Creato da: paperino61to il 15/11/2008
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Messaggi del 04/11/2012

 

Il documento del disonore ( capitolo settimo )

Post n°1071 pubblicato il 04 Novembre 2012 da paperino61to

 “ Benvenuto a bordo signor Holmes. Dottor  Watson è un piacere conoscerla  “.

              

Il comandante di fregata Roswalt  si presentò a noi appena fummo saliti a bordo della Mayflower.

“ Venite , mi è arrivato pochi minuti fa il dispaccio del Ministro ed ho fatto predisporre il capitano  William agli arresti che ora ci attende nella mia cabina  “.

 Seguimmo il comandante nella sua cabina. Davanti alla porta vi erano di piantone due guardie. Entrammo.

Un uomo era dietro a una scrivania.  Aveva la testa tra le mani, ed un debole singhiozzo lo si poteva percepire nel silenzio della stanza. Alzò la testa, due occhi grigi ci fulminarono all’istante.

             

“ So chi siete signor Holmes e ammetto che mai avrei voluto incontrarvi, ma giacchè il destino ha pensato di predisporre diversamente, ebbene facciamo in fretta. Cosa volete sapere , se eventualmente non ne sapete ancora abbastanza ?  “.

La sua voce era gelida , tagliente. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Aveva tentato di barare, se mi perdonate il paragone, ed è stato colto sul fatto.

“ Solo una cosa William, dove sono i documenti ?  “.  Anche la voce di Holmes era gelida.

 Il capitano rise. Una risata da fare gelare il sangue.

“ Dicono che siete un genio, e poi venite da me a domandarmi dove sono i documenti ? . Buffo veramente. Cercateveli sbirro  “.

Il comandante fece un passo in avanti, ma Holmes lo bloccò.

 “ Non è il caso Roswalt, basterà semplicemente che quando scenderò dalla nave si sparga  la voce che il capitano  abbia parlato. Ci penseranno i suoi complici a zittirlo. “.

L’uomo sbiancò. A quell’evenienza non aveva pensato ,  si era dimostrato fedele e ancora adesso lo era, ma il tarlo che le insinuava Holmes gli era entrato in testa.

“ Sarete in grado di proteggermi signor Holmes ? “ domandò stavolta con voce meno sprezzante.

                      

“ Si. Da Moriarty e soci sicuramente, dal regolamento che vige nella marina militare no. Sono sincero “.

L’uomo chinò di nuovo la testa e per qualche minuto stette in silenzio.

Con aria meno spavalda accettò la proposta di Holmes.

 “ I documenti li trovate alla locanda di  Tower Place, sapete dove si trova ? “.

Rispondemmo di si.

 “ Ebbene , andate li e domandate di Curtis. Dite che vi mando io. E’ un mio amico, ma non c’entra nulla in questa faccenda.   Non li ho ancora consegnati i documenti e non sanno di preciso dove li tenga  “. Poi si rivolse  al suo comandante :

“ Signore, non chiedo clemenza, so di aver sbagliato. Ero pieno di debiti, qualcuno mi ha fatto incontrare questo , come l’avete chiamato Moriarty ? Ebbene io lo conosco con il nome di Smith. Mi  propose di agganciare il giovane e di mettere in giro certe voci. Furono prese anche delle fotografie, ma  un esperto le aveva modificate. Mentre ciò avveniva, inviai  una lettera di ricatto al Primo ministro austriaco ;  la richiesta era di chiudere l’ambasciata qui e in tutta l’Inghilterra con conseguenze facilmente immaginabili “.

Il comandante era sbalordito, e non solo lui, ma pure io. Un pazzo avrebbe scatenato una guerra pur di arrivare al suo scopo .

 “ Facilmente intuibile caro  William, come lo sarebbe stato se lei fosse stato meno stolto. Moriarty è un cancro da estirpare , e per Dio , credetemi signori ,  ci riuscirò , dovessi rimetterci la vita  “.

 “ Bene Watson, ora andiamo al Tower place , prima che ci arrivi il nostro nemico”.

 ( continua )

 
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Bacheca Fiat : Serbia

Post n°1070 pubblicato il 04 Novembre 2012 da paperino61to

Li vedi sfilare a fine turno sull’unico ponte che collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie. Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent’anni o poco più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac, 140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventata una faticosa consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito o per dare una sistemata alle macchine. Un’extra pagato? Magari. Tutto gratis. “Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.

È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la disoccupazione al 25 per cento, l’inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo) finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli estranei.

Vanno così le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese, turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o lasciare. Ma un’alternativa, un’alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E allora bisogna prendere, bisogna accettare l’offerta targata Italia. Anzi, targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6 per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e amministrativi.

Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre quattro anni di distanza dall’accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l’unico modello davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel 2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell’anno”, questi gli obiettivi di produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l’impianto di Kragujevac. Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po’ in tutta Europa, le aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.

Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull’immediato mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. “Siamo in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l’anno, tutto dipende dalla domanda di mercato”, ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare Ferrara, in una recente intervista all’agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20 miliardi di investimenti del fantomatico piano “Fabbrica Italia”. Poi s’è visto com’è andata a finire. Parole al vento.

In Serbia, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei mesi scorsi hanno accreditato l’ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre oltre 200 mila auto l’anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest’anno i quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila, forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello degli operai del Belpaese?

Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia, annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola.

L’alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti d’oro all’investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il presidente che insieme al ministro dell’Economia Mladjan Dinkic, era stato il principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente) e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale, nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi a palate.

Anche Marchionne è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic. Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo promessi da Belgrado.Nessuno scontro. L’accordo è arrivato a tempo di record. Il governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine dell’anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c’è neppure bisogno di bluffare. Il piano “Fabbrica Serbia” ormai è realtà.

 

 
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Bacheca Fiat

Post n°1069 pubblicato il 04 Novembre 2012 da paperino61to

 

Articolo interessante pubblicato ieri sul Fatto Quotidiano in merito alla   " DEMOCRAZIA  " di Marchionne :

 

 

GLI OPERAI si siedono e cominciano a parlare. Parlano di getto: “Io dovrei essere l’operaio modello di Marchionne – spiega Filippo – nessun iscrizione al sindacato, ho sempre lavorato tranquillamente, ma con quello che succede ora non si può scherzare”. Quello “che succede” è la petizione circolata in fabbrica la scorsa settimana e con la quale gli operai si dicevano preoccupati per il fatto che le 145 assunzioni ordinate dal Tribunale per sanare la discriminazione contro la Fiom potessero minacciare chi il posto ce l’ha. Un’iniziativa vissuta comeuna nuova guerra tra poveri. “Il team leader, il capo squadra mi ha detto ‘Firma, fai presto che ho da fare’, senza nemmeno farmi leggere. Ho firmato. Ma quando ho chiesto spiegazioni mi ha detto che mi avrebbe potuto cancellare e mettermi nella lista di quelli là”. Quelli là sono gli altri,quelli che non sono solidali con l’azienda, gli amici della Fiom. Sergio è più esplicito: “Il motivo per cui siamo qua è che abbiamo visto uno schifo”. La petizione è stata “fatta dall’azienda ma presentata come ispirata dagli operai”. Sergio racconta: “Un sindacalista mi ha spiegato tutto. All’inizio della settimana il direttore ha convocato i sindacati dicendo che occorreva fare qualcosa sulla vicenda delle riassunzioni”. A quel punto, spiega, si sono attivati “i capi, i team leader e i sindacati, in particolare la Fim Cisl: giovedì e venerdì scorsi alle 6 di mattina c’erano già dei sindacalisti in fabbrica, di solito arrivano alle otto, e facevano girare la petizione”.


“A me – continua Sergio – è stato detto chiaramente: ti consiglio di firmarla perché se non la firmi ti mettono in mobilità forzata. Ma io la penna non l’ho presa in mano”. E non ha paura? “Certo che ho paura di finire tra i 19 da sacrificare. Ma io faccio il mio lavoro e voglio essere giudicato solo per quello. Pensavo saremmo stati in pochi a firmare , e invece siamo arrivati a 600”. L’azienda, sentita dal Fatto, afferma di “non voler rispondere a dichiarazioni anonime”. Su richiesta di un commento, però, è secca: niente a che vedere con la petizione. La Fim è più sfumata, invita a non strumentalizzare la vicenda, parla di 1900 firme arrivate presso la sede nazionale e invita a riflettere su iniziative del genere.

Nel racconto c’è anche il clima dentro la fabbrica dove la vita non è facile, soprattutto dopo i ritmi imposti dal piano Fabbrica Italia. Le pause, soprattutto, sono una bestia nera, tre da 10 minuti in otto ore di lavoro: “Non c’è il tempo di parlare con il collega vicino, di bere da una bottiglietta dietro alla postazione, se siamo raffreddati non c’è tempo di prendere un fazzoletto dalla tasca. Abbiamo un minuto per fare una macchina: un minuto per fare l’operazione e subito dietro spunta l’altra macchina”. L’azienda si è mangiata il tempo: “Prima avevamo 30-40 secondi per tirare il fiato tra una macchina e l’altra”. Ora non ci sono più. “Quando ho firmato il contratto, spiega Sergio, il direttore mi ha detto che sono state tolte le sedie e i tavolini perché, tanto, con il nuovo sistema di lavoro non c’è bisogno di sedervi”. “Mi ha colpito la scena – aggiunge Filippo – di vedere alcune donne andare in bagno con in mano cracker, panini e frutta, per non perdere tempo”.

Accanto agli operai della Fip ci sono anche quelli in cassa integrazione, ancora dipendenti di Fiat group automobiles (Fga). Sono 2276 e aspettano. Con poca fiducia. “Io vivo con 760-780 euro di assegno di cassa integrazione – spiega Andrea – e meno male che mia moglie lavora”. Però ora deve sospendere il mutuo da 700 euro e le bollette si accumulano sul tavolo. Lui ha sempre votato Ds e poi Pd, “ma ora non voterò, la politica deve schierarsi”. Ma Marchionne dice che ha evitato il massacro sociale, che rispondete? “Che quando arriviamo a luglio 2013 e finisce la Cassa integrazione – dice Giacomo, assunto dal 2001 ma fuori dalla fabbrica – noi andremo tutti in mezzo a una strada, in mobilità.

A Marchionne domando: può confermare che nel 2013 noi saremo felici e contenti andando a lavorare e non ci troviamo invece a casa?”.

 

 

 
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