Creato da paoloalbert il 20/12/2009

CHIMICA sperimentale

Esperienze in home-lab: considerazioni di chimica sperimentale e altro

 

 

Rosso cardinale

Post n°333 pubblicato il 06 Novembre 2015 da paoloalbert

A proposito di litio, scommetto che tanti giovani studenti con qualche pallino per la chimica hanno visto il colore alla fiamma di questo metallo solo nelle immagini di Google.
Tempo fa, quando le materie scientifiche nelle scuole erano ANCHE E SOPRATTUTTO sperimentali, la prima cosa che l'insegnante faceva vedere agli allievi scendendo nel laboratorio durante l'ora di chimica era il colore alla fiamma dei vari elementi.

Via via venivano torturati sul bunsen i vari sali coloranti la fiamma, ovvero quelli di potassio, di rame, di bario, di stronzio, di calcio, di litio e qualche altro, finendo in gloria col giallo del sodio.
Nel paleozoico, cioè quando io ero giovane studente (sia come tempo ma soprattutto come mentalità), si cominciava il lab di chimica così:

a)- si prendeva una bacchetta di vetro e fondendone parzialmente una estremità sul bunsen le si inseriva per qualche millimetro un filetto di platino.

b)- siccome il filetto era stato toccato dalle manacce dello studente (o dell'Assistente) lasciandone tracce di sodio sulla superficie, lo si immergeva in acido cloridrico concentrato e lo si passava alla fiamma più e più volte, finchè la fiamma medesima non avesse perso quella insistentissima colorazione gialla.
Il sodio è quello che colora la fiamma molto più degli altri e ne bastano tracce veramente minime per coprire i colori, molto più discreti, dei suoi colleghi della tavola periodica.
[Ecco anche il motivo per cui questo elemento lo si teneva per ultimo nell'osservazione: per non faticare a ripulire il filo di platino facendogli fare quegli infiniti e noiosi bagnetti nell'HCl concentrato per eliminare la sua fastidiosa invadenza].
Dopo aver pulito per bene il filo, ovvero finchè messo ad arrostire nella fiamma non avesse più evidenziato alcun colore, lo si bagnava con HCl e con la punta si prendeva un cristallino (non di più!) di quel sale che si voleva esaminare, oppure lo si immergeva in una sua soluzione.

c)- si metteva il filo nella fiamma ossidante e quasi incolore del bunsen e se ne osservava il colore, memorizzandolo per l'eternità.

d)- dopo ogni osservazione si puliva di nuovo accuratamente il filo con i soliti bagnetti acidi (perchè si usasse il platino mi sembra superfluo dire: perchè è un metallo nobilissimo, inalterabile e resiste quasi a tutto. Perchè si usasse proprio l'acido cloridrico per queste prove è per il fatto che i cloruri dei metalli sono più "volatili" degli altri sali, senza avere zavorre anioniche attaccate al metallo).

e)- quando si arrivava al litio... -che bello!- tutti esclamavano! -E' il rosso cardinale del litio- diceva il paleozoico insegnante.
E si tornava ad intingere per rivedere. Allora queste cose le si vedevano lì o da nessun'altra parte.

 

Fiamma

              La zona ossidante della fiamma è quasi incolore 

 

Fiamma litio

                                 Il rosso cardinale del litio


Ecco la fiamma del mio decrepito bunsen attivata per l'occasione con una soluzione diluitissima di idrossido dil litio LiOH: il "rosso cardinale" richiama infatti la tonalità della mantellina degli alti prelati (a proposito dei quali si può aggiungere che anch'essi una volta erano molto più di moda di oggi...).

Ma perchè certi metalli colorano la fiamma? Si tratta di elettroni che saltando da un'orbitale all'altro eccitati dal calore emettono fotoni su una certa lunghezza d'onda... ma vedo che sto deviando e mi fermo immediatamente: se cominciamo a parlare di orbitali ed elettroni non siamo più in Chimica sperimentale.
Mi viene il dubbio (anzi, un dubbione, un dubbiaccio) che nelle scuole, a parte ovviamente quelle di chimica, non esistano quasi più "le ore di laboratorio", o che siano state ridotte ad una toccata e fuga, tanto per dire.
Naturalmente ci sono i soliti mille splendidi motivi:

-I fondi non ci sono, le sostanze sono pericolose, non c'è tempo per queste cose, il metano è pericoloso, non abbiamo gli assistenti, le scorte di reagenti sono finite, il Ministero non ci manda più i soldi, meglio fare materie umanistiche... eccetera, eccetera, eccetera all'infinito-
Bah... magari mi sbaglio, ma meglio non commentare.

 
 
 

Ai margini del bosco

Post n°332 pubblicato il 21 Ottobre 2015 da paoloalbert

Ai margini del bosco, a due passi  da casa, c'è questo  vecchissimo melo semiselvatico, che fa delle piccole mele verdi e rosse di quelle qualità antiche ormai quasi scomparse.
Mai sarebbero commercializzabili queste mele, piccole, dure, asprigne, che ne devi spezzettare una cestinata per cuocerne un tegamino con un po' di zucchero e una scorzetta di limone oppure metterle nel forno così come stanno.
Vanno mangiate cotte, d'inverno, e sono meravigliose.

Su questo melo uno dei picchi che ogni tanto mi gironzolano intorno a casa ha fatto quest'anno il suo bel bucone per il nido.


Picchio 1

Picchio 2

Picchio 3

Picchio 4


L'ho visto una settimana fa che becchettava nel prato, grosso e ben nutrito, testa rossa e piumaggio marroncino giallastro.
Un bel volatile, non so se sia quello del nido; in ogni caso il nido l'anno scorso non c'era.
Spero che dal buco siano usciti tanti picchietti.

Buona permanenza a te, e buon autunno a tutti!

 
 
 

La fame di Litio

Post n°331 pubblicato il 13 Ottobre 2015 da paoloalbert

Fame commerciale intendo... quante apparecchiature ci sono oggi nel mondo alimentate con una batteria al litio? Possiamo dire infinite?
Ecco che questo simpaticissimo metallo alcalino, situato appena appena sul terzo gradino della scala periodica, è diventato essenziale per la tecnologia moderna, assai di più di quand'era quasi relegato a far da combustibile per le stupide bombe all'idrogeno della guerra fredda.
Ma da dove deriva questo leggerissimo metallo (galleggia anche sulla benzina) famoso in tutti i trattati elementari di chimica per il caratteristico e bellissimo colore "rosso cardinale" che impartisce alla fiamma?

Una volta lo si ricavava principalmente dallo spudomene, un silicato di litio e alluminio presente in vari paesi fra cui l'Australia, che ancora lo produce da questa fonte grazie alle pegmatiti della grande miniera di Greenbushes.
Le varietà trasparenti kunzite e hiddenite dello spudomene sono usate come belle gemme di vari colori.
Attualmente la maggior parte del litio (99,5%) non si ricava più dallo spudomene (o altri minerali di minore importanza) ma dalle saline!
Sì, proprio enormi saline, ma saline specialissime, assai lontane dal mare.
Hai presente il famoso deserto di Atacama, in Cile, la zona più arida della Terra? Nemmeno i microbi riescono a viverci ad Atacama...
Lì in zona, diciamo così, si trova il Salar (bacino di acque salate) de Atacama, e da lì è arrivato, con buonissima probabilità, il litio che si trova nelle batterie del tuo e del mio cellulare. 
Questo bacino contiene il più ricco deposito del mondo di  litio "in salamoia"! Andiamo a vedere.

Il Salar de Atacama si trova all'interno di un'area tettonica di drenaggio idrico senza sbocchi al mare che ha avuto origine nel tardo Cenozoico e che è stato luogo di vulcanismo intenso dal Miocene.
Si trova a 2300 metri di quota ed è riempito di sedimenti evaporitici estendentisi per circa 3000 chilometri quadrati (come tutta la Valle d'Aosta!).
La pioggia annuale è in media di soli 10/20 mm ed il clima è caratterizzato da forti e costanti venti con un'umidità relativa bassissima; il cielo è praticamente sempre senza nubi, con fortissimo irraggiamento solare.
Queste condizioni climatiche estreme determinano un alto tasso di evaporazione (10 litri per metro quadrato al giorno!) che favorisce la concentrazione delle salamoie ricche di elementi alcalini per evaporazione solare.
Le salamoie del Salar derivano da acque geotermiche associate al vulcanismo, da lisciviazione dei sali solubili in acqua delle rocce vulcaniche, da lisciviazione di argille ricche di litio e da acque saline di laghi nelle alte Ande attraverso zone di faglia permeabili del Pliocene e Quaternario.
L'accumulo a lungo termine e l'evaporazione delle acque drenate in questo bacino in condizioni desertiche ha dato luogo a grandi quantità di materiali salini.

