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attimi di vita quotidiana nelle " vanedde" siciliane

Post n°621 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

Il vicinato aveva un'enorme importanza. Le case spessissimo erano molto piccole, addossate le une alle altre. Era pressocchè impossibile riuscire a proteggersi dalla curiosità dei vicini, garantirsi un minimo di privacy. Prima o poi, anche i fatti più personali e privati di ognuno finivano nel calderone delle chiacchiere della vanedda, vero centro della vita quotidiana. Se i rapporti erano buoni, allora erano ancora più intimi che tra i parenti. Simu miegghi de parienti, si usava dire, infatti. Ci si scambiava e ci si imprestava tutto, da ugghia 'nsinu o itali. Ma se erano cattivi, la vita poteva diventare veramente un inferno. Cu avi a mala vicina, avi a mala sira e a mala matina. Si diceva i mura nun anu aricchi e sentinu oppure di tutti ti pò ammucciari, da to vicina no, ed era vero. La vanedda era un microcosmo dove confluivano i problemi di tutti. Nella vanedda si creavano alleanze e rivalità, nascevano gelosie per un nonnulla e si fomentavano rancori, spesso causati più dall'insofferenza per la quotidiana convivenza che da un torto subito. La vanedda era il regno della maldicenza. In un baleno una notizia, amplificata, spesso stravolta, faceva il giro delle orecchie e delle bocche di tutte le comari. C'erano comari all'arte per queste cose, protagoniste ante litteram delle moderne telenovelas. Con la più futile delle scuse, entravano e uscivano da tutte le case del vicinato per portare e prendere l'ultima notizia. Erano capaci d'imbastire storie infinite sui rapporti quotidiani di suocere prepotenti e di nuore linguacciute; si trovavano in mezzo, apparentemente col ruolo di paciere, ma in realtà per fomentarle, a tutte le storie di sgarbi e di ripicche, di malocchi e di maarìe; di ogni nuovo zitaggiu e di ogni matrimonio conoscevano anche i minimi dettagli; chissà come e chissà perchè, si trovavano sempre ad avere una parte nelle liti furibonde che scoppiavano tra parenti quando c'era da spartirsi un'eredità di quattro stracci... -Mi raccomando, però- concludevano ogni volta, con un piede fuori e uno ancora dentro la porta- guarda che questa cosa la sai solo tu; non farne parola con nessuno, per carità; se proprio si deve sapere, non voglio che si sappia giusto da me...- E intanto già bussavano alla porta accanto. I telefoni ancora non c'erano... Come si dice? I cani l'ossa d'intra i portinu fori. Guai, in un contesto così rigidamente chiuso e rigorosamente "controllato", a tentare di uscire dal gruppo e cercare di fare un passo più avanti degli altri. Si finiva inevitabilmente nel terribile tritatutto della maldicenza più cattiva, del sarcasmo più astioso, del sospetto. Come accade anche oggi, d'altronde. Il mondo è sempre identico a se stesso. Qualcuno si mostrava più riservato e non dava eccessiva confidenza ai vicini? Ebbene, diventava uno ca s'innavia acchianatu supra o castieddu da munnizza, oppure gli si faceva capire che ccà tutti ccò 'ncrivu cirnimu. Un miglioramento delle condizioni di vita, un piccolo arricchimento, erano sempre accompagnati dal sospetto. Tu nun fili, nun cusi e nu 'ncanni, d'unni ti vinna stu gghiòmmiru ranni? Qualcuno nicchiava quando doveva saldare i suoi debiti? Al suo passaggio il creditore, il più delle volte un povero artigiano costretto a pazientare all'infinito per vedersi saldato un lavoro, non perdeva l'occasione per mettere alla gogna il debitore canticchiandogli dietro sommessamente, ma non tanto che gli altri non sentissero, cu a tingiri, cu a tingiri, ca passa u tingituri... Un malu paatùri, infatti, con un gioco di parole, veniva paragonato sarcasticamente ad un imbianchino, tingituri appunto, uno che cancella i suoi debiti con un colpo di pennello... e molta faccia tosta. Ma il verbo tingiri si usava, e si usa ancora oggi, anche per indicare il dolore che procura un colpo di verga o uno schiaffo. Le metafore, poi, si caricavano di autentico disprezzo se il neo ricco, e ancor più la neo ricca, ostentavano senza pudore i simboli della nuova condizione. Sentite questa. Ca cchi sì tu, buffa, ca canti? E' u margiu ca ti tena! Come dire, è inutile che ti dai tante arie, che ostenti tanta arroganza, e sbatti in faccia a tutti la tua alterigia, perchè non è merito tuo; se fosse stato per te, sempre buffa saresti rimasta, cioè un rospo. Margiu letteralmente significa margine, confine di terreni, e, per estensione, acquitrino, pantano. Credo che la metafora non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, tanta è la carica di invidia e di odio viscerale che vi serpeggia. La risposta del tipo "non ti curar di lor ma guarda e passa", invece, veniva quasi sempre affidata ad un debole miegghiu mmidia ca pietà. Ma nella vanedda si sviluppava al massimo anche la più nobile delle virtù sociali, la solidarietà. Non c'era problema di uno che non diventasse problema di tutti. Ed era solidarietà autentica, quella del povero che si preoccupa di chi è ancora più povero. Una malattia, una disgrazia, un lutto, diventavano motivo di sincera preoccupazione per tutto il vicinato.



  • A lingua nun avi uossu, ma rumpa l'ossa.
  • Uomini all'antu e fimmini o suli, scansatininni Signuri!
  • Di chiddu ca vidi, picca nni cridi; di chiddu ca sienti, nun cridiri nenti.
  • I mura nun anu aricchi e sentinu.
  • Cu avi a mala vicina, avi a mala sira e a mala matina.
  • Diu mi nni scansa do malu vicinu.
  • Di tutti ti pò ammucciari, da to vicina no.
  • Olà olà, nun fari cosa o munnu ca si sà.
  • Ammuccia ammuccia ca tuttu para.
  • Cu mmurmurìa si và ccunfessa.
  • A vucca ca nun parràu megghia s'asciàu (oppure s'attruvau).
  • A megghia risposta è chidda ca nun si duna.
  • U silenziu è d'oru e a parola è d'argentu.
  • U abbu arriva e a stima no.
  • Cu abbu si vola fari, primu o duoppu ccià cascari.
  • Picciuotti 'un vi faciti meravigghia, cu abbu si nni fa, prestu ccia 'ngagghia.
  • Cu si fa abbu ci cada u labbru.
  • 'Astimi su di canigghia: cu i etta si pigghia.
  • A parola s'abbìa 'nna chiazza, cu arriva s'abbrazza.
  • A vistina ca nun ciancia pezza è cchiù caiorda cu a rripezza.
  • U putiaru 'nzocchi avi vannìa.
  • Miegghiu mmidia ca pietà.
  • Cu disìa u mali all'autri, u so è darrieri a porta.
  • Cu và co 'ngannu ciappizza 'affannu.
  • Sarba a pezza ppò purtusu.
  • L'azioni è di cu a fa, no di cu a riciva.
  • Cu s'avanta cca so vucca, nun è merra e mancu cucca.
  • 'Acieddu ca canta nna argia, o canta ppì mmidia o canta ppì rraggia.
  • Quannu a urpi nun arriva a racina, dicia ch'è aura.
  • 'O cavaddu lastimiàtu ci lùcia u pilu.

 
 
 
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