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Post n°171 pubblicato il 21 Febbraio 2011 da raccontiitaliani
Da <Grazie> (Guanda, Milano, 1988. La traduzione è di Jean Baptiste Para) Di tutte le partenze, una resta impigliata nell'anima e tu non sai se sia un volo dell'acqua o un'alga che ti afferri per stringerti la gola sulla nebbia con una grazia feroce e inevitabile, come un gatto che giocando t'impedisca di scrivere strappi via la penna faccia a brandelli la carta ne porti un pezzo lontano tra le labbra per costruirne un topo simulato una caccia sognata, un gioco preciso e ribelle una giro più lungo tra la tua mente e le mani profonde nelle tasche in questo mattino di treni fischi, vapori, officine faustiane Questa stazione non assomiglia più a nulla forse è un dedalo di tracce cancellate un terminale per gite oziose a leggere un libro e dormire cullati dal treno in viaggio turistico verso il passato prossimo come un bistrot funereo, magari sepolcrale un bar di cera, un museo... E tra le statue, le ruote, i chioschi di giornali si fanno strada ombre, dagherrotipi, vecchie pitture carte di caramelle, pacchetti vuoti riviste scolorite con donne grasse e spogliate preservativi, dischi, aranciate amare tutto un armamentario crepuscolare e gli anni, ricordi uccisi dalla fotografia, risucchiati urlando dalla vecchiaia e dalla morte: e questa partenza non è così perduta la sua immagine è più che un residuo, un fiato d'allusione una metafora mentale, la tua impercettibile correzione del tempo, come quando s'aprono nuvole in cielo, e splende spaventata lei, la buona madre dei ladri, pura e muta Ma un diavolo, un simulacro di Minosse orribilmente ringhia dai megafoni sulle pensiline nello scompartimento che puzza di fumo sul velluto bruttato da pensieri annoiati, indifferenti e automi... Lei non ha spessore, calore, fuoco d'anima dice, è come la nebbia che s'apprende ai vetri del finestrino, lei è come l'inverno è arrivata tardi, ha perduto la strada quando ha bussato alla porta il camino era spento il gatto morto, qualche moscone impazzava per l'aria con messaggi incompiuti, indecifrabili, infedeli Sui muri c'era polvere, polvere sugli specchi sul volto di Ermes ridotto a una piccola scimmia secca un lare stecchito e sgretolato: ronzano i treni scivolano via in questo mattino di buio, so che non fuggirò, sei come Dracula come lui, che il vantaggio ha del non nato e del non morto, porta i segno d'un bilico infinito e dall'inganno suo vita riceve, tu non hai anima, non l'hai mai avuta nei tuoi occhi non si infrange il riflesso il lampo della sera sulla porta il ritorno di ciò che arde lontano indifferente, melanconico, alto sui monti e inaccessibile, la luna Questo silenzio non è più abitato da muti fruscii di passi, da segrete anse del tempo, come se ad un tratto senza motivo schiudessero le valve d'una conchiglia fossile, e splendesse nella roccia l'ardore del cristallo Questo silenzio è ora pieno d'oggetti citazioni, reperti, tutti i regesti dell'avventura monti e mari solcati come quando un sogno dura oltre il risveglio, e non si tace l'eco d'un gesto prolungato ad arte, il suo bramito Celtis Australis Forse non ci sono che gli alberi per stagliarsi contro il vetro del cielo e non vedere e non conoscere filigrana o velo e opacamente, duramente, semplicemente vibrare nella forza che sale e, come fa, ritorna nel curioso entusiasmo della sera Non corrono sull'onda che viene e va, non ha riva e non sa restare non cavalcano un soffio non hanno che un destino, il ritorno il silenzio che non aborrono Forse soltanto gli alberi sono sapienti sanno bruciare al fuoco del loro fuoco E tu, nel cui nome vibra l'orma d'un vento il fiato d'un deserto che hai respirato le città, i viali, l'asfalto la polvere selvaggia di primavera perché sai come crescere dalle pietraie e dalla nebbia, albero povero vegetale straccione, bagolaro t'han detto, spaccasassi posso pensarti forzato o galeotto lavorar di radici nella cava instancabile prete deriso e riente albero protomartire d'una religione dimenticata, assente, irrilevante inesistente, che sa essere niente Titanic Stanca di tristi tropici troppa pace nel mare lenta l'onda cammina lenta come il Lete Stanca le tue pretese inquieta, insopportabile lenta mi corre l'anima lento si spegne un secolo Stanca con le lungaggini delle richieste facili se hai miserie, tienile chiuse dentro di te come uno scrigno E se non hai niente da dire niente da fare, se come sei zitta stancalo, il tuo silenzio svuotalo, lascialo spegnere (L'acqua s'apre a voragine la nave brilla al fulmine) Alberich Uno gnomo maligno ci potrebbe aiutare gettando forse una manciata di fumo evocando la nebbia, lasciando andare come un volo di anatre lontane lontano uno stormo d'anime, di impronunciate voglie di distruzione, vomito, carneficina fare un fuoco di sterpi e poi ruggire quieti sopra le pentole, in cucina Avarizia, cupidigia e gracile lussuria annunciavano il drago e la sua furia nessuno di noi tentò di mettersi a mezzo a causa di ciò, credo, lasciammo un pezzo di psiche, una frattaglia di desolato cuore e qualche avanzo di cibo prima di fuggire così ognuno per sé, col suo valore costruì un castello, mise un nano di guardia: se un demiurgo malvagio di ha ingannato sarà un gatto la tua consolazione sarà scintilla, messaggero, ragione Uno gnomo maligno ci poteva aiutare forse era un topo, angelo del focolare Verbale Interrogato, rispose che sfumavano eguali in un unico morente abbraccio, un brillio distratto di voci, visi, di struggenti inestimabili momenti irrilevanti Non se ne fece vanto entrò nel castello sull'onda di un lamento dimenticò quelle figlie del reno in grave lutto sedette a tavola senza la regina celebrò un addio collettivo, un casto banchetto non volle conoscere lo chef di cucina Da <Una regina tenera e stupenda> (Milano, Società di poesia-Guanda, 1980) I. Una regina tenera e stupenda restituisce la neve delle ore al tiepido fiore del tempo, al rullo del suo rumore acerbo Principessa dei piccoli passi sono fitte radici senza scoglio e il loro bosco, uno strano sentiero discende – vuole perdersi – sotto l'erba (Il varco verso l'altro paese si sposta piano, piano sembra vero) II. E' ingenua stasera lei o la sua morte ha voglia di sorridere, ripete la sua felicità come uno spillo (E' l'Arca di Noé, un pianeta di colli di giraffe, il loro fiato) III. Straccia la marmellata dell'amore che trasforma il pensiero in zampe e ali tocca fra bacio e parola il filo che separa le ciglia dalla storia dal corpo nero di un rfiuto atteso E' lei, la regina aquila la gallina supera i monti col suo passo zoppo non ha pietà di sé, è ancora ibernata in un sogno di neve Da: <Su, per i meandri del sonno> I. Su, per i meandri del sonno: la fitta colombaia, i rotti ormeggi il tempo di partire, vele s'alzano nel risveglio, il finto sonno e i passeggeri? <Oh, loro non si salveranno> II. Il passeggero di Lenin aveva fretta: guardo i loro ritorni, i loro scudi un lento sferragliare, e i treni al mare corrono senza tuono, voraci III. Il fiume degli anni dolcemente la perse: sale nel sale del cielo non c'è scoglio al cuscino apre le mani e piano le rive non la lasciano, tra i baci |
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Inviato da: chiaracarboni90
il 31/05/2011 alle 11:36