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Autobiografia del papero ( 20 parte )

Post n°886 pubblicato il 31 Maggio 2012 da paperino61to

Dopo aver imparato come si pedala ( ricordate l a mia prima esperienza grazie a un amico di mio padre ? ), venne il momento di  fare tragitti un tantino più lunghi e non limitarsi alle solite collinette del parco della Pellerina o le strade di quartiere.

            


Un giorno d’estate dopo anni da quel battesimo, con degli amici decidemmo di andare a trovare mia nonna paterna. Ella da anni affittava una casetta indipendente in Vauda Superiore ,  paesino sopra Ciriè ( Torino).

I miei genitori non sapevano nulla di tutto ciò, altrimenti con il piffero mi avrebbero fatto andare, ma per fortuna mia erano al lavoro.

L’Indomani mattina appena usciti, scesi veloce in cantina e tirai fuori la mia mitica bici , modello ciclista . L’avventura ci attendeva, io ero il capo gruppo essendo l’unico che conosceva la strada.

Per chi conosce la zona o la città, la strada era quella per l’aeroporto ( Caselle) poi si proseguiva per Ciriè, e infine si prendeva la strada per Vauda.

Per noi abituati alle strade di zona ritrovarci in una statale trafficata di camion e auto non era esattamente il massimo, anche se allora il traffico era meno intenso di oggi. Ammetto , l’incoscienza fa fare molte cose senza pensare.

Arrivati a Ciriè facemmo sosta  in un giardino, un panino e un sorso di acqua e poi via, a pedalare come dei forsennati. Arrivammo all’indicazione per Vauda, da lì a poco sarebbero iniziate le salite : le odiose salite.

           

Uno della banda, scrollò le spalle al nostro : “ oh mamma “ e disse : “ ora vi faccio vedere io mezze seghe “. Lo vedemmo partire a razzo,alzandosi sul sellino della bici e spingere a fondo sui pedali.

Provammo invidia, che avesse ragione su di noi ? Sarebbe riuscito nell’impresa ? Io conoscendo il dislivello delle salite avevo dubbi, esisteva sempre un però.

Se ci fosse riuscito avrei di nuovo creduto a Babbo Natale e alla Befana con assieme il topino dei denti. Infatti non successe, trovammo il nostro caro “ Moser “ subito dopo la prima salita, rantolando e spingendo la bici a mano.

Passandogli accanto le facemmo “ ciao “ con la manina, ricevendo solo un bell’ affanc., ammetto che ce lo siamo meritati ampiamente, chissà già da allora il germe del “ bastardo dentro” germogliava in me.

In ogni caso noi ci fermammo subito dopo. Le ultime rampe le facemmo a piedi. Arrivati sul piano e sulla strada che portava da  mia nonna, rimontammo in sella e come dei bulletti passammo nell’unica via del paesino come se nulla ci avesse affaticato, manco quelle dannate salite. Schiena dritta, sguardo avanti e respiro regolare. Era tutto una finta, eravamo morti, stravolti, ma non si sa mai, magari qualche ragazzina sarebbe rimasta impressionata da noi ;  ammesso che ci fossero, perché noi quel giorno non ne  vedemmo per nulla.

           

Mia nonna rimase stupita dalla visita del nipote con al seguito gli amici. Capì che i miei non sapevano che fossi andata a trovarla, e lei non lo disse mai. Ci preparò un bel pranzetto con tanto di torta, in fondo ce  l’eravamo meritata.

Passammo un bel pomeriggio, giocando a pallone e sentendo la nonna raccontare storie di  quando era giovane , compreso quelle su mio padre e dei suoi fratelli e sorelle ( erano in sette ).

Ci congedammo verso metà pomeriggio , ma con un animo diverso perchè, ora ci toccavano le discese. Il ritorno fu tranquillo come all’andata, cantando e scherzando tra di noi. Quando i miei arrivarono dal lavoro, domandarono come passai il tempo , risposi :  “ come al solito al giardino “.

Solo anni dopo scoprirono la mia visita alla nonna, ma ormai ero “ grande “.

 
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