Ho questo immenso Nulla d'essere che mi svuota l'animo. Forse l'eterno ritorno dell'identico nietzschiano non è poi una fantasia metafisica del tutto campata in aria; forse, per noi "folli romantici", gli eventi si ripetono quasi identici perchè ce li andiamo a cercare, inconsapevolmente, eppur agendo in prima persona.
Così, "capita" che ci ritroviamo sempre nelle medesime situazioni, ma non perchè un trascendente destino, o un insieme di leggi naturali - che denominiamo caso - abbiano agito, influito sulla nostra libertà ( nel qual caso che Libertà sarebbe! ), quantopiù per il fatto che, tramite una serie di scelte, tutte nostre, abbiamo agito di nuovo - e continuiamo ad agire ancora - in modo da scatenare un insieme di conseguenze, di cui noi solo siamo la causa efficiente.
In tal modo, per una qualche lacuna nel nostro modo di essere, del nostro carattere, nella primordialità costitutiva del temperamento che ci è proprio, è come se provassimo una sorta di piacere intimo e assurdo nel ricercare sempre lo stesso effetto, nel ricreare tutte le volte, sempre, le medesime anomale condizioni situazionali, nascondendo a noi stessi di esserne stati gli unici responsabili.
Solo così possiamo compiacerci, quando non addirittura commiserarci compassionevolmente, dicendo: "La sfortuna mi perseguita! Capitano tutte a me! Il destino mi è avverso!".
Nel tentativo di colmare il vuoto che ci lacera l'esistenza, siamo cristallizzati nel ripercorrere sempre le meesime strade, e anche quando pare - o vogliamo cnvincerci - che ne imbocchiamo di differenti, facciamo poi di tutto per ritornare sulla "via maestra", su quella stessa via che abbiamo percorso la volta precedente e quella prima ancora, e così via.
Perchè ciò?
Forse perchè quella strada - che pure ci ha portato in passato a sbattere la testa contro un muro di vuoto ulteriore - è l'unica che conosciamo in ogni suo particolare, la sola via di fronte alla quale non ci troviamo impreparati, disorientatamente e inaspettatamente sorpresi da qualche accidentalità. E si sà, la conoscenza di un alcunchè che ci spaventa, rende la paura meno terrificante, come dire: più sicura!
Abbiamo paura di rischiare, di ritrovarci in situazioni nuove, mai esperite prima, forse perchè non pensiamo saremmo in grado di affrontarle: il nuovo - anche quando quest'ultimo è la felicità - ci attira attraendoci eppure, al medesimo tempo, ci terrorizza.
Nella decisione di aprirci alle nuove possibilità è intrinsecamente compreso il rischio di trovare, di imbatterci in un altro vuoto, di fallire, ma anche, d'altro canto, di riuscire: provabilmente proprio di riuscire temiamo l'avverarsi!
Come ci comporteremmo se risultassimo "vincenti", se il rischio a cui ci siamo sottoposti, nè fosse valso la pena?
Sarebbe una situazione a noi nuova; il vuoto sarebbe saturato e, Noi che da sempre vuoti siamo fin nelle profondità più recondite del nostro essere fatto di fragili illusioni; Noi che di tale vuoto ci nutriamo per impegnarci poi nel suo riempimento; Noi, che di questo vuoto facciamo la pienezza del nostro progetto vitale, resteremmo spaesati, intimoriti, impreparati, sgomenti, d'innanzi a questa nuova pienezza d'essere che il vuoto ha abortito e che ci illuminerebbe, accecandoci di sè.
Noi, abituati a perdere, al fallimento, capaci di gestirlo in ogni sua più subdola, camaleontica metamorfosi; Noi, che in questo vuoto Nulla - che, a dispetto di quanto vogliamo ammettere con noi stessi - ci crogioliamo, cosa faremmo senza l'unico stato affettivo-esistenziale che ci da motivo di essere, di esistere? Come esisteremmo senza quel vuoto - continuamente in fieri da colmare - ad impegnarci nel progetto della sua pienezza, se esso venisse colmato, saturato d'essere una volta per tutte?
