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Messaggi del 23/10/2006
Non era cosa semplice coronare un sogno d'amore al tempo dei nostri nonni. Le donne passavano le loro giornate chiuse in casa. Facci nun vista è disiata, si insegnava alle ragazze da marito; cu beni ti vola, 'ncasa ti vena si ammonivano quelle che avessero avuto qualche smania di mettersi in mostra o, peggio, cosa inusitata e assai disdicevole, di prendere iniziative. Per due giovani che volevano fidanzarsi praticamente non esisteva nessuna possibilità di incontrarsi e istaurare un rapporto, anche solamente verbale, prima che il matrimonio venisse affermato. I primi tentativi d'approccio e di dialogo si riducevano di solito ad una serie di sguardi, fugaci e furtivi, che l'uomo cominciava con l'inviare all'indirizzo della prescelta. Quasi sempre il corteggiamento cominciava con lunghi, snervanti e soprattutto cauti appostamenti sotto la finestra o il balcone della ragazza. Gli appostamenti dovevano per forza essere cauti, perchè se il padre o i fratelli subodoravano qualcosa, non era infrequente che il temerario venisse diffidato, anche con la forza, dall'aggirarsi nei paraggi, e la poverina malmenata, in nome di un atavico diritto di proprietà che ogni maschio sentiva il dovere di esercitare sulle femmine della propria famiglia, o soltanto per difenderne l'onore, sulla cui definizione si è molto disquisito da parte degli studiosi di costume. Oppure si svolgeva la domenica mattina, durante la messa delle undici, quella cantata. Si usava che i giovanotti, a piccoli gruppi, durante la funzione, piuttosto che star seduti ad ascoltare, passeggiavano su e giù per le navate laterali della chiesa, lanciando sguardi e ammiccamenti all'indirizzo delle ragazze, che stavano sedute, quasi sempre accanto alla madre o ad una vecchia zia, nella navata centrale. Quando scorgevano quella che a loro sembrava giusta, si piazzavano in posizione strategica e lanciavano l'attacco. Uno sguardo, due, tre, in modo sempre più insistente e diretto. I più intraprendenti facevano l'occhiolino. Poi pazientemente attendevano il riscontro. Ogni giovanotto sapeva bene che una ragazza seria le prime volte non si sarebbe fatta sorprendere a restituirgli lo sguardo, per non passare per civetta. O soltanto per paura. Per cui pregava l'amico di osservarne di sottecchi le reazioni. -Chi dici, ti para ca talìa, ah?- chiedeva lo spasimante con trepidazione. -Allivoti si, ma nun sugnu sicuru- rispondeva titubante l'amico. -E tu talìa miegghiu- incalzava il poverino. Quando, dopo tante domeniche, e dopo interminabili attese per intere serate sotto un balcone che non si apriva, la ragazza, con un cenno del capo o dello sguardo, finalmente lasciava intendere che la cosa si poteva fare, allora il ragazzo si faceva più audace e il suo corteggiamento diventava più esplicito: passava sempre più frequentemente sotto il balcone e lasciava intendere che era disposto anche a sfidare l'ira del padre e dei fratelli. Quannu i dui si vuonu, i tri nun s'azzuffinu. Esistevano anche i matrimoni purtati, chiamati così perchè venivano combinati da vecchie paraninfe molto abili in queste faccende e attivissime in ogni paese, le antenate delle moderne marteflavi. Erano matrimoni basati certamente non sull'amore, che anzi spessissimo i due promessi sposi neppure si conoscevano, ma su piccole convenienze e piccoli calcoli. Iddu è unu travaddiaturi, serio, con tante proprietà, enfatizzavano le comari traffichine, facendo brillare davanti agli occhi della ragazza indecisa, e soprattutto davanti a quelli avidi dei genitori, il miraggio di un benessere che il più delle volte si rivelava poi, se non proprio inesistente, certamente inferiore a quello promesso. E idda? Lei, sempre a detta delle ruffiane, era certamente una che si poteva bere in un bicchiere d'acqua. Magari attempatella, certamente non bedda cchiassai do suli e da luna. Ma che importava? Erano pronte a giurare che era stata abituata fin da piccola ai lavori più duri, ed educata al rispetto e all'ubbidienza verso il marito. Magari era grassottella, con i fianchi sovrabbondanti. Tutta grazia di Dio, ammiccavano allora con una grassa risata carica di doppi sensi. Erano abilissime nel mettere in risalto le doti che maggiormante contavano nel povero mondo contadino