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Un brillante saggio di Luigi Pandolfi inchioda i leghisti alle loro irresponsabilità democratiche (AGOSTO 2011) LA LEGA NORD UNO SCANDALO EUROPEO di Romano Pitaro La Lega Nord? Un mostro! La pietra dello scandalo della nostra democrazia. Il giudizio è tagliente. Così però si rischia di non capire chi e perché ha dato forza alla Lega in tutti questi anni. E’ germogliata in un Paese frastornato. Che, dopo lo smottamento della prima Repubblica, è ancora diviso in due. E non è stata colpa della Lega. Un Paese che non cresce. E calpesta il futuro di un’intera generazione di giovani. “La Lega Nord, un paradosso italiano in cinque punti e mezzo” ( il mezzo indica il federalismo hard): è il titolo del saggio di Luigi Pandolfi, intellettuale calabrese e uomo di sinistra. Ecco i tratti peculiari di un partito paradossale: la Lega, che una volta ce l’aveva duro. Quando moltissimi ritenevano che avrebbe umanizzato le istituzioni. Quando, lo ricorda Corrado Stajano nel “Disordine”, la votavano “schizzinosi banchieri, imprenditori, immobiliaristi, architetti di fama, giornalisti”. Tutto questo prima del botto di maggio. Una rasoiata. La Padania immaginifica s’è volatilizzata. E al raduno di Pontida i capataz verdi sono apparsi melliflui. Come un piccolo partito della prima repubblica, che ancora si ascolta perché i suoi voti pesano. E’ l’assunto del pamphlet di Pandolfi che suscita perplessità: “In qualsiasi alto paese civile e democratico del mondo, un partito come la Lega Nord sarebbe stato confinato ai margini del sistema politico”. Non è condivisibile, perché la Lega non è un mostro uscito dai tombini. Mostro sì: lo storico Enzo Ciconte in “Ndrangheta Padania”, spiega che “Nell’ultimo quindicennio la ‘ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Esattamente nelle stesse località dove c’è un forte insediamento della Lega la ‘ndrangheta gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, ha una presenza politica”. Senza dimenticare le aspirazioni di Miglio a costituzionalizzare la mafia. Sbolliti gli entusiasmi mal riposti, la Lega però è figlia di quest’Italia. Che l’ha vezzeggiato invece di sorvegliarlo. Investita da mutamenti profondi, figliati dalla globalizzazione, all’inizio dei ’90 è esplosa la fuga nel particolare e l’attenzione esclusiva al proprio vissuto individuale. La Lega nasce quando un Paese scosso, si convince che conta solo il mercato e l’arricchimento. In spregio alle regole ed ai controlli. Per capirla, e capire le oscurità italiane irrisolte, non va demonizzata. L’assunto sulla sua impresentabilità, deve confrontarsi con i guasti della realtà italiana. Pandolfi fa una ricognizione seria sul fenomeno leghista fin dalla sua comparsa; e offre un’interessante comparazione delle “sparate” dei vari dirigenti con quelle del Front Nazional di Le Pen, del Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, il Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, e il movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Il partito personale di Bossi, documenti alla mano, è a destra delle più estreme. Nel suo profilo identitario c’è l’odio verso l’Islam e la ricerca di unità d’intenti con l’inquietante accolita di razzisti di tutta Europa. Cinque le performance che la rendono un unicum. La sua appartenenza alla famiglia delle destre anticostituzionali; l’insopportabile contraddizione sull’immigrazione: parte essenziale dell’economia del Nord, ma oggetto di spregevole acrimonia da parte dei Leghisti; il contrasto evidente tra i suoi obiettivi e gli interessi nazionali; il suo richiamo alla legalità ed invece la realtà di compromissioni romane che l’hanno vista sostenere persino la legge sulle rogatorie, con cui s’ impedisce alla giustizia di avvalersi di prove preziose, e quella sull’abolizione del reato di falso in bilancio. Ultimo: il familismo amorale, i parenti del capo piazzati nelle Istituzioni e una serie di posizioni che stridono col suo “Roma ladrona!” Fenomeno reazionario, d’accordo. Ma