Creato da carlopicone1960 il 13/01/2008

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Messaggi di Giugno 2019

Destra suprema

Post n°513 pubblicato il 30 Giugno 2019 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Che l’Italia sia un paese di destra è un fatto inequivocabile. Oggi più di ieri. Ci sono voluti venti anni di governo berlusconiano per innescare un processo di revisionismo e legittimazione dei più biechi sentimenti che potessero albergare nel popolo italiano, per affermare il liberismo sfrenato e l’egoismo reazionario che con l’attuale atipica compagine giallo-verde al potere trova la sua naturale prosecuzione. Fino ad arrivare al salvinismo imperante. La fiducia massima ed incondizionata nell’uomo solo al comando, che efficacemente risponde alle pulsioni dell’italiano medio, quello che non legge libri né giornali, s’informa attraverso i social e quando guarda la televisione volentieri si dispone all’ascolto dei nuovi paladini mediatici della destra più retriva, capillarmente presenti dentro il video.

 

Convinti di essere al cospetto di colui che è in grado di risolvere i problemi del Paese,  gli italiani, che ora inneggiano a Salvini e alla Lega, hanno riscoperto la funzionalità dell’autoritarismo decisionista e dispotico che parla alla loro pancia, ammantandosi del populismo più basso e feroce. 

Ma mentre la nostra nazione, mai veramente unita, tra un Nord efficiente ed un Sud sempre più desolato, comodamente si consegna alla bestialità dei nuovi governanti privi di ogni forma di cultura, dall’altra parte le opposizioni languono, incapaci di metter su un progetto politico alternativo, in grado di contrastare la preoccupante deriva che ha preso l’Italia. Questo a causa dell’assenza pressoché completa di una visione progressista che ponga al centro l’uomo e non i suoi istinti animali, frutto di decenni spesi ad inseguire il riflusso e la scomparsa delle ideologie. Quasi fosse l’esito di una profezia che si autoavvera, di una pervicace suggestione della fine di ogni ideale di giustizia sociale ed uguaglianza. La caduta del muro di Berlino, l’irruzione del postmoderno e della paura del terrorismo seguita all’11 settembre hanno infatti sconvolto il campo della sinistra, avviandola verso posizioni sempre più minoritarie. Tanto che, in Italia come nel mondo, essa vive una congiuntura storica di crisi, apparentemente senza via d’uscita. 

Fondandosi sul convincimento che davvero non esiste più la contrapposizione fra le categorie, troppo in fretta liquidate, di destra e sinistra, comunismo e socialismo sono andati in archivio, non prima di essere demonizzati come i mali assoluti in una realtà globalizzata dominata dal neo-capitalismo delle grandi multinazionali, dove alla ricchezza in crescita incontrollata di pochi corrisponde l’impoverimento generale delle classi medie e dei poveri sempre più poveri. 

Il tutto a nascondere la pericolosità del neofascismo trionfante, nell’accezione salviniana post-berlusconiana per l’Italia e in quella trumpiana per il mondo intero, che molto hanno in comune. 

È bastata un’asfissiante campagna mediatica puntata sull’immigrazione, dipinta come l’emergenza numero uno in un Paese allo stremo sul piano della disoccupazione, della criminalità e del debito pubblico, perché il segretario dell’ex Lega Nord, ora sovranista e nazionalista, divenisse il politico più amato, il leader supremo, con milioni di consensi tra la gente che si riconosce in lui. 

Varcato il confine flebile tra etnocentrismo, razzismo e xenofobia, i sentimenti più deleteri per uno Stato civile e democratico non hanno trovato più argini. Mentre l’assiduità di una politica tesa allo sfascio dei valori morali e culturali sui quali si fonda la Costituzione dei padri della Repubblica ha creato un sottofondo costante indirizzato ad azzerare quel briciolo di patrimonio ideale ancora esistente nella nostra storia. Alludo alla presenza fissa dentro i talk show di politica, d’intrattenimento e di informazione dei novelli cantori del “Paese più bello che c’è”, negazionisti cronici e assertori di logiche perverse, portatori sani della nuova ignoranza: la reale emergenza in cui tutti siamo immersi.

