza.

Buon condimento a tutti!

 
 
 

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