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« SOS MAESTRE PEDOFILE. RI...RAPE (STUPRO) E CRIMINAL... »

IL BAMBINO NEL POZZO, ALFREDINO RAMPI, IL TERAPEUTA E I SUOI PERTURBANTI

Post n°315 pubblicato il 20 Settembre 2007 da psicologiaforense
 

DEDICATO AD UN AMICO CHE CI HA LASCIATO....

avvertenza :  questo post può, eventualmente  interessare solo  il CELEBRE PROF.  GIUSTO VIRGILIO GIUSTI, (vedi qui,  nei blog, GVGIUSTI ) ORDINARIO DI MEDICNA LEGALE, ALL'UNIVERSITA' TOR VERGATA DI ROMA  e, FORSE, altri 12 MIEI AMICI CARISSIMI CHE SI DILETTANO DI MEDICINA, PSICHIATRIA, PSICOLOGIA, CRIMINOLOGIA, FILOSOFIA DEL DIRITTO. 
 

Quando, neolaureata, entrai in quella che allora sembrava, a misurar l'affluenza di prole baronale, la più prestigiosa delle cliniche psicoterapeutiche, l'unico maestro che ebbi, immediatamente mi affidò, non senza sgomento mio, un suo psicotico e disse: «Ascoltalo e ar­rangiati! ». Erano tempi in cui chi conosceva il tedesco, e poteva legger Bleuler, veniva considerato, perciò solo, più psicoterapeuta degli altri e guardato con rispetto ed ammirazione anche quando la sua pratica po­teva risolversi nell'affrontare perentoriamente ogni nuovo malato con uno sbrigativo e brutale: «SENTI LE VOCI? ».

Per quel primo insegnamento di chi mi volle psicoterapeuta, sia pur senza identità, provo ancora gratitudine, imperocché mi fece sperimen­tare subito, senza possibilità di mimetizzarsi in «equipe» e spartir responsabilità, la vertigine della follia; e in quanta m'indusse ad ap­prendere il metodo duale e asimmetrico di conoscenza e di terapia che, ancor più oggi, giudico, a dispetto di mode e civetterie, essenziale ed insostituibile; e l'identità professionale mi costrinse a cercarla auto­nomamente laddove avrei potuto trovar­la: perchè, indipendentemente dai diplomi e dalle certificazioni, mi sentii veramente psicologo solo quando cominciai ad operare efficace­mente come psicoterapeuta, e mi sentii veramente psicoterapeuta solo dopo il lungo travaglio psicoanalitico. Senza iattanza e in breve, di quale viatico  la psicoanalisi provvede lo psicoterapeuta, tanto da farlo apparire, oltre che intrepido, come illuminato e a volte, paradossalmente e non senza qua1che personale responsabilità, come trasfigurato portatore di misteri? Essa dapprima, rinnovellando la massima antica - MEDICE CURA TE IPSUM! - gl'impartisce una lezione programmatica di umiltà;  lo pone quindi nella condizione di conoscere, non come meri, discussi e discutibili concetti ma quali sofferti vissuti istinto di morte, posizione depressiva e lutto; esige poi ed infine la liquidazione di quei residui sogni d'onnipotenza, che abbiamo visto attivare, insieme con tutte le genuine vocazioni terapeutiche, ogni di faciloneria, faziosità, volubilità e doppiezza, ingenuità o soperchieria di pubblici  e privati poteri.

Se un nucleo aggregante, se un fondamento comune si può rintracciare nell'identità professionale di ogni medico d'oggi come dei precursori più antichi, guaritori e stregoni, questa deve consistere in  effetti nella scelta vocazionale di lottare contro la morte: contro la morte fisica totale o parziale - di un organo o di una funzione ­come spetta al medico del corpo o, secondo quanta compete allo psicoterapeuta, contro la morte dello spirito, quella che, con incisiva parola nostrana, mi piace chiamare mortificazione; mortificazione sempre  presente nell'angoscia che paralizza, nella depressione che annienta, nella  disperazione che sconvolge fino a saldare, nel suicidio, entrambi i processi distruttivi.