di allora. E l'amore? Beh, Amuri e bruodu i chiàppiri... non si dice così? L'unica cosa che in fondo veramente conta tra due che si sposano è il rispetto reciproco. L'amore poteva sempre venire dopo; anzi, certamente sarebbe venuto, incalzavano, dall'alto della loro esperienza, le mature intermediarie. La cosa su cui erano pronte a giurare era comunque che quel matrimonio era stato deciso e preparato in Cielo. Matrimonia e viscuvati do cielu su calati, infatti. Ma per quali vie, poi, e con quali chiavi, le paraninfe accedessero ai reconditi misteri del Cielo, questo proprio non mi è stato rivelato. Personaggio importante in ogni matrimonio era u missaggieri, di solito un signore anziano, assennato, stimato e rispettato in società, possibilmente di ceto sociale superiore, che veniva incaricato dalla famiglia del giovane di fare il primo passo, come si diceva, presso il padre della ragazza. Il quale, a sua volta, cerimonioso, si dichiarava prima di tutto onoratissimo della visita di quell'ospite tanto illustre, quantu onuri nna me casa!; poi, dopo aver ripetutamente ostentato la propria sorpresa per quella richiesta tanto inattesa, chiedeva tempo per una risposta; per domandare alla figlia, diceva ipocritamente, se anche lei era disposta a sposare quel giovane, contro cui, e soprattutto contro la cui famiglia, lui non aveva niente da ridire, teneva a precisare; ma in realtà per prendere le informazioni. Se, dopo una o due settimane, la risposta era affermativa, col messaggero si metteva in chiaro anche la parte economica della faccenda. Non si stilavano contratti veri e propri, almeno non ne stilavano quelli delle classi subalterne, ma la parola data davanti a lui era impegnativa più della carta bollata. A quel punto si concordava la data per fare la ricanuscenza, che consisteva in una visita che i genitori e i parenti stretti del giovane facevano a casa della ragazza, per conoscerne i familiari. In quella cerimonia la parte centrale della scena veniva ceduta alla mamma del giovane, presso la quale la timida e impacciatissima fanciulla doveva sforzarsi di suscitare l'impressione più favorevole. Dopo questo primo incontro il fidanzato non sempre veniva ancora ammesso a frequentare con regolarità la casa della fidanzata. Per poter cominciare a farlo egli doveva attendere che si facesse u singu, il fidanzamento ufficiale, che si celebrava poche settimane dopo, giusto il tempo dei preparativi, che erano lunghi e laboriosi. Fino ad allora ai due giovani si concedeva di parlarsi dal balcone, senza più la preoccupazione di essere sorpresi. Comunque da quel momento potevano formalmente considerarsi ziti. U singu, come poi anche il matrimonio vero e proprio, che veniva celebrato quasi sempre verso la fine dell'estate successiva, nel mese di settembre, quando diminuivano i lavori nei campi, era una cerimonia corale. Per diversi giorni prima, infatti, tutti i parenti da zita partecipavano indaffaratissimi alla preparazione dei dolci per il trattenimento, mentre i parenti do zitu si occupavano di acquistare l'oru do singu. Spessissimo tra le due famiglie si istaurava una sorta di tacita gara per prevalere sull'altra, una gara che quasi sempre risultava assai patetica, in quanto ciascuna di esse si sforzava di ostentare un'agiatezza che di fatto non aveva, o vantava parentele altolocate, che quasi sempre poi, si riducevano a qualche oscuro travet della pubblica amministrazione o ad un militare di bassissimo grado e rango. La sera del fidanzamento, in mezzo ai cori sempre più lunghi di oh!!! delle comari, la futura suocera, con sussiego e studiata lentezza, appendeva l'oru alla fidanzata, rossa in volto comu a paparina. I commenti d'ammirazione si sprecavano. A pararu comu a Sant'Aita, dicevano i suoi parenti, per lasciare intendere che i regali erano stati graditi, che la famiglia dello sposo non si era risparmiata e aveva fatto tutte le cose per bene, com'era giusto. Un buon trattamento veniva giudicato dal numero e dall'abbondanza delle passate, dalla quantità di dolci, cioè, che alcuni giovanotti, naturalmente quelli più brillanti e di cumacca tra i parenti della fidanzata, già alticci di prima sera, facevano passare tra gli invitati, in un grande tabarè. In mezzo a un gran vociare di bambini, vassoi stracolmi di cassateddi, 