Se, infatti, l’analfabetismo funzionale e la diffusa mancanza di conoscenze costituiscono la causa ultima dei mali delle società avanzate del terzo millennio, come del resto anche per le società umane del passato, il caso dell’Italia odierna è emblematico in tal senso. A cominciare dalle due forze politiche che mietono i maggiori consensi come la Lega, in origine formazione secessionista, indipendentista e razzista nei confronti dei meridionali terroni, ora invece nazionalista e populista, seppure di destra; e il M5S, raggruppamento post-ideologico, né di destra né di sinistra, giustizialista e per l’onestà, qualunquista e sostenitore di un “francescanesimo” piuttosto simile al “poraccismo” (da “poveraccio”) che all’autentico messaggio cristiano. 

Sono comunque loro le novità più importanti di questi ultimi tempi, in un panorama complessivo che stenta ad aggiornarsi, che ne dicano i neo-berlusconiani, i post-fascisti di FdI, oppure quelli del Pd ormai ridotti a capri espiatori, colpevoli di ogni bruttura del passato. Vittime del processo di “deidealizzazione”, che ne ha completamente delegittimato l’azione politica, artatamente alimentato dai nuovi guru della destra. 

 

Sta di fatto che tale quadro parlamentare restituisce un Paese oggi indiscutibilmente caratterizzato dalla supremazia culturale della destra, sostituitasi in maniera tronfia e vendicativa alla gramsciana egemonia della sinistra. Ma non per la maggior qualità del messaggio trasmesso, piuttosto che per una rabbrividente mancanza di messaggi, che si adatta a pennello alla disimpegnata richiesta del popolo, che premia quanti provvedono alle sue esigenze spicciole. La riprova c’è osservando i comportamenti della gente, avvolta nella mediocrità generale, fonte di riscatto per esistenze finora fallimentari, che mette in un angolo gli intellettuali scomodi per abbandonarsi ai piaceri dell’incompetenza condivisa. Lo si verifica dall’entità delle proposte politiche, dall’assurdità delle promesse, dal discorso ignorante che contraddistingue i grandi temi, non solo politici in senso stretto, affrontati attualmente in Italia. Con le risposte date, che in nome di un superficiale senso di libertà e democrazia, stanno facendo retrocedere sempre più il nostro Paese verso l’abisso.      

 
 
 

W il Food

Post n°512 pubblicato il 27 Giugno 2019 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

L’estate è il periodo dell’anno tradizionalmente destinato alle sagre culinarie di qualsiasi cosa ed è anche il momento di “Irpinia Mood”, manifestazione dedicata al cibo prodotto in provincia di Avellino. O almeno in Campania. 

 

Quando, per tre giorni, 28-29-30 giugno, l’isola pedonale di Corso Vittorio Emanuele si trasforma in un luogo dove mangiare specialità cotte sul momento e servite ai fortunati che, superate file interminabili, riescono ad accedere agli stand più rinomati.

L’Irpinia, terra di vini eccellenti e prodotti alimentari altrettanto straordinari, vive così la sua consacrazione come luogo dove si mangia, mettendo in mostra alcuni dei fiori all’occhiello di una gastronomia da primato. 

Del resto il “food” costituisce uno dei punti di forza dell’intera economia italiana, con il suo fatturato miliardario, malgrado le insidie derivanti dal mercato globalizzato e dalla scarsa tutela da parte dello Stato nei confronti all’invasione sempre più preoccupante di produzioni estere, dalla Cina alla Turchia, dal Marocco alla Tunisia, solo per fare qualche esempio. 

Sta di fatto che, negli ultimi anni, il nostro atteggiamento verso il cibo è completamente cambiato. Un contributo fondamentale è venuto dall’esplosione mediatica dei “master chef”, dei molteplici programmi televisivi basati sulla cucina e la valutazione critica di piatti preparati all’occorrenza. Le serie di format con protagonisti Alessandro Borghese o Antonino Cannavacciuolo hanno sortito l’effetto di rendere gli italiani più attenti, critici e fantasiosi in cucina. Più esigenti rispetto alla qualità dei loro manufatti e delle materie prime necessarie a comporli. E il continuo bombardamento televisivo, associato alle illimitate capacità di attingere attraverso internet a qualsiasi ricetta e tutorial per l’esecuzione dei piatti, ha difatti dato vita ad una nuova figura di consumatore più selettivo e meno disponibile ad accontentarsi delle solite pietanze della tradizione. Un fatto sicuramente positivo, senonché costituisca al contempo un fattore di criticità. 

Perché la globalizzazione dei sapori e della possibilità di mangiare qualsiasi cosa proveniente da ogni parte del mondo, spesso, si traduce in confusione tra una eccessiva quantità di prodotti non sempre di qualità offerti dal mercato, mentre aumentano le difficoltà di scelta da parte del consumatore. Così la maggior cultura del cibo finisce per essere travolta dal business agro-alimentare. 

