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TESTIMONIANZA DEL BAMBINO

Post n°208 pubblicato il 13 Maggio 2007 da psicologiaforense
 

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Capita che la pubblica attenzione, come la Bella Addormentata, emerga di colpo da lunghissimi sonni della ragione per accorgersi che mentre dormiva, un dato evento, da fenomeno si era trasformato in problema sociale. E quello che è successo con l’improvvisa centralità assunta dal bambino e dalle sue vicende, legata in gran parte al maltrattamento e all’abuso. Il fenomeno del maltrattamento dei minori è vecchio come il mondo. Da sempre i bambini sono stati maltrattati e abusati, la storia remota e recente lo dimostra, ma tutti “dormivano” e hanno continuato a dormire. Indifferenti al fenomeno, ci siamo “svegliati” quando il clamore della stampa, specie statunitense, ha trasformato il maltrattamento e l’abuso dei minori in problema sociale. La data ufficiale di questa presa di coscienza può essere collocata intorno al 1962 quando Kempe identificò una precisa entità nosologica (Battered child syndrome) per il maltrattamento infantile che egli stesso poi ribattezzò nel 1976 con il termine di Child Abuse and Neglect per farci rientrare anche l’abuso psicologico e sessuale. Da un giorno all’altro, l’opinione pubblica e le istituzioni hanno dovuto prendere atto che ogni anno migliaia di bambini in tutto il mondo subiscono gravi violenze. I dati Istat 2005 parlano di 50.000 casi per l’Italia, in Francia le rilevazioni statistiche indicano 70/80.000 casi all’anno, negli Stati Uniti la cifra è di 3,5 milioni di casi di abuso. Finito il sonno - colpevole e ipocrita - persone ed istituzioni si sono dovute occupare di questa nuova tematica per cercare di capire le cause del fenomeno, per individuare le misure per arginarlo, per punire i colpevoli. A questo punto il problema da sociale è diventato anche giudiziario perché la legge penale, che ha cominciato a processare gli adulti abusanti, si è resa conto di dover celebrare processi anomali, quasi sempre indiziari, nei quali il peso probatorio riposa, si fa per dire, sul minore che il più delle volte è, al contempo, vittima e testimone. Il problema che sorgeva a questo punto era quello di capire quanto potesse valere la testimonianza di un bambino, magari di 3 o 4 anni e come fosse possibile misurare l’attendibilità delle sue narrazioni. Con grande sorpresa ci si è resi conto che il bambino era un oggetto misterioso e sconosciuto” e che il sapere scientifico in materia era poco, incompleto e inaffidabile. Né valeva rivolgersi alla ricerca statunitense, dalla quale solitamente attingiamo a piene mani, perché gli psicologi americani avevano in pratica cessato di occuparsi della testimonianza infantile dal 1692 quando si celebrò a Salem (Massachussetts) il famoso processo nato dai racconti di dieci bambine che accusavano tre donne di averle stregate. Nel corso di quattro mesi centinaia di persone furono arrestate, processate e molte furono condannate a morte. Ma si scoprì presto che le minori avevano mentito e che a causa delle loro menzogne, prese per vere dai giudicanti, tanti innocenti avevano sofferto e perso la vita. Per i 314 anni che ci separano da questo processo, l’atteggiamento prevalente dei giuristi statunitensi è stato di profondo scetticismo verso la testimonianza del minore e questo episodio ha avuto tali ripercussioni giudiziarie che ancora oggi i giuristi continuano a ricordare l’errore giudiziario di Salem a riprova della inattendibilità della testimonianza infantile. Lo scetticismo dei giuristi non poteva non contagiare gli psicologi anglosassoni che hanno perso ogni interesse nello studio della capacità testimoniale dei minori. In tutto questo periodo,  l’unico contributo della psicologia statunitense al tema della testimonianza infantile è stato un studio di Small, datato 1896, sulla suggestionabilità. Sarà solo negli anni Settanta, forse stimolati dalla