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La geisha Kociyo

Post n°621 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da pedro_luca
 

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La geisha Kociyo e l'arte del desiderio

Traccia n. 3

Jotaro si ritrovava su quella strada polverosa senza aver ricevuto nemmeno un saluto o un benservito. L’unica consolazione cercata, si, cercata, perché la sensazione principale che lo permeava era quella del vuoto, tanto da sentirsi inutile come se avesse già sprecato irrimediabilmente il suo futuro, perciò si rifugiava in una certezza, l’unica a cui riusciva con molta  fatica a dar credito, la consapevolezza d’aver svolto il proprio dovere, di aver eseguito fino in fondo il mandato ricevuto dagli anziani del villaggio.
Mentre Jotaro si allontanava con le lacrime agli occhi e l’animo straziato dal dubbio, Kochiyo si perdeva meravigliata ad osservare attentamente le stoffe colorate appese alla parete della stanza. Non aveva mai visto nulla di simile, d'altronde al villaggio c’erano solo capanne di legno e paglia. Su quei rotoli distesi poteva ammirare la nitidezza del tratto e le gradazioni di colore, le sembrava  quasi di sentire i rumori e i profumi davanti ai paesaggi di campagna raffigurati con maestria e sottolineate da scritte esplicative ad indicare il luogo rappresentato.
Tutto quello splendore si sarebbe ben presto rivelato per ciò che era in realtà, solo un paravento. Il giorno seguente Kochiyo avrebbe conosciuto quanto si celava dietro quei pannelli così splendidamente dipinti, avrebbe scoperto il mondo viveva celato al riparo, mimetizzato nell’estrema finezza dei suppellettili che ornavano quelle stanze. Appena sveglia venne condotta nella sala delle abluzioni dove l’attendeva, con l’immancabile sorriso di pragmatica sulle lebbra, un gruppo di giovani aspiranti geishe. Rimase in quelle vasche d’acqua calda, immersa nei vapori profumati per più di due ore, in totale abbandono alle cure dei quelle giovani mani delicate. Ne uscì con il  corpo talmente rilassato da avvertire nei suoi movimenti un tempo rallentato. Prima che se ne rendesse conto venne introdotta nella sala della deflorazione. In quella stanza regnava la penombra, tanto forte che a fatica scorse solo i contorni di due figure che si stagliano contro un piccolo pertugio luminoso, l’unica fonte di luce che rimase in quel luogo una volta chiusa la porta alle sue spalle. Era un fascio luminoso che cadeva al centro partendo da metà parete sul lato opposto della stanza. Non fece nemmeno in tempo a capacitarsi di cosa stesse avvenendo che due mani robuste le allargarono le gambe, la tennero così per pochi minuti. Kochiyo avvertì solo un forte dolore, provò per un attimo lo smarrimento dell’irrimediabilità, poi dolenze alle gambe, nei punti in cui erano serrate da forti mani. Tutto quanto avvenne nel più completo silenzio, nessuno si degnò di spiegarle quanto si andava facendo e nemmeno lo scopo di tali operazioni. La ripulirono con un panno e di seguito venne ricondotta nella sala delle abluzioni, rimessa in un bagno e assegnata alla maestra Kinuye, responsabile di quel settore e di quello della prima accoglienza. In breve la piccola Kochiyo aveva perso la verginità in modo meccanico, senza le complicazioni che un rapporto sentimentale porta con sé, con i suoi risvolti psicologici e le sue ricadute umorali. Come una serva devota al desiderio, votata all’arte della seduzione, serva del piacere, doveva ora imparare a dominare i sensi, a gestire le emozioni, a comandare il corpo e ad amministrare l’eccitazione che conduce al godimento. 
Doveva fare dell’appagamento non lo scopo della tensione, ma la base da cui riaccenderla.
Le lezioni e gli esercizi duravano per l’intera giornata, nulla di quanto si faceva nel vivere quotidiano esulava dall’insegnamento. Tutto io vivere era teso alla ricerca della perfezione. Dapprima imparò a disgiungere le sollecitazioni fisiche da quelle mentali, a separare le emozioni, ad ascoltare  il ricettacolo nervoso del corpo e riconoscere gli impulsi, slegando quelli della carne da quelli sollecitati dalla mente. Imparò che solo nella conoscenza specifica di ogni singolo sentire c’è il segreto per poterlo dominare. Apprese che la semplicità è indispensabile per raggiungere la perfezione, cioè, l’essenza stessa delle cose, e che la commistione è il pericolo più grande per perdersi. Fu così che divenne in poco tempo un a delle migliori allieve di quella casa di geishe, nessuna sapeva suonare il Koto o il Shamisen come lei, quando si dilettava nell’estrarre la purezza delle note da quegli strumenti, in sala tutti si fermavano ad ascoltarla estasiati, rapiti dalla dolcezza e profondità dei suoni.
Non le fu difficile comprendere che il portamento, le espressioni del viso, il muovere degli occhi, la gentilezza dei gesti e la grazie delle movenze  traggono spunto dall’ordine della natura. Che per saper vedere occorre imparare ad osservare, che la bellezza spontanea della natura ha sa essere ricondotta all’ordine spirituale. Così era per il disporre dei fiori nell’ikebana, del linguaggio espressivo per immagini del kimono, del senso di completezza dell’ospitalità nella cerimonia del tè, dell’onore nella dedizione alla servitù.
Una volta lasciata la figlia in quella casa, Jotaro non perse tempo a ritornò al villaggio, non si fermò nemmeno a rifocillarsi per la grande fretta che lo pervadeva. L’impazienza era il frutto del grande travaglio che agitava il suo animo, un affanno doloroso, questo era il motivo per cui non vedeva l’ora di presentarsi davanti agli anziani, e comunicare loro che la missione a cui era stato deputato era stata conclusa come pattuito, sua figlia era stata accettata ed ora si trovava nella casa delle geishe del governatore della provincia.
La gratitudine che avrebbe trovato sui volti dei suoi compaesani avrebbero alleviato il rimorso che invece di sopirsi stava torturandogli la mente.

 
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