Cessa, infatti, il discrimine sulle caratteristiche delle produzioni, non si bada più ai luoghi e alle condizioni di coltivazione o allevamento, alle stesse modalità di raccolta e confezionamento, in nome di un nuovismo che calpesta la genuinità dei prodotti. Tutto è “bio”, assecondando un trend consolidato, e perciò diventa più costoso. Effetto collaterale della rinnovata consapevolezza culinaria: chi vuole mangiare bene è costretto ad affrontare spese sempre più alte. Proprio i prezzi più elevati delle materie prime, appannaggio esclusivo dei ceti più abbienti, rendono quindi classista l’approccio al “mangiarbere” di qualità, secondo la terminologia di Slow Food, antesignana dell’opera di sensibilizzazione sul buon cibo, finendo per costituire la nota dolente di tutto l’ambardadan, mentre i controlli restano sempre limitati. 

C’è poi l’insorgere delle mode gastronomiche a volte suscitate artatamente da campagne mediatiche che periodicamente investono gli italiani ai fornelli, con cibi una volta demonizzati e l’anno dopo riabilitati per capacità miracolose prima ignorate. 

 

Insomma, un gran casino nelle nostre abitudini alimentari che d’estate dovrebbero disporsi al relax della vacanza, piuttosto che alle lezioni dei “masterchef” di turno. Resta il fatto, però, che il “food” tira sempre. Una tendenza di successo e di guadagni assicurati. Tanto che qui ad Avellino è divenuta l’attività principale, grazie al numero crescente di ristoranti, pizzerie e fast food rispetto ad una potenziale clientela non proprio sconfinata. Apprestiamoci quindi a vivere queste giornate di afa e perle della gastronomia nostrana di “Irpinia Mood”. Nella speranza che non siano troppe unte, per rispettare l’igiene del Corso principale. 

 
 
 

Il Comandante Priolo

Post n°511 pubblicato il 22 Giugno 2019 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Le manifestazioni di giubilo che hanno accompagnato l’ultimo provvedimento del commissario straordinario Giuseppe Priolo, vale a dire la sottoscrizione dell’impegno, da parte del Comune di Avellino, a recuperare in maniera concreta il monumento indennitario della Dogana dei Grani, liberando l’attigua piazza Amendola, da anni transennata, dimostrano l’indiscriminato consenso riscosso dal suo operato. 

Il funzionario di governo, chiamato, alla fine dello scorso novembre, alla gestione dell’ordinaria amministrazione in una città ritrovatasi senza sindaco per le dimissioni di Ciampi, in poco meno di sette mesi, è stato protagonista di una “piccola rivoluzione”, in nome dell’efficienza e del decisionismo, che l’hanno condotto oltre la semplice ordinarietà, arrivando a sbloccare tutta una serie di impasse che tenevano avvinta la realtà avellinese. 

Dapprima lentamente, poi con sempre maggiore rapidità, ha messo a regime la macchina amministrativa, finendo per occuparsi di questioni centrali nella vita cittadina, come, ad esempio, l’inquinamento da traffico veicolare. E questo è stato probabilmente il fronte più difficile su cui si è dovuto misurare, attraverso una serie di ordinanze non bene accette sia dagli automobilisti che dai commercianti del centro. Intanto, dava spazio ed ascolto ad un gran numero di vertenze, agendo di concerto con il prefetto Tirone. 

Il suo intervento sulla viabilità è stato affiancato dal costante interesse per il decoro urbano, ma, soprattutto, ha cercato, nei pochi mesi a disposizione, di riaprire i cantieri delle “grandi opere” incompiute presenti in città, fino a giungere quasi all’apertura dell’ultradecennale tunnel di via Garibaldi; e alla conclusione dei lavori scandalosamente fermi di piazza Castello, prossima a ritornare percorribile. 

Così l’ultima intesa riguardante la Dogana, sito di valore storico, lasciato nell’abbandono da troppo tempo ormai, costituisce il suo ennesimo successo ma anche un cruccio per l’ex prefetto di Trapani, messinese di origine ma dall’aspetto “sabaudo”. Perché a causa della scadenza del proprio mandato, avendo adesso Avellino un nuovo sindaco, il “supercommissario” non potrà vedere la realizzazione di quanto ha felicemente avviato, agibilità del tunnel compreso. 