 

Atacama 1


Ecco un'idea della composizione ionica di queste salamoie in grammi/litro:

- sodio 93
- potassio 22
- magnesio 12
- litio 2
- cloruri 190
- solfati 23
- acido borico 4,4

dove si vede che la quantità di litio (un elemento non certo comune) è eccezionalmente elevata; salta anche all'occhio l'assenza quasi totale del calcio (appena 0,03 g/l).
Gli elementi sono presenti in gran maggioranza sotto forma di cloruri (halite, carnallite, kainite, sylvite, eccetera, in varia associazione con il cloruro LiCl e il solfato di litio Li2SO4).

 

Atacama 2 Atacama 3

 

 

 

 

 

 

 

La separazione dei vari componenti è laboriosa ed avviene per lo più per cristallizzazione frazionata; la separazione del boro si effettua con solventi organici.
Alla fine di un lungo ciclo si ha precipitazione del litio sotto forma di carbonato Li2CO3, il sale di litio di gran lunga più importante e la cui produzione annuale è di molte migliaia di tonnellate.
Il carbonato viene poi esportato per la produzione del litio metallico che finirà nelle batterie dei computers e cellulari di tutto il mondo.

Altri enormi giacimenti di litio in acque salate si trovano in Argentina (Jujuy) e in Nevada (Silver Peak), tutti siti gestiti da potenti multinazionali americane, che fanno il prezzo mondiale dell'elemento numero TRE nella lotta per aggiudicarsi un pezzo del monopolio di un elemento che sta diventando strategico.

 
 
 

Allucinant... eXpo

Post n°330 pubblicato il 29 Settembre 2015 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Conosco una persona che odia le code, e le fa praticamente solo negli Uffici dello Stato, dove in nessun modo le può evitare.

Attenzione che a parole tutti dicono di odiare le code, ma in realtà anch'io ho verificato da tempo che solo pochissimi le odiano davvero e in realtà quasi tutti le fanno senza problemi (o con pochissimi problemi) per quanto lunghe esse siano.
I partecipanti esprimono certo una scontata e innocua lamentazione, ma stanno lì in attesa anche delle mezze giornate, come San Simeone Stilita stava sulla colonna.

Quella persona di cui sopra e che io conosco bene ha avuto la sciagurata idea di capitare all'Expo esattamente SABATO 26 SETTEMBRE.

Ecco la cronaca di quello che mi ha raccontato:

- Alle ore 09:20, quaranta minuti prima dell'apertura dei padiglioni, sono già dentro l'Expo! Non sono in ritardo, non temo nulla!

- La mia entrata (porta Fiorenza) conduce proprio accanto al padiglione Zero, bene!
Per quanto sia ancora ingenuo riguardo l'Expo, noto subito qualcosa di strano.
La prima notizia della giornata che ricevo è che, GIA' ADESSO, per il padiglione
Zero saranno 90 minuti di coda.
Rimango allibito (ripeto che a quest'ora appena entrato sono ancora ingenuo) e mi dico che tornerò più tardi.
Non voglio star fermo un'ora e mezza quaranta minuti prima del'apertura, ciò mi sembra assai ragionevole..

- Ho sentito dire che il padiglione del Kazakistan è bello, assolutamente da non perdere; ottimo, dico, prima che ci sia troppa gente mi ci dirigo, anche se so che sarà lontano.
Prendo confidenza con la mappa, mi studio cardi e decumano e penso anche che magari lungo il percorso mi berrò un buon caffè per partire in forma con la giornata.
Mannaggia, ma possibile che anche tutti gli altri vogliano il caffe proprio adesso? Alla fine riesco ad averlo, ma devo spenderci 20 preziosi minutini di coda... e se per un caffè ci vogliono venti minuti... comincio a fare le prime proporzioni mentali.

- Per farla breve, dopo un bel po' arrivo al Kazakistan (durante la passeggiata ero entrato ed uscito in 30 secondi dal padiglione del Camerun, dove avevo trovato la copia esatta, o quasi, di quelle belle statuette in legno scuro esotico vendute d'estate su tutte le spiagge italiane dagli amici africani. Mi ero detto che magari la statuetta lunga e magra me l'avrei presa l'estate prossima a Cesenatico).
Tutto specchi, enorme, meraviglioso, il padiglione del
Kazakistan! Questo me lo visito come si deve, mi dico!
E vado a mettermi in coda... vado... cammino... procedo... sempre più in là, l'entrata è ormai all'orizzonte.
Chiedo ad un gentilissimo kazako di guardia quanto ci sarà da aspettare.
DA QUESTO PUNTO dove ci troviamo, dice tranquillissimo, sono
QUATTRO ORE E MEZZA di attesa.
Finalmente mi si accende la lampadina... e realizzo che prima di me (che me l'ero presa comoda col caffe e con le statuette), era arrivata gente per l'equivalente di
quattro virgola cinque (4,5) ore di attesa.
Ecco, esattamente in questo momento la mia ingenuità svanisce, e rimarrà svanita per tutta la mia permanenza all'Expo.

- Sento da voci che girano che per il Giappone si parla di sette ore, per la Germania di cinque, altrettante per il padiglione Italia e altrettante per lo Zero della mattina, da quale ero partito.
Due ore per il
Vietnam, due e mezza per entrare nel Brasile camminando sulla rete di acciaio inox, due ore e mezza per l'Azerbaijan e tre per la Cina... sembra una
situazione decisamente buzzatiana.
Mi faccio coraggio. Costi quel che costi mi faccio una filetta di venti minuti e mi visito la
Polonia. Finalmente vedo qualcosa!
Bella l'architettura, con quella catasta impossibile di simil-cassette di legno per la frutta, mi è piaciuta.
Forte
Polonia, stasera vengo da te e mi mangio una salsiccetta con una birra polacca alla tua salute!

- Stranamente in dieci minuti entro anche nel padiglione francese, tutto pentole e ammenicoli appesi.
Bella anche questa struttura in legno e tiranti, dove ogni curva (un'infinità di curve) mi ricorda immediatamente lo studio di funzioni all'esame di Analisi 1.
Interessante; come interessanti sono tantissime altre architetture di tutta la Fiera, naturalmente quasi tutte viste rigorosamente
SOLO DA FUORI.

- Durante la giornata faccio mille chilometri in su e in giù lungo il decumano, entrando di quà e di là dove la coda è inesistente o di pochi minuti.
La speranza di vedere i padiglioni veramente interessanti (o presunti tali) è irrimediabilmente infranta da dopo il
famoso Kazakistan.
Mi rendo conto che io, causa la mia stupida fobia per le code, in quelli non riuscirei mai a entrarci, anche se stessi qui fino a ottobre.

- E' notte, c'è il gioco di acqua e luci all'Albero della Vita, e io sono in prossimità... almeno questo spettacolo me lo guardo, non devo entrare da nessuna parte!
Peccato che per attraversare la strada (intendiamoci, per il largo non per il lungo!) ci metto mezz'ora.
Mezz'ora per andare da qui a lì, tentando di tagliare di traverso una folla con una densità umana che mi ha ricordato non le funzioni matematiche della Francia ma
i buchi neri
del cosmo.
Riesco ad allontanarmi... mi dico che acqua e luce andranno in onda lo stesso anche se io non ci sono.

- Vado ai padiglioni Mediterranei, dove non c'è (relativamente) nessuno. Una meraviglia.
Ad un certo punto mi sono trovato circondato da stalattiti-stalagmiti di lana
Montenegrina, e altre cosine piacevoli negli stand del Mare Nostrum: Malta, Tunisia, Albania, Grecia, Italia... (no, Italia no, quella è lontana... cinque ore di coda).
E chi ci trovo poco più in là?
Vicino al
Madagascar, alle Comore, alle Maldive, a Saint Lucia... non lo indovinereste mai.
Evviva, anche lo stand de
lla Corea del Nord è in mezzo a noi!
Fantastico, c'è il libro rosso dei discorsi di Kim Il Sung, i francobolli della Rivoluzione, tutti con i moschetti puntati con slancio irrefrenabile verso il nemico e verso il futuro!
E tutto in coreano del Nord! E ginseng, ginseng, ginseng in tutte le salse.
Beh, i francobolli NC trasudano tanta di quella Rivoluzione verace che non posso far a meno di comprarmeli!
Invece, siccome il coreano del nord mi manca come lingua, devo rinunciare ai discorsi dell'Amato Presidente. Peccato.
Corea del Nord, sei UNICA!