'nfasciatieddi, nocatuli e amaretti, passavano davanti alle infinite mani stese degli invitati, seduti stretti stretti, uno accanto all'altro, nei sedili di fortuna che si ricavavano appoggiando a due sedie le tavole dei letti, disfatti per l'occasione. E tra una passata e l'altra venivano offerti bicchierini di un non meglio identificato rosoliu, un liquore fatto in casa con alcool e zucchero, ai quali venivano aggiunti essenze e coloranti diversi, i patriottici bianco, rosso e verde per lo più, per dare l'impressione che si trattasse di liquori sempre diversi. Ma, per quanto mi ricordo, il sapore mi sembrava sempre lo stesso. Quelli che se lo potevano permettere chiamavano un'orchestrina, composta da musicanti raccogliticci, perdigiorno senza nè arte nè parte, i quali, dietro compenso di un pasto o solo di una buona bevuta, riuscivano a mettere insieme un repertorio di vecchie canzoni. -Vossa muzzica, cummà! -Vossa muzzica, cumpà! Al rito da muzzicata non si poteva sfuggire, se non si voleva dare l'impressione di essere schizzinosi, cca nasca additta. Nulla poteva nuocere di più ai buoni rapporti che con il matrimonio si istauravano tra due parentele, che il mostrare di sentirsi superiori, di schifiàrisi del compare o della comare. Seduti per la prima volta uno accanto all'altra, al centro di un'attenzione che avrebbero volentieri schivato, i due ziti, confusi e inebetiti, finalmente si tenevano per mano; e mentre il vocìo, col passare del tempo e delle passate di rosolio, diventava concitazione e frastuono, essi timidamente cercavano di ascoltare le segrete emozioni del cuore, che non riuscivano, e forse mai sarebbero riuscite, a diventare parole. Il matrimonio, soprattutto tra le famiglie contadine, di solito, come dicevo, si celebrava verso la fine dell'estate. Qualcuno in primavera, ad aprile. Mai a maggio, a zita maiulina nun si oda a vistina. Quasi sempre di sabato, di sabitu a Madonna ci proia l'abitu. Mai di lunedì, di luni si nni va a ruzzuluni. I parenti dello sposo aspettavano in chiesa; la sposa, in abito bianco, arrivava dopo, in braccio al padre e seguita dal numeroso corteo dei suoi parenti. I balconi e le finestre che si affacciavano sulle strette viuzze dove passava il corteo venivano addobbate con le coltri e i lenzuoli ricamati, come per la processione del Corpus Domini. Alla fine della cerimonia in chiesa, un corteo ancor più numeroso tornava nella casa della sposa per il trattenimento, che era in tutto simile a quello del fidanzamento. C'era una cosa, ai tempi della mia infanzia, che più viva mi torna alla mente, soprattutto per il gran senso di tristezza che mi metteva dentro già allora; ed anche ora che ne scrivo provo uno strana ed accorata malinconia. La guerra era finita da poco e fame in giro ce n'era tanta. Ricordo che c'era sempre un gran nugolo di ragazzini malvestiti che seguiva da presso ogni corteo nuziale e che poi si assiepava vociante all'uscio della casa della sposa; e ricordo che qualcuno da un balcone, dopo che tutti gli invitati erano entrati in casa, buttava loro dei confetti e delle monetine. Immagino che fosse un gesto per augurare ricchezza e benessere ai nuovi sposi. Ma a me quei bambini ai quali si buttavano delle monetine facevano una gran pena. Non si usava che gli sposi andassero in viaggio di nozze. A tarda sera, finiti i festeggiamenti, i parenti più prossimi li accompagnavano nella nuova casa. Verso mezzanotte gli amici più intimi gli portavano la serenata sotto casa. Poi, per tutta la settimana che seguiva, gli sposi, ma soprattutto la sposa, non uscivano di casa. Solo all'otti jorna, all'ottavo giorno, gli sposi, lui col vestito del matrimonio e lei con quello appunto di l'otti jorna, abitino di seta e spolverino nero, andavano a fare visita a tutto il parentado. Mentalità e cultura, usanze e tradizioni, credenze e superstizioni, tutto concorreva a conferire ai comportamenti legati al matrimonio una sorta di sacralità, una ritualità fatta di innumerevoli regole non scritte, ma non per questo meno ferree e vincolanti, difficilmente riscontrabili in altre circostanze della vita. Ogni matrimonio finiva per coinvolgere praticamente l'intero parentado dei due fidanzati; ognuna delle due famiglie vi spendeva la propria immagine pubblica, il proprio peso economico, il proprio onore.
