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LA 'NDRANGHETA NON E' FIGLIA DEI BRIGANTIEnzo Ciconte “Banditi e briganti” Rivolta continua dal cinquecento all’ottocento Rubbettino pagg 191 euro 18
LA ‘NDRANGHETA NON E’ FIGLIA DEI BRIGANTI
di Romano Pitaro Apparentemente, un titolo distensivo. Un libro, “Banditi e briganti”, che un nonno può mettersi sulle ginocchia, per leggere al nipotino storie d’avventure nei boschi, di cui quelle canaglie erano padroni, e vendette truculente, imprese di uomini tosti, come re Marcone e Ninco Nanco, e leggende di donne arcigne che seguivano i loro uomini alla macchia. Un libro (Rubbettino editore) da regalare per Natale, che si fregia di meravigliose xilografie, stampe e degli acquarelli di Pinelli e d’altri autori che ritraggono i “filibustieri di terra”, li apostrofava così Stendhal, in pose eroiche; o mentre, dopo il consueto tradimento, rendono l’anima impiccati, squartati, fucilati e decollati. Libro che evoca fatti d’altri tempi, dal Cinquecento all’Ottocento, fattacci di sangue sì, ma che non spaventano più, e che, inanellati con maestria e confrontati ai pirati della Tortuga, sembra quasi che non vogliano disturbare la serenità del lettore. Solo apparentemente però. Perché lo storico della criminalità organizzata Enzo Ciconte, autore di una sfilza di volumi che investigano tra i misteri delle mafie, forse non ha messo nel conto il rischio d’infilarsi in un “malu passu”. Di cacciarsi in un guazzabuglio di polemiche. O lo sa troppo bene. E gli piace prendersi una pausa dagli studi sulla ‘ndrangheta, ora messa a soqquadro dalle inchieste “Crimine” e “Infinito”, e vedere chi, come e perché mangerà l’esca sul brigantaggio. Perché certe questioni non si possono dimenticare. Lo sguardo può essere equidistante su torti di secoli fa, ma alla condizione che siano stati, come un lutto, elaborati. E le parti in causa se ne siano fatti una ragione. Insomma, che una pacificazione storica sia intervenuta. Ma se il filo che lega banditismo, brigantaggio e disagio sociale dell’Italia dei nostri giorni con il Sud stritolato dalle mafie, non è mai stato spezzato. Anzi, se l’impressione è che l’eco della violenza esercitata sul Mezzogiorno, che lo privò di colpo di un’intera generazione di uomini e l’impoverì in ogni fibra soprattutto nei dodici anni post unitari, tuttora perduri, allora il discorso è tutt’altro che una fiaba natalizia. Pone interrogativi brucianti. Mica si può scordare che Nino Bixio, imperversando nel Meridione, andava dicendo che “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare, mandarli in Africa a farsi civili”. Come si può scordare, mentre il Sud recrimina sulle ingiustizie economiche che l’Unità “fatta a mano armata”, come direbbe Pino Aprile, gli riservò dopo avergli sottratto il futuro e costretto le generazioni successive ad una fuga senza ritorno, che circa un milione di meridionali sono stati sterminati da quella guerra d’occupazione? Come dimenticare che la “conquista del Sud” procedette con stragi (Pontelandolfo è il simbolo di una rappresaglia nazista), esecuzioni in massa, donne stuprate, borghi incendiati, bambini uccisi, teste mozzate e issate sulle pertiche? Non basta asserire, a suggello del terzo giubileo dell’Unità, che l’Italia è “una ed invisibile”. Non per mettere in dubbio il valore dell’Unità ormai irreversibile, ma per far dimenticare ai meridionali le pene d’inferno sopportare quando le truppe guidate dal generale Cialdini misero a ferro e fuoco le case di un popolo recalcitrante al tricolore. Ci sarebbe stato bisogno di gesti di pacificazione coraggiosi. Per dire: i resti del brigante Gasbarrone, che campeggia con sguardo cupo nella bella copertina del libro, sono ancora esposti a Torino nel museo degli orrori “Cesare Lombroso”. Nessuno s’è degnato di restituirli al suo paese natio per una dignitosa sepoltura. Le conseguenze di quei soprusi, e il modello economico del nascente Stato unitario, che dopo aver rapinato quest’area del Paese puntò, con studiata strategia, sullo sviluppo del Nord, curando di fare del Sud un deserto civile e dei suoi cittadini degli emigranti costretti ad un’infinita diaspora ed a salvare i bilanci dello Stato con le loro rimesse, sono ferite aperte. Perché quando il popolo meridionale sente di non avere alcun peso specifico nell’agenda dei governi ed ascolta le invettive della Lega contro il Sud sprecone, s’accende di un’intemperanza che può traboccare. Col rischio che nelle sue viscere torni a prendere forma la protesta inconsulta ed il desiderio di “nuovi briganti”, come auspica il giornalista Lino Patruno in “Fuoco del Sud”. Altro che titolo distaccato quello di Ciconte. Nel premettere che intende descrivere soltanto il fenomeno del brigantaggio, per differenziarlo dal banditismo, ravviva un vulcano di risentimenti. Di quelli che esortano gli storici a modificare alcune valutazioni pregiudiziali, le case editrici a rivedere omissioni poderose nei testi di storia in uso nelle scuole e i politici a fare i conti con un passato che non è mai passato. Dodici anni di guerra civile o sociale per altri, ma sempre anni di furiosa repressione, ridanno freschezza a quella canzone scoppiettante di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. E, anche grazie a questo nuovo approfondimento, ci invitano a non cedere alle semplificazioni. Asserire che la ’ndrangheta non è figlia del brigantaggio, per la verità è poco. Perché se pensiamo che la
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