- Ormai è notte, tutti sloggiano. E' ora di far fare alle suole ormai consunte gli ultimi chilometri per tornare al parcheggio, levare le ancore e tornare a casa.
Mi guardo le ultime realizzazioni degli
Stati del Mondo, pensando che tutto sommato ognuno ha fatto del suo meglio.
E il "nutrimento del pianeta", "l'energia per la vita", "il risparmio idrico"... tutte quelle cose splendide e politicamente corrette che bisogna dire al telegiornale?
Beh, non credo proprio che questi problemi se li sia posti seriamente qualcuno.
Non credo proprio, nemmeno vagamente.
Tutto sommato l'Expo è stata una BELLA esperienza. Davvero.

Ecco la cronaca, molto riassunta, della visita all'Expo di quel tale che odiava le code (e che adesso odia ancora di più), che io fedelmente riporto come me l'ha raccontata.

 

 
 
 

Luce irreale

Post n°329 pubblicato il 18 Settembre 2015 da paoloalbert

Ne ho visti di tramonti in montagna, di tutti i tipi direi.
Ma questo, del quale la fotografia non è che una flebile testimone, è stato veramente eccezionale; cose che capitano una volta e poi ti dimentichi negli anni quando mai era successo.

La fotografia è presa guardando ad ovest, naturalmente dopo il classico temporale, i residui del quale si trovano ora sopra di noi, e tutto è quasi nero.
Una lama di luce, fortissima ed irreale, sovrasta il Lago oltre le montagne.
Mi son fermato nel vento fino a veder dissolversi il fenomeno, durato pochi minuti, troppo poco.

 

Luce irreale

 

Una immagine che non può nemmeno vagamente rendere giustizia alla realtà e quattro parole per un tramonto raro.

 

 
 
 

Sintesi della 3-nitrofluoresceina

Post n°328 pubblicato il 28 Agosto 2015 da paoloalbert

Ciò che vado a descrivere è una via di mezzo tra una vera sintesi, con la sua bella procedura particolareggiata, e un "esperimento", giocato con modalità più semplificate.
L'ho fatto principalmente per tre motivi:

1- avevo messo da parte per una futura occasione (questa) un vecchio .pdf della Columbia University reperito non mi ricordo più dove contenente lo spunto per una sintesina attendibile

2- a suo tempo avevo preparato il componente principale per la reazione, ovvero l'acido 3-nitroftalico. Quale migliore occasione per renderlo utile?

3- volevo verificare "quanto" la sostituzione di un nitrogruppo nella fluoresceina ne attenuasse le caratteristiche di fluorescenza, secondo quanto si legge in bibliografia

Non potendo nitrare direttamente la fluoresceina occorre partire da un componente contenente già il nitrogruppo nella posizione voluta, che verrà condensato con la resorcina, come si era fatto in altra occasione per la sintesi della fluoresceina.
Per far qualcosa di diverso dalla fonte sulla quale mi sono basato avrei potuto usare l'acido 4-nitroftalico, ma ne avevo poco e non sarebbe cambiato granchè.

Materiale occorrente:

- acido 3-nitroftalico
- resorcina
- sodio carbonato
- etanolo
- vetreria opportuna


La sintesi-esperimento è semplicissima, ed anche se porta ad un prodotto non certamente puro rende perfettamente l'idea di quanto mi ero proposto al suindicato punto 3.
Porre in un palloncino da 100 ml 3 grammi di acido 3-nitroftalico e altrettanta quantità di resorcina e scaldare fino a 195°, mantenendo questa temperatura fino a che la massa solidifica.
Ho inserito nella massa il bulbo del termometro, utile anche per tenere i componenti opportunamente mescolati (lo so che non si dovrebbe fare, che il termometro non è un agitatore, eccetera ... ma io uso da sempre questo metodo quando devo leggere la temperatura giusta, senza mai aver rotto un termometro).
Quando la massa è quasi solidificata (non ci vuole molto) lasciar raffreddare fino ad un centinaio di gradi ed aggiungere una soluzione bollente di Na2CO3, mescolando fino a portare tutto (o quasi) in soluzione per salificazione del prodotto.


Nitrofluoresceina 1


La soluzione di 3-nitrofluoresceina sodica sarà di colore giallo scurissimo, opaca alla luce.
Filtrare e riprecipitare la sostanza (insolubile quando non salificata) con HCl a media concentrazione fino a pH acido, ottenendo una polvere di color ruggine.
Filtrare su buchner sotto vuoto e lavare accuratamente con acqua.
Ho provato a cristallizzare da etanolo bollente, ma con scarsi risultati poichè non si riesce a vedere quando la sostanza è sciolta e comunque per raffreddamento precipita una polvere microcristallina rugginosa di poca soddisfazione estetica (e sicuramente di non eccellente purezza); ergo, per i semplici fini di questa semisintesi, mi accontento di come si presenta.

 

Nitrofluoresceina 2


La fluorescenza di questo nitroderivato conferma le aspettative, essendo di gran lunga meno intensa di quella della fluoresceina vera e propria; il potere colorante è comunque grandissimo perchè ne basta una traccia per colorare in giallo una gran quantità d'acqua, una volta che la sostanza è resa solubile per salificazione in ambiente basico.
Vista per riflessione la tonalità della fluorescenza è la medesima della fluoresceina sodica.
Ecco un paio di foto, purtroppo fatte in precarie condizioni di luce, che evidenziano il colore per trasparenza e riflessione di una soluzione "diluitissima" di prodotto.



Nitrofluoresceina 3  Nitrofluoresceina 4

 

 

 

 

 

 

E se ci fossero più nitrogruppi?
La fluorescenza scemerebbe sempre di più, fino a sparire completamente con quattro -NO2.

 
 
 

Che bel becco!

Post n°327 pubblicato il 19 Agosto 2015 da paoloalbert

Bunsen

 

Visto che bel becco... Bunsen?

Non mi ricordavo quasi più di averlo e l'ho ritrovato intatto e perfettamente conservato facendo un pò di ordine in qualche vecchia scatola.
L'avevo comperato in vista della sostituzione del mio vecchissimo bunsen, che conservo (e continuo ad usare perchè non ho mai avuto il coraggio di mandarlo in pensione) da quand'ero studente.
Quanti "esperimenti" hai dovuto sopportare, poverino?
Ti sei assorbito anni di atmosfere sgradevoli che ti hanno ossidato l'ottone e corroso la base in ferro... quante volte hai avuto l'ugellino otturato per una "perla" caduta nel tubo?
Ogni tanto gli dò una passata di carta vetrata e una soffiata col compressore sperando che il vecchio tiri avanti con la sua tuta sporca, e continui a gettar la sua onesta fiammella al di sotto di sintesi sempre meno frequenti (sul perchè di questo diradarsi l'ho già detto, mi sembra).

Il bunsen della foto è invece tutto bello nichelato e luccicante col vestito nuovo, non ha mai respirato nè una boccata di metano nè una di propano, non ha mai sentito odor di cloro o di zolfo ed è rigorosamente SENZA la termocoppia di sicurezza.
Se non sei un raffazzone, non deve dirti "stai attento cretino, la fiamma si è spenta e tu nemmeno te ne sei accorto...-".

Il Bunsen (lo scrivo con la lettera maiuscola, che l'abbia inventato Robert Wilhelm o meno non ha nessuna importanza) è l'indiscusso Re di ogni bancone chimico... cosa sarebbe la chimica sperimentale senza di lui?

 
 
 

Veleni e avvelenamenti

Post n°326 pubblicato il 02 Agosto 2015 da paoloalbert

"I tempi sono cambiati... ma il libro rimane pregevole ed interessante..."
Così scriveva ormai un bel po' di anni fa lo stimatissimo magistrato bolzanino Edoardo Mori presentando sul suo sito a questo link la riedizione in .pdf del volumetto "Veleni ed avvelenamenti" del 1897, opera del dott. Costante Ferraris.
Si tratta di uno (l'ennesimo!) di quei pregevoli manuali che l'editrice Hoepli pubblicava una volta su una miriade di argomenti scientifici o tecnici, uno più bello dell'altro e sempre ricercatissimi sulle bancarelle e librerie d'epoca.
Quando lo scaricai dal link sopracitato mi piacque e lo stampai come si deve facendolo addirittura rilegare con la copertina in caratteri dorati; gli appassionati di tossicologia, diciamo così, storico-divulgativa, leggeranno le 205 pagine in un attimo e con soddisfazione.