formulazione della sindrome del bambino maltrattato di Kempe, che gli psicologi riprenderanno interesse e ricominceranno a studiare questo argomento. Questo lunghissimo sonno della ricerca psicologica d’oltreoceano ha portato, per una volta, gli studiosi europei in una posizione di rilievo e di preminenza nella ricerca psicogiuridica sulla testimonianza infantile. Studiosi come Binet, Varendonck, Sterra e Lipmann, negli anni 1900-1925, hanno dato un rilevante e tuttora apprezzato contributo allo studio della psicologia del minore quasi esclusivamente concentrata sul fenomeno della suggestionabilità nella prospettiva della valutazione testimoniale. Di particolare interesse è l’apporto dato da Varendonck che ricoprì il ruolo di testimone esperto in un famoso processo celebrato in Belgio nel 1911 nel quale l’imputato era accusato da due bambini di aver assassinato una giovane ragazza. Dopo aver ascoltato la loro testimonianza, Varendonck si convinse dell’innocenza dell’accusato e grazie a due esperimenti da lui condotti nelle more del processo per accertare in concreto il livello di affidabilità della testimonianza dei minori, poté dimostrare al tribunale che le dichiarazioni rese dai due bambini alla polizia erano false perché frutto delle suggestioni di adulti (de Cataldo Neuburger, 1988). Queste sue ricerche empiriche sono ancora attuali e ricordate nelle aule di giustizia. Se osservazioni che risalgono agli inizi del secolo valgono ancora oggi è perché il fenomeno della suggestionabilità dei minori ha inestirpabili radici psicologiche che affondano nella specificità delle diverse fasi evolutive che caratterizzano la crescita del bambino e nella sua intrinseca “debolezza” di individuo ancora in crescita. La sua inferiorità fisica e psicologica è stata da sempre sfruttata dalla pedagogia tradizionale per “raddrizzare”, come si diceva una volta, attraverso modelli di interazione di tipo autoritario o suggestivo, la “giovane pianta’’. E’ infatti con il ricorso a siffatti stili comunicativi che “i grandi” cercano di piegare i bambini ad un’obbedienza che altrimenti potrebbe essere difficile ottenere (Genise, 1994).Rileggiamo Pinocchio “Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non dire.Allora sciolse una certa polverina bianca in mezzo bicchiere d’acqua e, porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
- Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca e poi, domandò con voce di piagnisteo:
- È dolce o amara?
- È amara, ma ti farà bene!
- Se è amara non la voglio.
- Dai retta a me: bevila!
- A me l’amaro non piace.
- Bevila; e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero per rifarti la bocca”.
Come si vede, Pinocchio argomenta in modo rigoroso e coerente le sue scelte “è amara o dolce?” e il suo comportamento “se è amara non la voglio” è sostenuto da premesse logiche sillogisticamente ineccepibili. La Fata risponde al rigore consequenziale del burattino con imperativi minacciosi e indimostrati “dai retta a me: bevila. Ti farà bene” appena mitigati dalla promessa della pallina dolce. E per piegare ogni possibile protesta, l’adulto rappresenta al bambino una scena di insostenibile terrore: quattro conigli neri che trasportano sulle spalle una piccola bara. Letta in chiave simbolica; questa scena dimostra come l’interazione tra adulti e bambini sia in genere impostata su modi impositivi e autoritari che possono indurre il bambino ad assumere come propri pensieri e comportamenti suggeriti dall’adulto. Su questo terreno pedagogico si impianta e fiorisce rigoglioso il processo suggestivo che apre facili brecce nei convincimenti e nei percorsi mnestici del bambino. In sostanza, può accadere che l’adulto, anche senza volerlo, porti il bambino a sostituire la sua storia personale e le sue autentiche esperienze con una storia e con una realtà reificata e descritta da altri.

psicologiaforense                Continua.......

 

 
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