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Ccu Gesu mi curcu, ccu Gesu mi staiu...
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Il vicinato aveva un'enorme importanza. Le case spessissimo erano molto piccole, addossate le une alle altre. Era pressocchè impossibile riuscire a proteggersi dalla curiosità dei vicini, garantirsi un minimo di privacy. Prima o poi, anche i fatti più personali e privati di ognuno finivano nel calderone delle chiacchiere della vanedda, vero centro della vita quotidiana. Se i rapporti erano buoni, allora erano ancora più intimi che tra i parenti. Simu miegghi de parienti, si usava dire, infatti. Ci si scambiava e ci si imprestava tutto, da ugghia 'nsinu o itali. Ma se erano cattivi, la vita poteva diventare veramente un inferno. Cu avi a mala vicina, avi a mala sira e a mala matina. Si diceva i mura nun anu aricchi e sentinu oppure di tutti ti pò ammucciari, da to vicina no, ed era vero. La vanedda era un microcosmo dove confluivano i problemi di tutti. Nella vanedda si creavano alleanze e rivalità, nascevano gelosie per un nonnulla e si fomentavano rancori, spesso causati più dall'insofferenza per la quotidiana convivenza che da un torto subito. La vanedda era il regno della maldicenza. In un baleno una notizia, amplificata, spesso stravolta, faceva il giro delle orecchie e delle bocche di tutte le comari. C'erano comari all'arte per queste cose, protagoniste ante litteram delle moderne telenovelas. Con la più futile delle scuse, entravano e uscivano da tutte le case del vicinato per portare e prendere l'ultima notizia. Erano capaci d'imbastire storie infinite sui rapporti quotidiani di suocere prepotenti e di nuore linguacciute; si trovavano in mezzo, apparentemente col ruolo di paciere, ma in realtà per fomentarle, a tutte le storie di sgarbi e di ripicche, di malocchi e di maarìe; di ogni nuovo zitaggiu e di ogni matrimonio conoscevano anche i minimi dettagli; chissà come e chissà perchè, si trovavano sempre ad avere una parte nelle liti furibonde che scoppiavano tra parenti quando c'era da spartirsi un'eredità di quattro stracci... -Mi raccomando, però- concludevano ogni volta, con un piede fuori e uno ancora dentro la porta- guarda che questa cosa la sai solo tu; non farne parola con nessuno, per carità; se proprio si deve sapere, non voglio che si sappia giusto da me...- E intanto già bussavano alla porta accanto. I telefoni ancora non c'erano... Come si dice? I cani l'ossa d'intra i portinu fori. Guai, in un contesto così rigidamente chiuso e rigorosamente "controllato", a tentare di uscire dal gruppo e cercare di fare un passo più avanti degli altri. Si finiva inevitabilmente nel terribile tritatutto della maldicenza più cattiva, del sarcasmo più astioso, del sospetto. Come accade anche oggi, d'altronde. Il mondo è sempre identico a se stesso. Qualcuno si mostrava più riservato e non dava eccessiva confidenza ai vicini? Ebbene, diventava uno ca s'innavia acchianatu supra o castieddu da munnizza, oppure gli si faceva capire che ccà tutti ccò 'ncrivu cirnimu. Un miglioramento delle condizioni di vita, un piccolo arricchimento, erano sempre accompagnati dal sospetto. Tu nun fili, nun cusi e nu 'ncanni, d'unni ti vinna stu gghiòmmiru ranni? Qualcuno nicchiava quando doveva saldare i suoi debiti? Al suo passaggio il creditore, il più delle volte un povero artigiano costretto a pazientare all'infinito per vedersi saldato un lavoro, non perdeva l'occasione per mettere alla gogna il debitore canticchiandogli dietro sommessamente, ma non tanto che gli altri non sentissero, cu a tingiri, cu a tingiri, ca passa u tingituri... Un malu paatùri, infatti, con