Mai comunque un funzionario di governo ha lasciato un segno così significativo nella vita della nostra città, dettandone anche gli indirizzi fondamentali per risolvere annose problematiche. 

Mai un commissario ha ottenuto tanta approvazione per le azioni intraprese, tanto da far sorgere nella cittadinanza il convincimento che si potesse fare a meno di sindaco e consiglieri comunali, considerata l’efficienza del suo “dirigismo”. E sono in molti a sostenere che, con qualche altro mese in più, Priolo sarebbe stato in grado di regalare altri “miracoli” alla cittadinanza. 

Tuttavia, il successo bipartisan riscosso dal commissario straordinario, che a breve lascerà il posto al neo primo cittadino Gianluca Festa, è il sintomo un po’ preoccupante dello stato precario della politica locale. 

 

Se in pochi mesi sono stati rimossi ostacoli antichi alla vivibilità cittadina, senza polemiche e altri intoppi, significa che l’amministrazione prima di Priolo non funzionava e che magari i cittadini avellinesi si trovano a più agio con “un solo uomo al comando”, libero dalle pastoie partitiche e dai freni di lobby di interesse, quelle che lui ha bypassato in questi ultimi sette mesi.     

 
 
 

Dopo voto

Post n°510 pubblicato il 20 Giugno 2019 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Mentre ci avviciniamo, con la solita lentezza burocratica, alla proclamazione ufficiale del nuovo sindaco, eletto il 9 giugno scorso, e al conseguente primo insediamento del nuovo Consiglio comunale, è come se un rivolo venefico, proveniente dall’estenuante campagna elettorale per le amministrative 2019, si sia impadronito dell’odierno dibattito politico locale. 

Attori protagonisti di questa coda all’interno del dopo-voto, che tutti si sarebbero risparmiata, quelli che hanno ritenuto opportuno analizzare pubblicamente il risultato elettorale, ammettendo sconfitte o per lo più affermando aspetti positivi dai più non colti. Insieme a loro, i cosiddetti “trombati”, a tener viva l’attenzione è stato sicuramente Gianluca Festa, capace di infervorare la discussione già dalle sue prime uscite ufficiali. Per continuare la sua lotta, ampiamente dichiarata nel corso della campagna elettorale, nei confronti della Federazione irpina del Partito democratico e dell’assessore regionale all’Ambiente, oltre che vicepresidente, Fulvio Bonavitacola. 

Appena può, infatti, “Gianlucone” non manca di rivolgere avvertimenti simili ad aut-aut all’odiato segretario provinciale Giuseppe Di Guglielmo, fra i principali artefici, insieme a Rosetta D’Amelio, Mancino ed Enzo De Luca, dell’autolesionista “operazione Cipriano”, indicato come candidato a sindaco del Pd, quando un’altra metà dei dem locali si schieravano con l’“eretico” Festa, fino all’insuccesso finale. Forte, lui che dovrebbe esserne ancora un tesserato, dei consensi ottenuti alle elezioni, il neo-sindaco vuole la testa della direzione provinciale, annunciando senza mezzi termini che cambierà tutto, anche la sede del partito. E fin qui ci può stare. Tuttavia è meno legittimo che la stessa richiesta venga anche dall’esponente sannita dei democratici Del Basso De Caro. 

Uno che, dopo aver ricevuto esclusivamente dinieghi nella sua Benevento a conduzione mastelliana, da quando è diventato parlamentare ha messo solide radici ad Avellino ed in Irpinia, tanto da essere il punto di riferimento di una corrente interna al partito locale, quella, appunto, “decariana”, che ha nell’ex consigliere comunale Livio Petitto uno dei leader più fedeli. E considerato che le liste assemblate da Festa erano in gran parte formate da esponenti vicini al “decarianesimo”, si può dire che il politico sannita sia stato tra i vincitori più convinti delle ultime amministrative. 

Resta comunque l’interrogativo sul perché una fetta consistente del Pd avellinese si sia piegato alle volontà e al progetto, finora non specificato, del capo-corrente beneventano. 

Altrettanto inevaso il quesito sull’astio personale da parte di Festa verso Bonavitacola, la smania di rivoluzionare tutto ha comunque preso il nuovo primo cittadino, concentratosi anche sull’Alto Calore Servizi, che lui conosce bene essendone stato pure membro del Consiglio d’amministrazione, ora a suo dire da rifondare.