 

veleni libro

 

Il volume è diviso in cinque principali capitoli, scritti in forma semplice:

- Veleni caustici
- Veleni irritanti
- Veleni eccitanti
- Veleni paralizzanti
- Veleni del sangue

Fra i caustici vengono citati gli acidi e gli alcali, l'ossalato di potassio, l'ammoniaca ed il nitrato d'argento.
Come veleni irritanti Ferraris annovera gli alogeni, i metalli pesanti e gli irritanti derivati dal regno vegetale e animale.
I veleni eccitanti vengono suddivisi tra quelli ad azione cerebrale (belladonna, giusquiamo, stramonio) e quelli ad azione spinale (stricnina, santonina, anilina, canfora, ...)
Tra i paralizzanti gli alcaloidi dell'oppio e altri alcaloidi, i cianuri, la nicotina, l'etanolo, l'etere, la cicuta...
Come veleni del sangue si parla dell'ossido e del solfuro di carbonio, del clorato di potassio (di potassa!), pirogallolo...
Naturalmente molte altre sostanze sono citate nel corso del libro.

L'interesse dell'opera, più che per il contenuto strettamente tossicologico, riguarda naturalmente il risvolto storico che se ne può cogliere, soprattutto per quanto riguarda l'abissale differenza nella sensibilità della "civiltà" moderna verso le sostanze chimiche rispetto alle consuetudini di fine ottocento (adesso si esagera dall'altra parte... poi sul termine "civiltà" ci sarebbe da discutere... molto da discutere!).
Saturnismo, idrargirismo, esposizione ad arsenico e metalli pesanti erano considerati inconvenienti di routine durante l'estrazione, la lavorazione e l'impiego comune di questi elementi, come l'esposizione a idrocarburi e benzene (benzina...), gas illuminante, ammine aromatiche e quant'altro.
Così come le abitudini a certe "droghe dei poveri" lasciano esterefatti al giorno d'oggi, anche se il discorso sociologico e il paragone temporale si farebbe complesso e nemmeno lo voglio accennare.
Ecco un brevissimo saggio dal libro del Ferraris che riguarda un uso certo poco conosciuto dell'etere, CH3-CH2-O-CH2-CH3:

-... i "bevitori di etere" sono numerosissimi nelle regioni settentrionali dell'America e dell'Europa (Irlanda); l'etere che si consuma è quello del commercio, che gli speziali ed i liquoristi vendono al prezzo di dieci centesimi per una dose di 10-15 grammi.
Siccome questo liquido è leggerissimo, è possibile colà avvelenarsi a molto buon mercato.
Stando a quanto riferisce Haart, in quelle regioni tutti bevono etere, uomini e donne, adulti e bambini.
La dose media è di 10 grammi per volta, e questa si ripete per due, tre, e fino a sei volte nel corso della giornata...
Gli effetti che seguono quasi immediatamente il suo assorbimento hanno molta analogia con quelli determinati dall'alcool, se ne distinguono tuttavia per una rapidità molto maggiore.
L'etere non produce, come l'alcool, gravi lesioni organiche; esso passa senza lasciar traccia, ed i bevitori moderati godono di buona salute, al più si lagnano di dispepsia..."-


Forse il signor Haart esagerava un po' nelle abitudini anglosassoni, ma in ogni caso il Ferraris fortunatamente conclude che "...è però da gran tempo ed universalmente riconosciuto che l'uso di questo inebriante abbrevia l'esistenza" (!)

Altri tempi, altri modi di vedere le cose; per chi ama la chimica e la storia anche questo è un libretto da leggersi con piacere.

 
 
 

Citrazinic acid: failed!

Post n°325 pubblicato il 24 Luglio 2015 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

Era da qualche anno che mi ero segnata come "da fare" la sintesi dell'acido citrazinico, questo bell'eterociclico che si vede qui accanto.
Qualche giorno fa ho dedicato una buona porzione di giornata a questo esperimento; sospettavo che mi avrebbe fatto tribolare, ma mi aspettavo alla fine almeno un premiuccio di consolazione.
Il disgraziato non mi ha voluto dare nemmeno questo, proprio a conferma che non tutte le ciambelle riescono col buco.
Ma voglio riassumere la sintesi nei particolari, nel caso servisse a qualcuno che mi legge, il quale, se esiste e sarà più fortunato, mi correggerà...

Premetto che si trovano in rete ottimistiche notizie su questa sintesi,  bibliografiche e sperimentali, sulle quali mi sono basato dopo averle tutte ben valutate.
L'acido citrazinico deriva dalla reazione a caldo tra l'acido citrico e l'urea, due reagenti di nessun costo e reperibili ovunque.

Avete presente il canto delle sirene che ammaliava i marinai?
Due reagenti di nessun costo e reperibili ovunque non dovrebbero a maggior ragione incantare qualche chimico sperimentale?
Sarà forse proprio per questo che poi, alla fine, son rimasto sirenamente a bocca asciutta...
La bibliografia consiglia di partire da una miscela di acido citrico/urea con un rapporto molare di 1:3, e così ho fatto, partendo da 20 g di citrico.

Dopo aver ben mescolato in mortaio i due componenti li ho posti in un becher su bagno a sabbia ed innalzato la temperatura.
A circa 70° inizia la fusione e da circa 80° il primo schiumeggiamento per lo svolgimento di ammoniaca.
Innalzare quindi la temperatura fino a 150°-155° e tenerla per circa un'ora; si ha dapprima ingiallimento e poi il colore vira sempre più allo scuro, mentre continuano a svolgersi bolle di gas; ho fatto attenzione a non mai superare la temperatura indicata, ottenendo alla fine un "caramello" denso e nero con riflessi giallastri.


Citrazinico 1  Citrazinico 2

 

 

 

 

 

Fase iniziale, dopo 15 min              Fase finale, a 155°

 

Ottenere "un caramello denso e nero" è di per sè un pessimo indizio durante una sintesi, ma tant'è, la procedura è questa e non si scappa. 

Tentiamo di andare avanti con fiducia.
Lasciato raffreddare il pastone fino a circa 100°, ho aggiunto porzioni di acqua bollente per tentare di separare per filtrazione sotto vuoto il "buono" dalla parte catramosa evidente.
Però aggiungendo poca acqua e per quanto si riscaldi, appena la sospensione tocca il filtro e si raffredda un po', non passa più niente.
Tentare e ritentare è tempo perso, filtro immediatamente  intasato.
Ahi, ahi, sembrava troppo facile...

Ho aggiunto allora molta più acqua (circa 200 ml) e alcalinizzato fino a reazione nettamente basica con NaOH, per portare in soluzione la citrazinamide formatasi.
Dal filtro passa un liquido giallo scurissimo e rimane un abbondante residuo nero, ma ora almeno la soluzione è filtrabile e limpida e ci lascia ancora qualche residua speranza.


Citrazinico 3 Citrazinico 4

 

 

 

 

 

 

Acidificando ora (ottimisticamente con AcOH, ma meglio con acido cloridrico) il sale sodico, DOVREBBE precipitare una polvere gialla (da purificarsi in seguito) di acido citrazinico, il quale è insolubile in acqua.


Purtroppo è arrivato il momento peggiore di tutta la storiella di oggi e la residua speranza vola via: anche aggiungendo HCl non precipita niente!

(Sarei anche curioso di sapere cos'è esattamente questo fango nero rimasto sul filtro, ma sarebbe chiedere troppo)

 

Citrazinico 5

                     Il tristissimo residuo nero misterioso


Mannaggia, siamo fregati e ad un punto morto.
Una preziosa giornata quasi buttata via!
Perchè? Non lo so.
Ho cercato di fare tutto al meglio, ma quel fottuto di acido citrazinico non ha voluto farsi vedere.

Dove ho sbagliato? Dov'è il problema? Non ne ho idea.
Avevo dei buoni esperimenti da fare con questo composto e mi tocca rinunciare per una stupida ciambella venuta senza buco!
Vabbè, fossero tutti così i problemi esistenziali...

 
 
 

I due seleniti

Post n°324 pubblicato il 17 Luglio 2015 da paoloalbert
Foto di paoloalbert

C'è stato un periodo a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta dello scorso secolo in cui impazzavano certi ingenuissimi film di fantascienza con razzi a forma di supposta e dischi volanti fatti esattamente come due piatti da minestra sovrapposti.

Per gli altrettanto ingenuissimi spettatori la Luna (Selene) era abitata dai "Seleniti", tanto che più tardi (nel '62) pure Modugno, sulla spinta dei primi voli spaziali, ci fece una canzoncina, quella che ripeteva: -Selene ene a', come è bello stare qua. Selene ene a', il tuo peso sulla Luna è la metà della metà-... eccetera.
(Tutti, specialmente i più giovani che leggono questo blog, la conosceranno di sicuro).