c’è bisogno anche di un altro sguardo Anzitutto è stata, in un Paese esausto, uno dei tre fenomeni nuovi emersi con la fine della prima repubblica. E’ vero che Bossi, dopo avere intascato una tangente da Enimont, ha fatto giusto in tempo a sedersi in Parlamento dalla parte dei giustizialisti col cappio, ma è innegabile che abbia rappresentato la speranza di riformare la politica. Dopo il crollo della prima repubblica, nell’Italia ingessata in un sistema gerontocratico, partitocratico e clientocratico, nascono, a destra, il fenomeno leghista e il berlusconismo prima maniera, premiato elettoralmente perché si riteneva potesse spezzare l’ assetto della politica dominato da un gruppo ristretto di politici a vita e riformare, con più merito e più concorrenza, un capitalismo di relazioni ancora oggi vivo e vegeto. La Lega come reazione al non rinnovamento della classe dirigente di un Paese ancora tutto da riformare, come denuncia l’ex governatore Draghi nelle sue “Considerazioni finali”. In Spagna in 30 anni di democrazia sono stati consumati quattro leader prestigiosi; in Francia nella V Repubblica si è avuto il gollismo, il mitterandisimo ed il sarcosismo; in Germania: Khol, Schroeder e Merkel e in Inghilterra dopo la Thatcher, Major, Blair e Gordon Bown. La seconda Repubblica italiana, viceversa, ha ereditato i guasti della prima e ne ha aggiunto altri. Nello sclerotizzato sistema politico la Lega, spiega Ilvo Diamanti, ha favorito l’accesso di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Il leghismo e il berlusconismo hanno introdotto linguaggi nuovi, un stile diretto. Rispetto a tutto ciò, l’esperimento prodiano è parso come una reazione difensiva. A distanza della caduta della prima repubblica, dopo il crollo dell’esperimento dei sindaci eletti direttamente, sopravvive il vizio nazionale, che prescinde dalla destra e dalla sinistra, all’autoriproduzione delle classi dirigenti. Siamo una società vecchia, corporativa e localista. Che quando non sa come spiegare l’immobilismo corporativo, dà in pasto all’opinione pubblica l’idea falsa di un Mezzogiorno zavorra del Paese. La lezione che si coglie, è che la politica, di cui la Lega è parte, in fondo riproduce ed enfatizza i limiti di un Paese disunito nei fatti. La sconfitta della Lega è sancita nelle “Considerazioni” di Draghi (i sette nodi) e dalle rivoluzioni sulla sponda Sud del Mediterraneo, che hanno messa a nudo la natura della Lega: spaccona e minacciosa a parole. Ma impotente a governare la complessità. Piccoli leader arroganti con i deboli e ossequiosi con i potenti. Se però ora non la contestualizziamo, rischiamo di illuderci che a bonificare la ”gigantesca palude” che è diventata l’Italia, possano riuscirci un’opposizione litigiosa e una sinistra che, nonostante i traumi storici, non ha prodotto novità. Ancora oggi non siamo in grado di consentire l’accesso nella politica e nelle istituzioni di componenti nuove; né di applicare seriamente le quote rosa e quelle verdi (l’inserimento di giovani al di sotto dei 35 anni); né di dare il diritto di voto ai sedicenni ed agli immigrati. Uno come Obama, da noi farebbe la fila nello studio di Rutelli, D’Alema, Casini. Tuttavia ciò che più avvince il dibattito sui media è se Berlusconi lascia e chi sarà il candidato premier tra Bersani e Vendola. Invece dobbiamo interrogarci su come rendere possibile, prima che si verifichino fratture e ribellioni, che le donne ed i giovani diventino protagonisti. Il libro di Pandolfi è un ottimo incipit, per capire com’è stato possibile che un Paese nato dal Risorgimento, dalla Liberazione e dalla Costituzione, si sia affidato per così tanto tempo a un politico come Bossi che una volta disse: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo!”. Fortuna che c’era un giudice a Cantù che lo condannò a un anno e quattro mesi; quando parte dell’opinione pubblica, sinistra inclusa, lo riteneva “uomo nuovo”, la cui carica eversiva poteva far saltare il tavolo di un potere chiuso.
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