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Post n°143 pubblicato il 09 Febbraio 2011 da raccontiitaliani
Rinfusa
ci sono nell’armadio sui ripiani scarpe con deformati tacchi obliqui e calze dai rammendi o i fori tondi, pattine a cerchi come gli ombelichi giornali a plichi e sparsi anche dei tappi; come se queste fossero le armi di guerre a torte in faccia e senza scuse, e i feretri o i loro decimali sono gli stessi arnesi della pugna che al suono delle trombe giudiziali risorgeranno un giorno coi beati.
Sul tetto
accostano le teste promettenti come due suore scure in controluce o guerrieri in armature sagomate. fino a un volume gonfiano le piume doppio del corpo che vi adagia dentro. allora le si accoppia e sbatte le ali e galleggiando la sfiora solo dove a dare il giusto via perché le uova nel modo di una coppia che è fedele.
Folla
li sento che si urtano fra loro dentro l’aria i respiri della folla, ben più di quanta già non mi esiliasse col suo addossarsi dove sono nato fra quei che neanche dico quali tipi. nel mentre sono ignavi i nostri grembi ricolma qui di genti in modo vario; starei per darmi a un eremo di nubi cedendo il suolo giusto per due piedi ma sono troppo bianco per il sole, mi accoglie il verde di un documentario.
Stradario
l’ombrello spiegazzato è aperto tondo e dai suoi buchi proclamano le stelle, gli stracci dei cespugli e delle fronde s’inzuppano nel piscio della pioggia su d’una cartolina in cui il quartiere. è dentro allo stradario a coordinate che sono i viali e i corsi tratteggiati inclusi quando i nati e i deceduti e il tram da cui se è sorte io ti scorgo lamenta in questo cardo urbanizzato
Agreste
è nel pollaio che cala a notte fatta il ratto per sottrarre del mangime alle suorine ovaiole da lessare e a tracci lascia feci e quel che manca. scivola, una volta, nel bacile la cui parete è liscia e non risale e sfugge il ferro più volte quel mattino ma poi centrato lo preme a trapassarlo torce la coda ed alita spavento poi muore senza il dio del contadino.
La mela
protende e si esibisce la mela dentro al palmo sfiorata con dovizia sulla sua curva polpa. il rosso o giallo e acerbo inarca e corrisponde al suo nevoso interno che ottunde in una parte. è il marcio e cova scuro si svela se a scavarlo e adultera fangoso il sagrato del palato.
Il marcio
il marcio inseparato si nasconde e non c’è modo di levarlo in volo disgusta già di sotto di una suola compare in una smorfia nel suo troppo e ha un raspo sordo che ingrama fermentando. senza le mani adatte a discrostarlo, e la foglia di pudore per coprirlo allora sogni mutilarlo netto o almeno abbia una veste di relitto: ti avvezzi intanto al lento cronicario mentre si fugge la grazia con delirio
Due stanze
dove è finito il lungo filo spago che ad ogni sonno univa ai suoi due estremi l’alluce grosso del pascoli poeta con quello lieve della sua sorella? fra i due avvicendava a strappi i sogni toccando il suolo solo quando quieti, e a matassa, fra il primo e il quinto dito, quell’altra mano, all’alba riavvolgeva. poi il saluto scambiavano di fretta fra le due stanze dentro un corridoio in dove oggi lì i visitatori di notte vige ancora la civetta.
Dialoghetto
Il vento scricchiola alle imposte con poco più di quanto sia un brusìo invece la pioggia guasta il tetto di quegli antipatici qui accanto, se litigano loro io li sento se russo, per gli altri non c’è scampo.
Loro
ha strappato con i denti, come i nonni la sicura della bomba, l’anello d’alluminio di lattina che contiene la bevuta americana. poi rutta forte contro il mondo intero nemico come un russo o un africano. schianta la tolla come un calcio vero e mescola del fumo e fa lo scemo. intanto lancia i vuoti alla fontana su cui si posa un passero oleoso, per loro magri, uno solo è obeso, fra un po’ incomincia il giorno è più noioso
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il 31/05/2011 alle 11:36