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MEDICINA PSICOSOMATICA. PER MORIRE-VIVENDO.

Post n°424 pubblicato il 14 Dicembre 2007 da psicologiaforense
 
Foto di psicologiaforense

QUASIMODO POETA  DELLE
MALATTIE PSICOSOMATICHE

Biologia, psicologia, religione, dialogo interiore, costume, am­biente, espressività, capacità verbale, penetrazione sono ele­menti indispensabili ad un'opera letteraria moderna perché diventi un messaggio che tocca ognuno e tutti e compenetri gli interessi immanenti ed eterni dell'uomo.
Quasimodo ha tutte queste componenti perché ebbe amicizia e dimestichezza con i medici ed ebbe un sacro culto della medicina. Egli soleva viaggiare con una valigia assai piccola, come gli uomini di scarse esigenze e limitati bisogni, come tutti i grandi, da Diogene a Michelangelo, ma con una grande borsa piena di medicine.

Quasimodo fu poeta della medicina, e fu soprattutto poeta delle malattie psicosomatiche, cioè di quelle malattie che toccano le fibre dello spirito e poi trasmettono i loro danni al corpo, sono le malattie della civiltà, dell'ipereridismo, del solip­sismo, delle dissonanze conoscitive, delle frodi, delle competi­zioni esasperate, della rinuncia ai beni naturali. Per combattere la frode, Quasimodo "predava la solitudine" senza cadere in servitù di alcuno.

Voglio qui ripetere le sue espressioni poetiche sui malanni psichici.

Quando parla di noia dice: «ginocchia spezzate dalla noia», quando parla di solitudine: «Dio del silenzio, apri la solitudine. Sono un uomo solo, un solo inferno. Fossi io da me stesso scordato» . Quando parla di dolore «dolore cibo quotidiano», «molti uomini mi debbono lacrime di sangue da uomo a uomo», «vita prigione di fatica e di sangue, reliquia patita, cuore brucia­to dal patire»; della precarietà della vita e della fuga del tempo: «il cuore vile dell'orologio», «la vita brulica stanca come l'acqua malsana alla foce desolata del fiume»; di scetticismo: «la mac­china che stritola i sogni»; di vana attesa: «per tutti coloro che aspettano e non sanno che cosa» .

Ma poi, nella sua austerità frutto di rinunce severe e di scarsi bisogni, Quasimodo col suo intelletto che talvolta stendeva una mano di ghiaccio su uomini e cose, guarda verso1'alto e implora: «e dovremmo dunque negarti, dio dei tumori?».

Quasimodo, quel ragazzo che fuggì di notte col mantello corto e alcuni versi in tasca, carico della pazienza di tutto il tempo della sua tristezza, sconfitto da domande ancora aperte. Quasi­modo che coltivò la poesia come fosse scienza, che ebbe cuore di fuoco e mano di ghiaccio, che porta in sé le tracce di ciò che ha sofferto, «d'altrui pietoso, sol di sè spietato», per gli altri è vissuto e negli altri vivrà  perchè la nobiltà del suo verso crea e insegna, educa e dà infinita gioia anche quando esplora con mano violenta 1'uomo e il mondo:

“... la mano destra ricominciava ad articolare la volontà di un gesto interno, ma la gamba offesa mostrava di più il suo peso e sembrava d'un marinaio sul ponte in un giorno di tempesta”. “ ... è il rumore della morte nel suo arco continuo, è la mia domanda assoluta che si chiude”.

 
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