Poi, di certo, non si può omettere dall’elenco dei protagonisti di questa fase post-elettorale il neo-sindaco di Nusco, Ciriaco De Mita. Il 91enne politico di lungo corso ha, infatti, sparato cannonate al alzo zero all’indirizzo del “traditore” Maurizio Petracca, nel corso di una conferenza stampa sul dopo-voto. 

Sonoramente battuto alle elezioni, la “mente” di “Laboratorio Avellino”, lista a supporto di Luca Cipriano, è stato talmente polverizzato dai giudizi trancianti dell’ex presidente del Consiglio, che quasi è venuta voglia di lanciare una campagna a protezione del consigliere regionale, completamente annientato dalle parole dei demitiani. 

Saranno pure strascichi delle ultime elezioni, ma il cittadino medio avellinese non vede l’ora che, dalle chiacchiere, si passi ai fatti concreti: c’è tutta una città da rendere vivibile.

 
 
 

Senso estetico portami via

Post n°509 pubblicato il 19 Giugno 2019 da carlopicone1960
 
Foto di carlopicone1960

Avevamo proprio bisogno del monumento delle ali installato di recente a Piazza Libertà? Perché, se fosse stata una consapevole scelta estetica, quella di affidare allo scultore di origini irpine Calò il compito di abbellire un luogo centrale della vita degli avellinesi, diciamo subito che l’effetto è del tutto contrario. 

Piuttosto che attrarre, suscitando emozioni positive, l’opera respinge la vista, intristendola. Crediamo, infatti, che le due ali d’angelo o d’altro volatile sovradimensionato non siano niente di più che la loro riproduzione anatomica in bronzo, denominata iperbolicamente dall’autore “Le ali dell’anima”. 

Anima senza testa, anima ridotta alle sole estremità. Più vicine a rappresentare quelle delle migliaia di piccioni che infestano la nostra città. 

Al di là di ogni metafora, che vedrebbe nell’opera lo sguardo proiettivo alla ricerca di un’anima da parte di un territorio urbano svilito e violentato da decenni di mala amministrazione, il dato oggettivo è che è brutta. Priva, appunto, di senso estetico. Collocata sopra un alto piedistallo in ferro. Inquietante. Luccicante sotto il sole, a pochi metri dal Palazzo vescovile. Ma l’interrogativo rimane. 

Dopo averci regalato il singolare ornamento di via Francesco de Sanctis: le già famose “testine” che irte su due elevati supporti, costate circa venticinquemila euro, per iniziativa della giunta Foti, ecco quindi il rabbrividente monumento delle ali, che ricordano i lati di un fascio littorio, per una spesa, anch’essa voluta dalla amministrazione Foti, di ben cinquantamila euro. 

Tuttavia la ricerca di dehors, di azioni decorative a macchia di leopardo, senza un progetto organico di rivalutazione estetica di tutta la città, ancora oppressa da “buchi neri” ed altre brutture, non ha risparmiato nemmeno l’isola pedonale di Corso Vittorio Emanuele. Sempre più invasa dai mega rettangoli sfinestrati che hanno preso il posto dei costosi gazebo, chissà dove accantonati. Qui, i Lions, dimostrando scarsa conoscenza del luogo che volevano consacrare, hanno commissionato l’installazione di un cubo in marmo, del tutto simile ad una consolle, su cui nemmeno tanto visibile c’è un altorilievo che vorrebbe essere la mappa dei posti più significativi del capoluogo. A parte gli errori marchiani sui quali, a suo tempo, si è molto dibattuto, anche in questo caso, non se ne sentiva la necessità, fra panchine di marmo, nuove aiuole abbandonate ad una crescita incontrollata e spazi pedonali via via diminuiti dalle vere e proprie “casette” che sorgono davanti ai bar del centro. 

Tutto questo per dire come finora si sia proceduto in maniera approssimativa, nel tentativo di abbellimento cittadino. E gli ultimi interventi compiuti ne sono testimonianza. 

 

Adesso si spera che il senso estetico unito alla razionalità s’impadronisca dei nuovi amministratori. Ma un dubbio ci assale: nella compagine di Festa, non è che ci sono troppi esponenti delle passate amministrazioni, quelle che con Galasso decidevano di riempire il Corso di sedute cimiteriali e piante inscatolate, coi famigerati “gazebo-docce” davanti ai caffè? O quella, come la giunta Foti, che sceglieva brutte sculture per rattristare il cuore degli avellinesi?

 
 
 

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