Sradichiamo ogni ipocrita malafede, siamo schietti con noi stessi: a Noi "folli malinconici sentimentali", per cui spesso la cesura fra sogno e realtà, fra illusione e possibilità è inesistente, pace perpetuare quel vuoto che ci contraddistingue, che ci rende unici, ma soprattutto impegnati in uno scopo. Ci piace illuderci di lottare per saturarlo, fingere di impegnarci verso nuove possibilità per riempirlo una volta per tutte, mentre in realtà non miriamo che a rigenerarlo eternamente, a renderlo sempre più presente e concreto nella nostra ingenua finitudine. Noi, infondo, godiamo di questo vuoto e facciamo di tutto per impedrne l'estinguersi, il suo passare dalla potenza all'atto. Il nostro vuoto potenziale si attualizza in un ulteriore vuoto, tende a compiersi in una sopravveniente incompiutezza nella quale ci rituffiamo per poi ricominciare a riprenderne l'atto di riempimento, senza però mai portarlo a termine. O forse, il termine a cui tendiamo, l'attualizzazione di quella potenzialità che il vuoto ha in sè, è per noi proprio il vuoto stesso in quanto tale.
La possibilità di una possibile felicità, l'orizzonte di un vuoto totalmente riempito d'essere, ci intimorisce:al suo cospetto ci troveremmo impacciati, nudi di esistere come mai siamo esistiti: gioiosi, euforici, felici, o perlomeno, sereni.
Che senso avrebbe, allora, per Noi, il nostro essere? Quale scopo ci rimarrebbe da perseguire? La felicità, per chi non l'ha mai esistita è un arcano e mette più timore di un habitus ormai radicato nella malinconia, nell'avversità della sofferenza.
No, meglio - a nostro inconsapevole e codardo giudizio - un Nulla pieno, paradossalmente, di certezza che una possibile pienezza a noi sconosciuta.
L'Eterno ritorno dell'identico è un effetto di cui noi siamo causa prima.
Quando asseriamo inautenticamente sorpresi "Chissà perchè capitano tutte a me! Come mai mi ritrovo sempre nella medesima situazione? Io speravo che stavolta sarebbe andata diversamente!", lo speravamo veramente? O abbiamo fatto di questa speranza una comoda scusante per non guardarci dentro in modo autentico?
Tutte le volte che formuliamo questi giudizi, se solo analizzassimo in modo autentico - a ritroso - la serie delle cause, le scelte che ci hanno riportato in tali circostanze "eternamente ritornanti", scopriremmo che all'inizio, alla fonte, al principio di ogni sequenza di eventi - solo apparentemente casuali -, al di là delle innumerevoli variabili, risiede sempre e solo una medesima costante: la nostra "volontà di agire" - o di aver agito - in un modo piuttosto che in un altro.
Non, dunque, l'Eterno ritorno dell'identico ( degli eventi sempre identici in cui ci ritroviamo ) stabilisce - in modo deterministico e quasi a presuppore una sorta di intellectio dei - la situazione attuale, ma, al contrario, Noi, seppur inconsapevolmente, costruiamo, generiamo, diamo il nostro assenso ad una situazione - alla sua possibilità di trasmutare da possibilità potenziale in realtà attuale - mirata teleologicamente a creare l'eterno ritorno dell'identico.
L'identico ci rende sicuri perlomeno di quel Nulla a cui andiamo incontro, il nuovo, inveve, ci spaventa: è un circolo vizioso per cui, cercando una pienezza ed essendo attratti non tanto da quella pienezza stessa, quantopiù dalla sua ricerca continua ed ininterrotta, ci predisponiamo continuamente nel non portarla mai a compimento, ad essere, riproponedoci un percorso che quella pienezza mantenga sempre mancante di qualcosa. Assurdamente, troviamo la nostra compitezza, la nostra pienezza, nell'attualizzazione eterna di un non-mai-compiuto. Per questo, Noi, siamo "folli", perchè facciamo del nostro vuoto, l'essenza che riempie la nostra esistenza.
Cerchiamo, dunque, scaviamo in noi stessi, ainime fragili ed insicure, e constateremo che l'eterno ritorno dell'identico altro non è, in fin dei conti, che un nostro progetto originario, primordiale, pre-riflesssivo, pre-cognitivo, pre-fenomenologico, pre-posizionale, per poter affermare la nostra "nulla identità" asserendo compiaciuti e compassionevolmente incompresi " No, di nuovo no; un'altra volta no, non è possibile!", quando in realtà, quella stessa possibilità - che fatalmente adduciamo al caso - l'abbiamo resa possibile, alle sue radici, noi medesimi, attraverso il nostro libero agire, scegliere e decidere che ci è dato di avere.
L'eterno ritorno dell'identico viziosamente circolare è, insomma, null'altro che la perenne fuga di noi stessi d'innanzi a quel davanti-a-che che è il mondo; è l'esimersi dalle nostre responsabilità e, quindi, dal coraggio di assumere in prima persona quella libertà di scegliere che l'esistenza è nonchè dai rischi che immancabilmente essa comporta, per potere essere esistita e non solo meramente patita.
M.P.