Ecco, questi presunti abitanti rappresentano il primo tipo di seleniti di cui voglio parlare.
Se fossero verdi, avessero le antenne e il naso a trombetta, non lo so.
Il secondo tipo di seleniti, con molta minor fantasia e in concreto, li ho incontrati anche stamattina (!).

                                 ---°°°OOO°°°---

Parlando un po' più seriamente, i seleniti sono i sali dell'acido selenioso, H2SeO3, e poichè anche questo elemento (il selenio) mi è simpatico ho preparato un pochino di quell'acido sacrificando un residuo di selenio che avevo estratto con una discreta fatica da un bel pigmento colorato. Forse qualcuno se ne ricorderà.
Il selenio si può ossidare ad acido selenioso per mezzo dell'acido nitrico, secondo la reazione:

Se + 4 HNO3 → H2SeO3 + 4 NO2 + H2O

Secondo il Brauer per ottenere un prodotto puro occorrerebbe disidratare l'acido selenioso ottenuto con la prima reazione

H2SeO3 → SeO2 + H2O

riscaldando l'acido e raccogliendo l'anidride seleniosa SeO2 con ripetute sublimazioni e quindi reidratare opportunamente.
Naturalmente io mi sono fermato alla prima fase, non interessandomi la purezza analitica del prodotto ma solo la constatazione della possibilità di ottenere successivamente qualche selenito una volta salificato l'acido grezzo con KOH.

Ho posto in una capsulina un paio di grammi di selenio ed aggiunto goccia a goccia acido nitrico al 65%; la reazione è esotermica ed immediata e si ha abbondante sviluppo di ipoazotide, lavorare quindi in ambiente ben aerato.

 

Acido selenioso 1  Acido selenioso 2

 

 

 

 

 

 

Si continua l'aggiunta scaldando cautamente e regolando l'aggiunta di (poco) HNO3 in più porzioni fin che tutto il selenio sia ossidato, ovvero fino alla scomparsa dei granelli scuri.
A questo punto continuare il riscaldamento a piccola fiamma e mescolando per far evaporare l'acido nitrico in eccesso.
Si otterrà alla fine, andando a secchezza ma assolutamente senza mai surriscaldare, un solido bianco molto igroscopico costituito da acido selenioso.

 

Acido selenioso 3

 

Nel mio caso il colore è leggermente rosato perchè sono partito da un selenio di autoproduzione, non perfettamente puro.
Aumentando il riscaldamento quest'acido si disidrata facilmente e comincia ad emettere fumi bianchi di anidride seleniosa SeO2, la quale sublima allegramente.
Attenzione a non respirare questi fumi perchè il selenio è assai tossico in tutte le sue forme.
(A questo riguardo, ricordo sempre che la peggiore e infida sostanza chimica che credo di aver mai incontrato è proprio l'idrogeno seleniato, H2Se - Direi che lo batte solo l'ossido di cacodile ... i cloruri di tionile e solforile sono acqua fresca al confronto).

Per concludere l'esperimento senza nulla sprecare ho salificato i residui della capsulina con qualche goccia di KOH per avere una minima quantità di selenito di potassio da scambiare e vedere se precipitava qualcosa con qualche metallo pesante.
Niente da fare, tutti i seleniti sembrano solubili; anche quello di manganese, che dalla letteratura mi sembrava il più papabile, è rimasto in soluzione.

Sia come sia, almeno un selenito l'ho visto, anche se non era la prima volta.
Ma avrei preferito vederne uno di quelli col naso a trombetta.

 
 
 

Rame in Ahrntal

Post n°323 pubblicato il 07 Luglio 2015 da paoloalbert

Contro l'afa che si taglia con un coltello e i trentacinque gradi delle pianure, ho avuto la fortuna di gustare per un po' il fresco degli otto (!) gradi e l'aria salutare della vecchia miniera di rame di Predoi in Val Aurina.
Dopo Monteneve (assolutamente imperdibile!) in Val Ridanna, molto interessante è anche questa antica miniera, attiva dal 1400 a fine ottocento, e addirittura con un breve periodo a cavallo di tutti gli anni '60.
Anche qesto complesso minerario è ottimamente gestito dal Museo Provinciale delle Miniere dell'Alto Adige, presso il cui sito (a questo link) si possono attingere tutte le notizie utili alla visita.

Il minerale utile prevalente a Predoi è la calcopirite CuFeS2, immersa in tenore non elevato in una dura matrice scistosa, a sua volta compresa nei graniti e gneiss delle formazioni rocciose delle Alpi Noriche.
L'avanzamento nella roccia sterile era faticosissimo e la giacitura della mineralizzazione quasi verticale ha costretto, nel tempo, all'apertura di sempre più lunghe gallerie orizzontali per raggiungere la mineralizzazione partendo da quote inferiori lungo il versante della montagna.
Il filone utile partiva inizialmente da quota 2080 e sprofondava per circa 500 metri.
Attualmente l'unica galleria visitabile è la St.Ignaz, la più lunga (circa 1000 m) e recente e che è anche l'unica ad essere stata scavata con l'ausilio della polvere nera; tutte le altre più antiche furono aperte a colpi di mazzetta, con un avanzamento di pochi metri all'anno e in condizioni di lavoro oggi semplicemente inconcepibili.

Ho trovato interessantissimo in questa miniera il singolare metodo di sfruttamento, tuttora in uso e visibile, detto di "cementazione".
Non è altro che il conosciutissimo spostamento di un sale solubile di rame per mezzo del ferro, che anche il chimico più in erba ha visto quando ha immerso il classico chiodo in una soluzione di solfato di rame:

CuSO4 + Fe → Cu + FeSO4

Il rame ossidato sotto forma di solfato si riduce a metallico ed il ferro metallico ridotto si ossida a solfato, come prescrive la relativa posizione dei due elementi nella serie elettrochimica.
Nella miniera di Predoi il sistema consiste in pratica in un lungo canaletto di legno (una cinquantina di metri) lungo il quale scorre un velo d'acqua, proveniente dalla lenta percolazione lungo le rocce mineralizzate.

 

Predoi 1


L'acqua asporta una minima quantità di sali di rame, ossidati a solfato e quindi sotto forma solubile; naturalmente la quantità di ioni Cu++ è davvero minima.
Sul fondo del canaletto sono posti senza soluzione di continuità dei dischi di ferro, che pian piano arrossicono ricoprendosi di un velo di polvere di rame: il metallo si autoestrae da solo, praticamente a costo zero!

Una volta alla settimana un ormai vecchio ex minatore asporta con una spatola il "precipitato" e lo pone ad asciugare in alcuni barili: rame quasi già bello e pronto, al 70%!
E' dal 1500 che a Predoi si fa questo semplice giochetto.
Dove stà il rovescio della medaglia? Che la produzione è di un paio di tonnellate di metallo... ma all'anno!
(Tanto per dire, nella super-maxi-big miniera di Chuquicamata in Cile questa quantità la si estrae in un minuto).
Poco più di una curiosità quindi, ma come dicevo è un particolare assai interessante di questo vecchio sito minerario, che anche se non rende più come rame continua a rendere come museo e addirittura come luogo di cura (ved.), un chilometro nel cuore della montagna.
[Ancora una volta, onore all'impegno e all'organizzazione altoatesina della cosa pubblica... in Itaglia basterebbe copiare... ma non dico altro].

Anche se le fotografie non rendono la realtà degli oggetti, ecco un piccolo frammento secco di questo "rame di cementazione" ed un campione di roccia mineralizzata nella quale si notano gli scarsi granelli di calcopirite.

 

Predoi 2

 

Predoi 3


Tempo permettendo, su questi campioni mi divertirò magari a fare qualche semplice saggio analitico.

 
 
 

Evento sull'Olimpo

Post n°322 pubblicato il 01 Luglio 2015 da paoloalbert

Circa una settimana dopo, 30 giugno, sempre alla stessa ora: occhi al cielo.

 

Congiunzione Giove Venere

 

La Luna, discreta e fuori campo verso sud, se ne sta anche lei a guardare la congiunzione tra Zeus e Afrodite.
L'allineamento è giunto al suo apice, e anche con una ottocentina di milioni di chilometri di distanza tra i due pianeti, a noi sembrano baciarsi.
Peccato non avere sottomano il telescopio, mi sarebbe piaciuto rivedere i quattro satelliti medicei in questa situazione; ma anch'esso fa parte (il telescopio) di un'altra situazione, tramontata e non più ripetibile.
Qualche anno fa Marte la faceva da padrone tutte le sere, bello specchiato a Sud; poi anche Saturno si alzava da Est, mostrava (con qualche difficoltà) gli anelli e andava ad inseguire Giove...
E tutto questo sì si ripeterà... all'infinito.

