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« LA LEGA NORD UNO SCANDAL...PONTE SI PONTE NO DUE TE... »

LA 'NDRANGHETA NON E' FIGLIA DEI BRIGANTI

Post n°21 pubblicato il 29 Febbraio 2012 da romano.pitaro
 

Enzo Ciconte

“Banditi e briganti”

Rivolta continua dal cinquecento all’ottocento

Rubbettino pagg 191 euro 18

 

LA ‘NDRANGHETA

NON E’

FIGLIA DEI BRIGANTI

 

di Romano Pitaro

Apparentemente, un titolo distensivo.  Un libro, “Banditi e briganti”,   che un  nonno può mettersi sulle  ginocchia, per leggere  al nipotino  storie d’avventure nei boschi, di cui quelle canaglie  erano  padroni,    e vendette truculente,  imprese  di uomini tosti, come re Marcone e Ninco Nanco,     e leggende di donne arcigne che  seguivano   i loro uomini   alla macchia. Un libro (Rubbettino editore) da regalare per Natale, che si fregia  di  meravigliose  xilografie,  stampe e degli acquarelli di Pinelli e d’altri autori che ritraggono i “filibustieri di terra”, li apostrofava così Stendhal, in pose eroiche; o mentre, dopo il consueto tradimento,  rendono l’anima impiccati, squartati,  fucilati e decollati.   Libro  che evoca fatti d’altri tempi, dal Cinquecento all’Ottocento, fattacci di sangue  sì, ma che non spaventano più,  e che, inanellati  con  maestria  e confrontati  ai pirati della Tortuga, sembra quasi  che  non vogliano   disturbare la serenità del lettore.  Solo apparentemente però. Perché lo storico della criminalità organizzata Enzo Ciconte, autore di  una sfilza di volumi che investigano tra i misteri   delle mafie, forse non ha messo nel conto il rischio d’infilarsi in un “malu passu”. Di   cacciarsi in un guazzabuglio di polemiche.   O  lo sa  troppo bene.  E  gli piace  prendersi una pausa dagli studi sulla ‘ndrangheta, ora messa a soqquadro dalle  inchieste “Crimine” e “Infinito”,  e vedere chi, come e perché mangerà l’esca sul brigantaggio.  Perché certe questioni non  si possono dimenticare.  Lo sguardo può essere equidistante  su torti di secoli fa, ma alla condizione che siano stati, come un lutto, elaborati. E le parti in causa se ne siano fatti una ragione.  Insomma, che una pacificazione storica sia intervenuta. Ma se il filo che lega banditismo, brigantaggio e disagio sociale dell’Italia dei nostri giorni con il Sud stritolato dalle mafie, non è mai stato spezzato. Anzi, se l’impressione è che l’eco della  violenza  esercitata   sul Mezzogiorno, che lo privò di colpo di un’intera  generazione di uomini   e l’impoverì in ogni  fibra  soprattutto nei dodici anni post unitari,  tuttora perduri,  allora il discorso è tutt’altro che una fiaba natalizia.  Pone interrogativi brucianti.    Mica si può scordare che Nino Bixio, imperversando nel Meridione, andava dicendo che  “al Sud i nemici non basta ucciderli, bisogna straziarli, bruciarli vivi a fuoco lento. E’ un paese che bisogna distruggere o almeno spopolare,  mandarli in Africa a farsi civili”.  Come si può scordare, mentre  il Sud recrimina sulle ingiustizie  economiche  che l’Unità  “fatta a mano armata”, come direbbe Pino Aprile,  gli riservò dopo  avergli  sottratto il futuro e costretto le generazioni successive ad una fuga senza ritorno,  che circa  un milione di meridionali sono stati sterminati da quella guerra d’occupazione? Come dimenticare che la “conquista del Sud” procedette  con stragi (Pontelandolfo è il simbolo di una rappresaglia nazista), esecuzioni in massa,  donne stuprate, borghi incendiati, bambini uccisi, teste mozzate e issate sulle pertiche? Non basta asserire,  a suggello del  terzo giubileo dell’Unità, che l’Italia è “una ed invisibile”. Non per mettere in dubbio il valore dell’Unità ormai irreversibile, ma per  far dimenticare ai meridionali le pene  d’inferno sopportare quando le truppe  guidate dal generale Cialdini  misero a ferro e fuoco le case di un popolo  recalcitrante al tricolore.  Ci sarebbe stato bisogno di gesti di pacificazione coraggiosi.  Per dire: i resti del brigante  Gasbarrone, che campeggia con sguardo cupo  nella bella  copertina del libro, sono ancora esposti a Torino  nel  museo degli orrori “Cesare Lombroso”.  Nessuno s’è degnato di restituirli al suo paese natio per una dignitosa sepoltura. Le conseguenze di quei soprusi, e il modello economico del nascente  Stato unitario,  che dopo aver rapinato quest’area del Paese puntò, con studiata strategia,    sullo sviluppo del Nord,  curando di fare  del Sud un deserto civile e dei suoi cittadini degli emigranti costretti ad un’infinita  diaspora ed a salvare  i bilanci dello Stato con le loro rimesse, sono  ferite aperte.  