L'identità e ovviamente un traguardo e non un trampolino:la si raggiunge  emergendo dall'indifferenziato, dall'« oceanico », dal narcisistico verso un'individuazione che impone progressivi concentrici restringimenti e il tramonto, giova ripeterlo, di quell'onnipotenza infantile ch'e implicita  nella pretesa stessa di lottare contro la morte.  Bisogna  cioè che l'entusiasmo e l'attivismo della spinta vocazionale, suscitati peraltro da massicce negazioni dei propri limiti, da confusi desideri di autoaffermazione,   da istanze « voyeuristiche » e necrofile , da aspirazioni restaurative megalomania­che, da coazioni manipolatorie, vengano temperati, indirizzati e cana­lizzati in rapporto con gli oggetti reali di quella vocazione, i nostri pazienti: ci sia lecito usare ancora la bella parola latina, paziente, si­gnificativamente ambigua e indicativa della necessita di un preordi­nato superamento delle reciproche intolleranze.

Chi sono infatti i pazienti?
Ci si potrebbe servire, come di un'allegoria, del fatto di cronaca che più, credo, ha appassionato gl'italiani della precedente generazione. Voglio riferirmi al dramma di Vermicino, og­getto, si lamentò, di una stentorea, riprovevole e forse un po' ripu­gnante notificazione.
Che eccesso vi fosse non par dubbio, anche se si trattò per certo, e non solo da noi, di una sincera partecipazione co­rale. Troppo facili dunque quegli sdegni, pur essi corali, qualora si rifletta sul fatto che la situazione del bambino nel pozzo esemplifica metaforicamente fino all'archetipo la posizione esistenziale dell'uomo; dell'uomo che, se « nasce a fatica » ed urlando dal pozzo della natura, e solo per cadere in un altro e più profondo pozzo, in cui inesorabil­mente scivolare, continuando ad urlare in varia guisa e poi sempre più piano la sua presenza e la sua identità, fino a perdersi « in pulvere ». Orbene i cosiddetti malati, e forse pure i loro psicoterapeuti, sono quelli fra gli uomini che maggiormente soffrono questa precarietà e meglio sentono come la nostra vita proceda attraverso oppressioni, costri­zioni ed affanni, da quella angustia neonatale che, anche etimologi­camente, rappresenta il modello sia delle « angine» del corpo sia di ogni ansia e d’ogni psichica angoscia. Possiamo allora immaginare, dentro ognuno dei nostri pazienti, un bambino in condizione non dis­simile da quella del povero Alfredino, che grida e non viene udito, si esprime ma non viene compreso, cerca aiuto e però non ne trova.

Se l'identità personale di ognuno risulta anche dall'integrazione di quella voce infantile nell'autoconsapevolezza dell'adulto, l'identità professionale dello psicoterapeuta si formerà inevitabilmente alle prese con i pazienti e nel dialogo con le voci flebili e soffocate di quei bam­bini interni avviliti, attraverso il riconoscimento della comune uma­nità e dell'unitezza del processo riparativo.

Per restare nell'allegoria, quando si cercò di soccorrere il bambino nel pozzo, dopo gl'interventi selvaggi dei primi sprovveduti che - espe­rienza ben nota agli psicoterapeuti - con i loro maldestri e avventati ten­tativi compromisero ogni successiva operazione, dopo i clamori e le accuse, si cercò un giovane abbastanza agile e snello, cioè adatto, do­tato di esperienza specifica, speleologica, e lo si riconobbe adeguata­mente coraggioso, per poi scoprire che a queste qualità, le stesse, guar­da caso, che si potrebbero richiedere allo psicoterapeuta, occorreva imparare ad aggiungere la pazienza: la pazienza di sopportare ripetute frustrazioni e il penoso insuccesso finale.

Disponibilità, attitudine, esercizio, pazienza concorrerebbero dunque a comporre l'identità professionale dello psicoterapeuta, ma questo per essere pienamente tale, dovrà riassumere le nostre vicende, sedimentare gl'influssi della nostra cultura, comportare il minimo di mutilazioni e il massimo di lutti: di lutti anche per quei padri in ogni senso mediocri   da riguardare con la benignità che le persone mature usano con i loro genitori carnali, ancorché cattivi. L'integrazione delle passate esperienze con le ridimensionate aspettative consentirà allora agli psicoterapeuti responsabilizzarsi, di rispondere (questo e in fondo il senso dell’identità) del loro lavoro, in una equilibrata valutazione dei reali doveri e delle reali possibilità.


 


 




 

 
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