 
 
 

Un magico triangolo

Post n°321 pubblicato il 21 Giugno 2015 da paoloalbert

Avete visto che meraviglioso triangolo appare tutte le sere in questo periodo?
Basta alzare gli occhi verso Ovest, da dopo il tramonto fin verso le 23.

La foto, qui per forza maggiore fin troppo castigata, è stata presa questa sera alle ore 22:20 e mostra, nelle residua luminosità azzurra elettrica del cielo, la Luna, Giove (mag. -1,4) e Venere, luminosissimo (magnitudine -4!).

Una splendida "congiunzione allargata" che ci accompagnerà per un bel po' in queste serate d'estate.
Che bella compagnia!
Specialmente se si ha la fortuna di poter rimirare le stelle in santa pace e di possedere un buon televisore a cui estirpare la spina.

 

Congiunzione Giove Venere

 

 
 
 

Pausa tropicale

Post n°320 pubblicato il 06 Giugno 2015 da paoloalbert

 

Pausa tropicale

 

 
 
 

Dialogo su un quadro

Post n°319 pubblicato il 19 Maggio 2015 da paoloalbert

 

Quadro Morse

 

- Guarda questo quadro... io ci vedo il CW nella sua massima espressione! Tu cosa ci vedi?

- Sei impazzito di colpo? Che c'entra questo capitello diroccato con... cosa hai detto? Che cavolo è questo CW?

- Effettivamente bisogna prenderla alla larga, per capirci. Prima di tutto c'è da dire che CW è l'acronimo di Continuous Wave, Onda Continua.

- Embè? Hai preso un colpo di sole oggi?

- E allora aggiungo che il termine CW è usatissimo, nell'ambito delle radiocomunicazioni in onde corte, per indicare il sistema di trasmissione in telegrafia.

- La vecchia telegrafia? Quella col tasto? Ma non è morto da secoli questo sistema?

- Per essere morto è morto, ma solo per le comunicazioni istituzionali, le navi, i servizi. Ma per le comunicazioni radioamatoriali a lunghissima distanza con bassa potenza rimane un sistema ancora usatissimo ed uno dei più efficienti.

- Efficiente? Ma se hanno inventato la telegrafia un secolo e ottanta fa! Che dici?

- Dico, dico. Perchè, se ci pensi bene, la telegrafia è un puro segnale DIGITALE: i punti e le linee o ci sono o non ci sono! Come 0 e 1. Ciò fa sì che con opportuni artifici si possa rivelare la loro presenza dentro il rumore elettronico anche a livelli bassissimi, quasi impercettibili. L'orecchio umano è sensibilissimo alle variazioni di ciò che c'è e ciò che un attimo dopo non c'è. I punti e le linee intervallati dagli spazi sono proprio la situazione ideale per questo.

- Ma se la telegrafia è così efficiente, perchè istituzionalmente è stata abbandonata?

- Perchè oggi ci sono i satelliti. Ne avrai dieci sopra la testa solo in questo momento! E oggi serve soprattutto velocità di comunicazione. E i satelliti, per i servizi "istituzionali", semplificano la vita. Ma è roba grossa, grazie tante. Mentre chi vuole collegare una stazione all'altro capo del mondo con una potenza irrisoria non vuole niente in mezzo! Altrimenti è come telefonare col cellulare, e allora dove sta la soddisfazione?

- Va bene, va bene, ho capito. Ma, insisto, voglio vedere come fai a tirare in ballo tutto questo discorso col quadro che stiamo vedendo.

- Tirare in ballo il CW col quadro? Ma sono le due cose più correlate del mondo! L'autore del quadro è Samuel Morse!

- Samuel Morse, quello che ha inventato la telegrafia?

- Proprio lui. Samuel faceva il pittore, più che il "telegrafista". Nel 1830, mentre era a Roma, facendo un giro lungo la strada dei Monti Sabini verso Subiaco vide questa edicola e, aggiungendoci un po' di fantasia, ci fece un quadro: La Cappella della Vergine a Subiaco.

- Proprio questo?

- Proprio questo. Vedi che prendendola un po' alla larga, tutto torna? E torna pure il CW!

- Già, è proprio vero che le concatenazioni della vita sono infinite... aspetta che mi riguardo il quadro!


 
 
 

Etere e perossidi

Post n°318 pubblicato il 11 Maggio 2015 da paoloalbert

Tutti quelli che hanno a che fare con la chimica sanno che nell'etere possono formarsi delle sostanze che godono di un aggettivo magico: "esplosivo!".
Perchè questo aggettivo sia magico è presto detto: attira l'attenzione come il miele attira le api (o qualcos'altro che non nomino attira le mosche).
Attenzione, qui non voglio parlare di roba che scoppia ma esattamente viceversa.
Per azione dell'aria e della luce si possono effettivamente formare nell'etere dei perossidi (sono molecole che contengono una catenella di due ossigeni -O-O- ) che allo stato secco o fortemente concentrati hanno caratteristiche esplosive e sono molto sensibili al calore e allo sfregamento.
Ecco che allora, se il perossido si fosse formato nel tappo della bottiglia che magari non era aperta da molto tempo, la microscopica deflagrazione che potrebbe accadere aprendola andrebbe ad incendiare tutto il liquido.
E l'etere, dal punto di vista dell'infiammabilità, è veramente un primo della classe.
Quindi il vero pericolo è questo, non certo lo scoppio di una quantità infinitesima di sostanza.
Oppure, caso completamente diverso, potrebbe succedere che qualche sprovveduto chimico da strapazzo distilli fino quasi a secchezza dell'etere ed allora i perossidi, se presenti, andrebbero a concentrarsi nel palloncino fino ad esplodere.
Non parliamo di forti esplosioni (nemmeno come quella di una micetta), ma quando sono presenti solventi infiammabili in recipienti di vetro con persone nelle vicinanze, NIENTE deve avere la possibilità di esplodere, altrimenti qualcuno rischia di prendersi una scheggia in un occhio (o creare un incendio).

Ciò che si forma col passare del tempo nella bottiglia di etere ben si vede dalla figura sottostante, che per comodità prendo in prestito da Wiki: etere -> idroperossido -> perossido (prodotto di polimerizzazione).


 Etere perossido

 

Naturalmente le quantità sono minime, pochi milligrammi per litro, e di nessun pericolo fin che le sostanze sono in soluzione.
La quantità è minima anche perchè nell'etere vengono appositamente aggiunti degli inibitori verso la formazione dei perossidi, come il butilidrossitoluene (BHT, pochi ppm).
Un semplice modo di verificare se nel proprio etere vi siano dei perossidi è il metodo allo ioduro, che per curiosità ho provato nella mia bottiglia di etere vecchia di due tre anni.

In una provetta porre una puntina di spatola di KI, 3 ml di acqua, 1 ml di acido acetico e 3 ml di etere.
Agitare vigorosamente e poi lasciare in riposo 5 minuti.
Se tutto rimane incoloro non ci sono perossidi, mentre se appare un colore da giallino fino a violaceo il test è positivo.
Si può aumentare di molto la sensibilità (ma secondo me non ha senso) aggiungendo una goccia di salda d'amido, e allora il colore vira al blù scuro anche con tracce di iodio.
E' facile intuire che lo iodio dello ioduro in ambiente acido è ossidato a iodio elementare che colora il solvente o reagisce con l'amido.
Ecco il risultato del mio test, che come si può vedere è positivo, anche se debolmente. Quindi anche nel mio etere ci sono i perossidi!


Etere perossido 1

 

La probabilità che mi esploda la bottiglia mentre la apro la ritengo pari più o meno a zero.
Qualche anno fa mi era capitato di maneggiare (cautamente) una vecchissima bottiglietta di etere di almeno 40 anni (vero etere d'annata, si può dire...) che fu di mio padre e che pur non presentava la minima cristallizzazione attorno al tappo ed evaporava benissimo senza lasciare tracce.

Segno evidente che il pericolo, in ambito di normale laboratorio, è molto più teorico che reale.
(Vista l'importanza di questo solvente, se il pericolo fosse reale avrebbero già chiuso tutti i laboratori chimici per sistematica morìa degli operatori...).
Va comunque giustamente segnalato che questo pericolo può esistere, anche se l'allarmismo esagerato in ambito chimico fa sempre un bell'effetto.
I perossidi in oggetto si possono facilmente eliminare dall'etere passandolo in colonna di allumina o più facilmente con un trattamento al solfato ferroso.