Perché quando il  popolo meridionale  sente di non avere alcun peso specifico nell’agenda dei governi  ed ascolta  le invettive della Lega contro il Sud sprecone, s’accende di un’intemperanza che può traboccare.  Col rischio che  nelle sue viscere torni a prendere forma la protesta inconsulta  ed il desiderio di “nuovi briganti”, come auspica il giornalista Lino Patruno in  “Fuoco del Sud”.  Altro che titolo distaccato quello di Ciconte.  Nel premettere che intende descrivere soltanto  il fenomeno del brigantaggio,  per differenziarlo dal banditismo, ravviva un vulcano di risentimenti.  Di quelli che esortano gli storici a modificare alcune  valutazioni pregiudiziali, le case editrici a rivedere  omissioni poderose nei testi di storia in uso nelle scuole  e i politici a fare i conti con un passato che non è mai passato.   Dodici  anni di guerra  civile o  sociale per altri,  ma sempre  anni di furiosa repressione, ridanno freschezza  a quella  canzone scoppiettante  di Eugenio Bennato: “Ommo se nasce, brigante se more/ma fino all’ultimo avimma spara’/ e se murimmo menate nu fiore/ e na bestemmia pe sta libertà”. E, anche grazie a questo nuovo approfondimento, ci invitano a  non cedere  alle semplificazioni.   Asserire che la ’ndrangheta  non è figlia del  brigantaggio,  per la verità è poco.  Perché  se pensiamo che   la
repressione del brigantaggio e della protesta sociale (con quei numeri e quella  devastazione  urbana inflitta al Sud nel periodo post unitario) abbia cancellato  un’intera generazione di  uomini,  con la conseguente  emigrazione a milioni di meridionali, allora si può dedurne che   proprio la scomparsa del brigantaggio e di tutto ciò che intorno ad esso gravitava,  sia  la causa (o una delle cause) della nascita e dell’irrobustimento delle mafie.  Altro che parentela tra i due.  Gaetano  Salvemini sosteneva che “i moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i partiti democratici del Nord; i camorristi del Sud hanno bisogno dei partiti moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud”.  Se davvero  è andata così, si potrebbe asserire  che la mafia non  sia stata un parto  del brigantaggio,  ma dello Stato.  Ciconte, per la verità, taglia corto sul punto. Sostiene: “La mafia non è figlia dello Stato. Semmai, delle classi dirigenti che prima hanno utilizzato il brigantaggio per i loro affari  e poi le mafie per governare il Mezzogiorno. D’altra parte, la devastazione sociale a cui non si è riusciti a porre un freno, rivela l’incapacità dello Stato ad affrontare la questione meridionale. Perché è chiaro che se si consente la fuga delle forze fresche dal Sud,  s’infiacchisce la reazione della società civile”.  Gli spunti per tornare sul tema con più attenzione  non mancano. Se, per esempio,  riflettiamo sull’opinione  secondo cui   il brigantaggio fu  un fenomeno maschile e  la mafia  un fenomeno femminile, in quanto nel  Mezzogiorno, con la
repressione del brigantaggio e la fuga  di più generazioni di uomini ci sarebbe stata una perdita di paternità con il conseguente offuscamento dell’idea del bene e del male oltre ad  una perdita di civiltà, notiamo, ancora,  che è arduo individuare linee di discendenza tra brigantaggio e mafia.  Quest’ultima, sarebbe l’effetto della perdita  dei padri   e di un  popolo meridionale  a prevalenza femminile,  la cui attitudine è stata di anteporre agli interessi generali, per ragioni di sopravvivenza, quelli della famiglia.  Anche qui, però, l’autore di “Banditi e Briganti” non concede margini di movimento. La sua visione è netta: “La mafia, la camorra e la ‘ndrangheta sono il frutto di un mutamento nella proprietà  degli anni in cui sorgono. Ad incominciare dallo sbriciolamento del latifondo, che ha messo in luce l’aggressività dei ceti dirigenti, i quali  hanno pensato di  acquistare potere e denaro,  avendo nelle mani una risorsa che altri non avevano: la violenza organizzata parallela a quella statuale. Questo  punto di vista, tra l’altro,  spiega perché le mafie durano nel tempo, adattandosi a tutti i  momenti storici ed a tutti i contesti sociali”. 

 

 

 
 
 
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