un gioco di parole, veniva paragonato sarcasticamente ad un imbianchino, tingituri appunto, uno che cancella i suoi debiti con un colpo di pennello... e molta faccia tosta. Ma il verbo tingiri si usava, e si usa ancora oggi, anche per indicare il dolore che procura un colpo di verga o uno schiaffo. Le metafore, poi, si caricavano di autentico disprezzo se il neo ricco, e ancor più la neo ricca, ostentavano senza pudore i simboli della nuova condizione. Sentite questa. Ca cchi sì tu, buffa, ca canti? E' u margiu ca ti tena! Come dire, è inutile che ti dai tante arie, che ostenti tanta arroganza, e sbatti in faccia a tutti la tua alterigia, perchè non è merito tuo; se fosse stato per te, sempre buffa saresti rimasta, cioè un rospo. Margiu letteralmente significa margine, confine di terreni, e, per estensione, acquitrino, pantano. Credo che la metafora non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, tanta è la carica di invidia e di odio viscerale che vi serpeggia. La risposta del tipo "non ti curar di lor ma guarda e passa", invece, veniva quasi sempre affidata ad un debole miegghiu mmidia ca pietà. Ma nella vanedda si sviluppava al massimo anche la più nobile delle virtù sociali, la solidarietà. Non c'era problema di uno che non diventasse problema di tutti. Ed era solidarietà autentica, quella del povero che si preoccupa di chi è ancora più povero. Una malattia, una disgrazia, un lutto, diventavano motivo di sincera preoccupazione per tutto il vicinato.
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PROVERBISicilianiLu lupu di mala cuscenza comu opira penza. Il lupo disonesto pensa degli altri ciò che saprebbe fare lui. Munti e munti `un s`incontranu mà. I monti non s'incontrano mai con altri monti Invece le persone prima o poi s'incontrano La pignata taliata `un vugghi mai. La pentola guardata non bolle mai Quando una cosa si aspetta non arriva mai Attacca lu sceccu dunni voli lu patruni. Lega l'asino dove vuole il padrone. Attieniti alle disposizioni di chi sta al di sopra di te Cu `un fa nenti `un sbaglia nenti. Solo chi non fa niente non commette errori Prima di parlari mastica li paroli. Prima di parlare mastica le parole. Rifletti bene sulle parole che stai dicendo Cu avi la cummirità e `un si nni servi mancu lu cunfissuri lu pò assolviri. Chi ha la possibilità di vivere bene e non la sfrutta non può essere perdonato neanche dal confessore. Di `na rosa nasci `na spina. Di `na spina nasci `na rosa. Da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa. Cu nesci arrinesci Chi si allontana dal suo ambiente viene a trovarsi in una condizione migliore. Iunciti cu lu megghiu e perdicci li spisi. Frequenta le persone migliori anche se ciò comporta qualche sacrificio. Si ad ogni cani chi abbaia ci vò tirari `na petra `un t`arrestanu vrazza. Se vuoi tirare una pietra ad ogni cane che abbaia le tue braccia non ce la faranno. Ogni cani è liuni a la sò casa. Ogni cane nelle sua casa si sente un leone. Ovu d`un`ura, pani d`un jornu e vinu d`un annu `un ficiru mai dannu. Uovo di un`ora, pane di un giorno e vino di un anno non hanno fatto mai male. Li sordi di lu `Nfinfirinfì si li mancia lu `nfinfirinfà. I soldi guadagnati in modo disonesto vengono spesi male. Servu d`autru si fa cu dici lu sigretu chi sa. Chi racconta i propri segreti si fa servo degli altri. Fa beni e scordatillu, fa mali e pensaci. Fai il bene e dimenticalo, fai il male e pensaci. Lassa lu focu ardenti e succurri la parturienti. Lascia il fuoco acceso e porta immediato soccorso a chi sta per partorire. Quannu ‘u piru è maturu cari sulu. Quando la pera é matura cade da sola. (Col passare del tempo le situazioni