Il pericolo vero, quando si maneggia l'etere, è che ci siano fiamme libere in giro e che i vapori prendano fuoco anche da lontano.
I vapori di etere sono pesanti, estremamente infiammabili, e viaggiano sul bancone o sul pavimento che è un piacere.
Questo sì che è pericoloso!

(Ma poi a prendersi la colpa della disattenzione saranno magari i poveri perossidi, con quell'aggettivo magico che comincia con "e").

 
 
 

Ettore Molinari

Post n°317 pubblicato il 01 Maggio 2015 da paoloalbert

I miei "Molinari" sono rispettivamente del 1918 (Inorganica) e del 1927 (Organica).
Mi capita non di rado di sfogliare queste vecchie pagine ingiallite e per chi ama la chimica (storica) come la presento su questo blog, questi sono dei libri insostituibili.

Il prof. Ettore Molinari morì a soli 59 anni nel 1926 di "angina pectoris", come si diceva allora e commemorato con rimpianto negli ambienti del Politecnico e della chimica milanese in generale.
Da tempo era universalmente noto per il suo "Trattato di Chimica Generale Applicata all'Industria".

 

Molinari 1


Il futuro professore nacque in una numerosissima famiglia a Cremona nel 1867; dopo un periodo a Conegliano (dove fu espulso da scuola per le sue idee irredentiste) si stabilì a Zurigo.
Quel luogo era uno dei centri più vivaci per l'insegnamento della chimica applicata e vi lavoravano allora persone come Meyer (scoprì il tiofene), Lunge (introdusse il metilarancio in titolazione), Treadwell (chi non conosce i suoi libri di analitica?), Heumann (produzione dell'indaco), e tanti altri. 
Ettore conseguì la laurea con lode in chimica presso l'Università di Basilea nel 1889, con un lavoro sperimentale sulla "Costituzione dei diazoamidocomposti"  sotto la guida di H. Goldschmidt (colui che "inventò" la termite).
Come si vede, la buona compagnia non gli mancava!
Nel 1889, in seguito al fatto singolare di aver ereditato una intera galleria di quadri antichi (!), il neolaureato si trasferì a Parigi al fine di procurarne il miglior ricavo dalla vendita delle opere.
Personaggio eclettico, ebbe così il miglior modo di crearsi nel contempo anche una notevole cultura artistica frequentando i collezionisti ed il mondo intellettuale parigino.

Dopo il soggiorno francese (con i quadri non so come andò a finire) Molinari si trasferì a Londra ove lavorò in un laboratorio analitico e poi nel laboratorio bromatologico di Heidelberg, dove ebbe ancora modo di conoscere il vecchio Bunsen, sempre alle prese col suo "becco" (perdonate la sciocchezza, tutta mia...).
Tornato in Italia accettò il posto di direttore chimico nello stabilimento del grande lanificio Rossi, ed in questo periodo ebbe l'opportunità di venire in contatto pratico coi nuovi rami della nascente industria chimica, che avrebbero facilitato notevolmente i suoi compiti di insegnante e di divulgatore.
Nel 1901, e per una quindicina di anni, il Molinari divenne direttore della Scuola di Chimica di Milano, dove, oltre a lavori di analisi e di consulenze, fece parecchi studi importanti sugli esplosivi (eravamo alle soglie della G.M.).
Questi studi gli valsero nel 1910 la carica di consulente tecnico della Società Italiana Prodotti Esplodenti (la famosa S.I.P.E.), e nel 1915 ne divenne Direttore chimico.
Intanto già da anni si accingeva alla preparazione della sua opera monumentale, il «Trattato di Chimica generale ed applicata all'Industria».
Nel 1904 gli fu conferita anche la cattedra di Chimica merceologica all'Università Bocconi e quasi contemporaneamente ebbe l'incarico dell'insegnamento di Chimica generale al Politecnico di Milano.

Pur non abbandonando l'insegnamento e il lavoro letterario che richiedevano le susseguenti edizioni del suo Trattato, Molinari si dedicò intensamente allo sviluppo della fabbrica di esplosivi di Cengio, vista l'importanza dello stabilimento durante il periodo bellico.
Forse fu l'eccessivo sforzo fisico ed intellettuale a cui il Molinari si sottopose in quei tempi che cominciò a minare la sua salute, costringendolo a ritirarsi in una villetta con podere a Desenzano.

Ma anche nel suo romitaggio gardesano, anzichè coltivare l'orticello tovò il tempo di progettare un impianto per il trattamento con cloro dell'acqua del lago, destinata ad acqua potabile e compì ricerche perfino per l'utilizzazione dei tutoli del granoturco, che diede origine ad una discreta industria chimico-agricola nel Cremonese, assieme ad infinite altre iniziative che la sua mente vulcanica partoriva.
La sua opera capitale e per cui è conosciuto rimane comunque il "Trattato", nei due rami di Chimica Inorganica ed Organica, rispettivamente del 1905 e 1908.
Alle numerose edizioni italiane seguirono quelle nelle principali lingue e perfino in tedesco, il chè costituisce la più concreta attestazione di stima tributata all'opera del Molinari e mette in evidenza la grande reputazione che si era guadagnata anche presso la scienza d'Oltralpe.

 

Molinari 2

 

I "Molinari" sono dei libroni che si leggono pian piano e con piacere, oggi più di ieri, senza mai dare al lettore quel senso spiacevole di "mi tocca studiare" che danno certi profondissimi ma gelidissimi tomi attuali.

 

 
 
 

Arrivano i Tartari!

Post n°316 pubblicato il 18 Aprile 2015 da paoloalbert

Il tenente Giovanni Drogo aspettò i Tartari invano.
Per tutta la vita li aspettò.

                              ---°°°OOO°°°---

Stavolta non c'entrano i Tartari del capolavoro del Grande Bellunese ma i tartari della storia della chimica, la quale sempre mi affascina.
Rovistando nei miei vecchi reagenti, mi sono imbattuto in due bottigliette, una contenente una polverina bianca e l'altra delle belle laminette marrone scuro, quasi nere: sono due "TARTARI"!
Facciamoli diventare attori protagonisti della commediola di oggi, e andiamo a conoscere i loro numerosi vecchi amici.

I chimici avranno già capito che se si parla di tartari s'intenderà parlare di sali (o derivati) dell'acido tartarico o diidrossisuccinico: HOOC-CH(OH)-CH(OH)-COOH
L'acido tartarico si ricavava dal "cremore di tartaro", un deposito insolubile che si raccoglieva al fondo delle botti durante la lavorazione del vino.
Il cremor di tartaro, che è ancora oggi usato come agente lievitante, è il sale monopotassico dell'acido tartarico ed è uno dei pochissimi sali del potassio poco solubili in acqua. Ecco perchè si separava dal vino durante la fermentazione.
Qualcuno si ricorderà pure che con un paio di bustine (una contenente questo acido e l'altra bicarbonato di sodio) si preparava negli anni 60' "la deliziosa acqua di Vichy", ovvero si compiva la rituale giornaliera magia di trasformare la banale acqua di rubinetto in una bella bottiglia di acqua frizzante.
A quel tempo i supermercati stracolmi di bottiglie di plastica erano ancora a venire, ed anche quelle modestissime bustine fanno parte, se vogliamo, della storia della chimica.

I "tartari" oggi all'appello sono numerosi, quasi una ventina; mi limiterò dunque al loro elenco e ad una parola per ognuno.

- Tartaro: è il capostipite, tartrato monopotassico, detto anche cremor di tartaro HOOC-CH(OH)-CH(OH)-COOK

- Tartaro animale: guarda un po' come venivano chiamati i calcoli biliari! Intesi nel senso di deposito insolubile e fastidioso, come il tartaro appunto.

- Tartaro borassato: combinazione di tartrato di potassio e acido borico

- Tartaro cretoso: calcinando il Tartaro di ottiene quello cretoso, ovvero il tartrato si è decomposto a formare carbonato di potassio K2CO3

- Tartaro crudo: il deposito di tartaro, di colore rosato, così come si ottiene dal fondo delle botti durante la lavorazione del vino

- Tartaro elixarato: detto anche Tartaro di Van Helmont; tartrato di potassio distillato con sostanze aromatiche

- Tartaro calibeato: tartrato ferroso potassico, usato come "ricostituente" in antiche farmacopee

- Tartaro emetico: questo è il più tristemente famoso; è il tartrato di potassio e antimonile KOOC-CH(OH)-CH(OH)-COO(SbO), che era usato come potente vomitivo. Il medico che oggi lo prescrivesse sarebbe incriminato seduta stante per tentato omicidio... Si trova in una delle mie bottigliette.

-Tartaro germanico: tartarto di potassio e ammonio KOOC-CH(OH)-CH(OH)-COONH4

-Tartaro marziale: tartrato ferrico potassico, usato nelle antiche farmacopee (ma mica tanto antiche, fino agli anni '50) come cura apportante ferro; è quello che mi ha dato lo spunto per queste riflessioni perchè anch'esso si trova in una delle mie bottigliette. Laminette marrone scurissimo, di sapore ferroso caramellato, non sgradevole.

- Tartaro mefitico: come dire tartaro calcinato, cioè ancora carbonato di potassio

- Tartaro natronato: natron = sodio... costui non può essere che tartrato doppio di sodio e potassio, cioè il Sale di Seignette KOOC-CH(OH)-CH(OH)-COONa

- Tartaro rigenerato: o tartaro di Tachenio. Non è un tartrato ma acetato di potassio. Perchè si chiamasse così... lo sa solo Tachenio!

- Tartaro solubile: tartrato neutro (bipotassico) KOOC-CH(OH)-CH(OH)-COOK che è molto più solubile del sale acido

- Tartaro stibiato: idem come Tartaro emetico, dato che tutto ciò che una volta era "stibiato" conteneva antimonio

- Tartaro veneziano: tartrato acido di potassio puro (come si sa, la Serenissima faceva sempre le cose per bene!)

- Tartaro vitriolato: si può arguire che è solfato di potassio K2SO4. Ai tempi di Tachenio (!) si usava per le "ostruzioni del basso ventre". Come dire che una bella purga fa sempre bene.
Piuttosto che una curetta a base di tartaro mercuriale (esisteva anche questo e il mercurio allora andava sempre di moda) io avrei di gran lunga preferito il vitriolato

Ho fatto prendere un po' d'aria ai miei due attori di oggi: a sinistra il Tartaro stibiato e a destra il Tartaro marziale... alla salute!

 

Tartaro stibiato  Tartaro marziale

 

 

 

 

 

 

A forza di tartari, mi è venuta voglia di rileggere, per l'ennesima volta, quel capolavoro di cui dicevo all'inizio.

 
 
 

Verso le Dolomiti con la 740

Post n°315 pubblicato il 13 Aprile 2015 da paoloalbert

La 740 è una famosa locomotiva, costruita nel periodo a cavallo della prima Guerra Mondiale, anni prima, anni dopo.
L'esemplare che domenica 12 aprile ci ha fumosamente portato dalla piana di Treviso alle Alpi di Longarone è stato costruito dalle Officine Meccaniche e Navali di Napoli nel 1920.
Per gli appassionati della tecnica e dell'archeologia industriale (come il sottoscritto) queste macchine sono dei capolavori assoluti.
117 tonnellate di tecnologia allo stato puro, scolpite nel ferro, nell'acciaio, nel bronzo.
Anni orsono un amico macchinista mi aveva accompagnato in una visita approfondita a bordo di una di queste locomotive (in manutenzione presso le storiche Officine Ferroviarie di Verona), ed ero rimasto sbalordito; seguire il funzionamento del solo "acceleratore" della 740 e dei sui annessi, pesanti dei quintali, lascia senza fiato.
Vengono da paragonare i flussi di controllo della vaporiera a quelli di un cellulare moderno: qui i dati viaggiano negli ultramicrochip con 10 milioni di transistor per mmq, là viaggiano in un labirinto pazzesco di tubetti di ottone verso macroscopici manometri, valvole, rubinetti...

Mezza storia dell'ingegno umano passa certamente tra questi due estremi.

Ecco che quando si è presentata l'occasione di fare un viaggetto sul Treno Storico delle Dolomiti con la 740 non me la sono lasciata scappare, tanto più che le cinque carrozze trainate erano le gloriose "Centoporte" degli anni '20, rigorosamente con i sedili in legno, le maniglione in bronzo pesante delle venti (!!) porte e le antiche fotografie in bianco e nero dietro i sedili ben messe per acculturare il popolo poco viaggiatore di quegli anni.
Sopra la mia testa dov'ero seduto stavano appese "La valle dei templi di Agrigento", il "Rifugio Fuciade", "Piazza Armerina" e le "Dolomiti di Sesto"... tutta l'Italia ci stava, e sia gloria alla Nazione!

Partenza ore otto dalla stazione di Treviso, vapore a profusione e fumo, fumo, tanto fumo, esattamente come ci si aspetta da una locomotiva a vapore.
Fosse adesso queste macchine sarebbero messe fuori legge e condannate a morte in cinque secondi.
Velocità massima 60 Km/ora, milioni di foto lungo tutto il percorso da parte di esterefatti automobilisti e arrivo a Feltre per il rifornimento d'acqua presso l'antica colonna idraulica.
Poi su e su lungo la valle del Piave, fino a Longarone, esattamente sotto la famigerata diga.
Molto interessante la Fiera mercato (in tema) sul modellismo ferroviario, con dei pregevoli omaggi ai partecipanti al viaggio storico, bene organizzato dall'Aics di Belluno.
Al pomeriggio si ritorna, cambiando itinerario e senso di marcia a Ponte nelle Alpi.
Bella esperienza, sempre carinissima e simpatica Treviso; insomma tutti gli ingredienti per un tranquillo week end di primavera.

 

Treno 740 1

La 740 si gira a Ponte nelle Alpi

 

Treno 740 2

Rifornimento d'acqua e spalatura carbone a Feltre

 

Treno 740 3

Interno di un "Centoporte"

 

Treno 740 4

"Recluta" in attesa dell'imbarco per la battaglia del Piave...

 
 
 

LCD Winstar 12864 A/J

Post n°314 pubblicato il 05 Aprile 2015 da paoloalbert

Ogni tanto viene il turno di qualcosina di elettronico ed è quello che capita oggi.
Questo post serve soprattutto a me, per ricordarmi un cablaggio particolare; se dovessi perdere degli appunti so che qui di sicuro ritroverò quello che cerco.
Ma potrebbe servire anche a qualcun altro alle prese con le difficoltà e le perdite di tempo che ho avuto io; siccome i poteri concessi a San Google sono quasi infiniti, potrebbe darsi che quel qualcuno venga dirottato da queste parti, meravigliandosi di trovare in un blog una inaspettata scorciatoia per i suoi problemi.

Il fatto è che nell'unica fiera dell'elettronica (degna del titolo) rimasta in circolazione, ho preso tempo fa per 4 euro un bel display grafico da 8192 pixel (128 colonne, 64 righe), ripromettendomi di giocarci un po' interfacciandolo con Arduino.
Gli esperti di questo magico microcontrollore non hanno certo bisogno degli appunti del sottoscritto... ma, come dicevo, scrivo soprattutto per me.
Il display in oggetto è spesso reperibile a prezzo ridicolo nelle cosiddette "fiere dell'elettronica", in mezzo ad un'accozzaglia di cineserie.
Si tratta del WINSTAR WB12864 A/J, a 22 pin anzichè i soliti 20, con due microchip grafici NT7108.
Per il comando con Arduino ha bisogno delle librerie GLCD.h e allFonts.h

Ecco il cablaggio da realizzare:

Pin del WB12864A/J    Pin di Arduino

1    GND  ------------------    GND
2    +5V  ------------------    +5V
3    al pin 18 (contrasto)   
4    ------------------------    A3
5    ------------------------    A2
6    ------------------------    A4
7    ------------------------    8
8    ------------------------    6
9    ------------------------    10
10    ------------------------    11
11    ------------------------    4
12    ------------------------    5
13    ------------------------    6
14    ------------------------    7
15    ------------------------    A0
16    ------------------------    A1
17    ------------------------    reset
18    al pin 3
19    + 5V
20    220 ohm verso GND (LED rosso)
21    220 ohm verso GND (LED verde)
22    220 ohm verso GND (LED blu)


Collegato in questo modo il display funziona perfettamente, con i tre colori di retroilluminazione a scelta.

In Arduino UNO rimangono a disposizione come IN/OUT solo i pin 0,1,2,3,12,13,A5, sufficienti per farci qualcos'altro.

 

LCD


Le difficoltà (che ho incontrato io) sono che il modello J a 22 pin non è praticamente mai citato nelle ricerche in rete e che un errore nel cablaggio di uno dei circuiti sui quali mi ero basato mi ha fatto perdere parecchio tempo perchè le coordinate 0,0 anzichè corrispondere alla prima colonna/prima riga corrispondevano alla 60quattresima colonna (erano invertiti i pin A0 e A1 che corrispondono al comando dei due chip a bordo del display).

Buon lavoro!

 
 
 

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