si chiariscono da sole.) ‘U cani muzzica sempre ‘u spardatu Il cane morde sempre il povero (I guai capitano a chi ne ha già abbastanza.) Lu rispettu è misuratu, cu lu porta l’havi purtato. Il rispetto è misurato.Chi lo porta lo riceve. Nuddu si pigghia si ‘un si assimigghia. Le persone si scelgono perchè si somigliano. Cu mancia fa muddrichi. Chi mangia fa briciole. (Chi fa qualcosa inevitabilmente commette qualche errore.) Cu fa carteddi, ‘ni fa lari e ‘ni fa beddi. Chi fa cesti ne fa brutti e ne fa belli. (Nelle cose che realizziamo non sempre raggiungiamo i migliori risultati.) Cu duna prima duna `ntimenza, cu duna doppu cu tutti li senza. Chi colpisce per primo colpisce con esitazione, chi risponde alla provocazione lo fa con tutta la sua forza. Aranci aranci, cu havi guai si li chianci. Aranci aranci, chi ha guai se li pianga da solo. A li ricchi ricchizzi, a li scarsi scarsizzi. Ai ricchi ricchezze, ai poveri povertà. La nostra casa n`abbrazza e ni vasa. La nostra casa ci abbraccia e ci bacia, ossia ci accoglie calorosamente. `Addu o senza `addu Diu fa jornu e senza lu to crivu spagghiu e cernu. Con il gallo o senza il gallo Dio fa sorgere ugualmente il sole ed io senza il tuo setaccio ugualmente pulisco il grano e lo seleziono. `Unn`è sempri chi ghioca e riri la muggheri di lu latru. Non sempre alla moglie del ladro le cose vanno bene per cui gioca e ride. Lu bonu no vali cchiù di lu tintu sì. Il no detto con grazia vale più del sì detto sgarbatamente. Du` su` i putenti, cu avi assà e cu nun avi nenti. Due sono i potenti, chi ha tanto e chi non ha niente. Chiddu chi fa p`i me denti nun fa p`i me parenti. Ciò che è utile per me non lo è per gli altri. Aceddru `nta la aggia `un canta p`amuri, ma pi raggia. Uccello in gabbia non canta per amore, ma per rabbia. Ama a cu t`ama si vo` aviri spassu, chi amari a cu nun t`ama e` tempu persu. Ama chi ti ama se vuoi trarne piacere, perche` amare chi non ti ama e` tempo perso. Li guai di la pignata li sapi la cucchiara chi li rimina. I guai della pentola li conosce solo il cucchiaio che li mescola. Quannu lu diavulu t`alliscia voli l`arma. Quando il diavolo ti adula vuole l`anima. Spenni picca e arricchirai, parla picca e `nzirtirai, mancia picca e campirai. Spendi poco e diventerai ricco, parla poco e sarà la scelta migliore,mangia poco e vivrai a lungo. Megghiu `na vota arrussiari chi centu voti aggianniari. Meglio arrossire una volta che farsi giallo di bile cento volte. Soccu ora si schifia veni lu tempu chi si addisia. Quello che adesso si disprezza un giorno sarà desiderato. Siddru lu beni nun ritorna a mali nun si chiama beni. Se il bene che facciamo non ci ritorna come male non si chiama bene. Vali cchiu` un sceccu `ntirrugannu, ca un ancilu rispunnennu. Vale di piu` un asino ad interrogare, che un angelo a rispondere. Quannu la furtuna vota ogni amicu si fa la ritirata. Quando la fortuna volta le spalle tutti gli amici si allontanano. Quannu la lingua voli parrari, divi prima a lu cori dimannari. Quando la lingua vuole parlare, deve prima chiedere al cuore. Si pri paura di corvi `un si semina linusa, nun putissimu aviri la cammisa. Se per paura dei corvi non si semina il lino, non potremmo avere la camicia Cu strigghia lu so` cavaddru `un si chiama garzuni. Chi striglia il proprio cavallo non si chiama garzone Diu fa l`abbunnanzia e li ricchi la caristia. Dio fa l'abbondanza e i ricchi la carestia Acqua, cunsigghiu e sali a cu `unn`addumanna `un ci nni dari. acqua, consiglio e sale non darne a chi non te ne chiede Aspittari e nun viniri, jiri a tavula e nun manciari, jiri a lettu e nun durmiri su` tri peni di muriri. Aspettare qualcuno che non viene, andare a tavola e non mangiare, andare a letto e non dormire sono tre pene da morire. Arvulu chi nun ciuri e nun fa frutti tagghialu di sutta a quattru botti. Albero che non fa fiori né frutti taglialo alla base senza esitazione Assai vali e pocu costa a malu parlari bona risposta. Una buona risposta a cattive parole vale molto e costa poco MODI DI DIRE Di la `Mmaculata a Santa Lucia quantu `n passu di cucciuvia. Di Santa Lucia a Natali quantu `n passu di cani. Di Natali all`annu novu quantu `n passu d`omu. Dall`Immacolata a Santa Lucia quanto un passo di allodola, da Santa Lucia a Natale quanto un passo di cane, da Natale all`anno nuovo quanto un passo d`uomo (Per dare l`idea di quanto si allunghino le giornate in dicembre) Lampi e trona, itivinni arrassu, chista é la casa di Sant`Ignaziu. Sant`Ignaziu e San Simuni, chista é la casa di nostru Signuri Lampi e tuoni, allontanatevi, questa é la casa di Sant`Ignazio. Sant`Ignazio e San Simone, questa é la casa di nostro Signore. (Formula per scongiurare il maltempo) Ficu fatta, càrimi `mmucca Fico maturo, cadimi in bocca. (Si dice di chi vorrebbe evitare anche le fatiche minime.) Essiri `na musca nta `n mmoscu Essere una mosca in un bosco. (Si dice di chi si trova in un ambiente molto vasto completamente solo.) Cu lu tuppu `un t`appi, senza tuppu t`appi. Cu lu tuppu o senza tuppu, basta chi t`appi e comu t`appi t`appi. Scioglilingua: Con i capelli raccolti sulla nuca non ti ho avuta, senza capelli raccolti sulla nuca ti ho avuta. Con i capelli raccolti o senza capelli raccolti, basta che ti abbia avuta, comunque ti abbia avuta. (Si racconta scherzosamente di un giovane, innamorato di una ragazza che portava i capelli raccolti sulla nuca. La madre della ragazza si oppose a quell`amore a la giovane per il dolore si tagliò i capelli. Allora la madre, pentita, acconsentì, per cui il giovane ebbe motivo di pronunziare le parole dette sopra) Irisinni ursu tu e ursu jè. Si dice di persone che si devono allontanare cautamente e ognuna per conto proprio, come se non si conoscessero. Cu `n pettirrussu ficimu a Natali. A mia mi tuccà lu pizzu e l`ali, a mè cumpari l`ugna di li peri. Con un pettirosso abbiamo fatto il pranzo di Natale. A me sono toccati il becco e le ali, a mio compare le unghie dei piedi. (Si dice di pranzi o cene molto poveri.) S'avissi pignateddu, ogghiu e sali mi facissi lu pani cottu, s`avissi lu pani. Se avessi il pentolino, l`olio e il sale, mi farei il pane cotto, se avessi il pane. (Si dice di chi vuole realizzare un progetto senza averne assolutamente i mezzi.) Lu rialu di la soggira a la nora, rapi la cascia e pigghia `na fava. Il regalo della suocera alla nuora, apre la cassa e prende una fava. Santa lagnusia, `un m`abbannunati chi mancu speru abbannunari a vui. Santa pigrizia, non abbandonatemi, ché anch'io spero di non abbandonare voi. (La preghiera del pigro) |
etna in eruzione da un paio di giorni l'etna a ricominciato a eruttare si sentono dei boati tremendi e stasera ce uno spettacolo in piu , le fiammate di fuoco spettacolari col buio della sera sono una cosa di veramente eccezzionale sembrano fuochi pirotecnici e si che siamo a una distanza stimata in 17-20 km e la lingua di fuoco che a incominciato a scorrere e visibile anche da questa distanza tra poco mettero delle foto (spero di riuscirle a fare )visto i scarsi mezzi tecnici di cui dispongo 23-10-2006 ore 20,52 |
Inviato da: emilytorn82
il 28/12/2016 alle 14:50
Inviato da: melina_ma
il 01/05/2011 alle 15:29
Inviato da: belladentros
il 22/12/2010 alle 17:45
Inviato da: belladentros
il 26/04/2010 alle 19:17
Inviato da: belladentros
il 16/04/2010 alle 19:10