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Messaggi del 23/10/2006

splendita rosa glitterata

Post n°624 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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non era una cosa semplice coronare un sogno d'amore

Post n°623 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

Non era cosa semplice coronare un sogno d'amore al tempo dei nostri nonni. Le donne passavano le loro giornate chiuse in casa. Facci nun vista è disiata, si insegnava alle ragazze da marito; cu beni ti vola, 'ncasa ti vena si ammonivano quelle che avessero avuto qualche smania di mettersi in mostra o, peggio, cosa inusitata e assai disdicevole, di prendere iniziative. Per due giovani che volevano fidanzarsi praticamente non esisteva nessuna possibilità di incontrarsi e istaurare un rapporto, anche solamente verbale, prima che il matrimonio venisse affermato. I primi tentativi d'approccio e di dialogo si riducevano di solito ad una serie di sguardi, fugaci e furtivi, che l'uomo cominciava con l'inviare all'indirizzo della prescelta. Quasi sempre il corteggiamento cominciava con lunghi, snervanti e soprattutto cauti appostamenti sotto la finestra o il balcone della ragazza. Gli appostamenti dovevano per forza essere cauti, perchè se il padre o i fratelli subodoravano qualcosa, non era infrequente che il temerario venisse diffidato, anche con la forza, dall'aggirarsi nei paraggi, e la poverina malmenata, in nome di un atavico diritto di proprietà che ogni maschio sentiva il dovere di esercitare sulle femmine della propria famiglia, o soltanto per difenderne l'onore, sulla cui definizione si è molto disquisito da parte degli studiosi di costume. Oppure si svolgeva la domenica mattina, durante la messa delle undici, quella cantata. Si usava che i giovanotti, a piccoli gruppi, durante la funzione, piuttosto che star seduti ad ascoltare, passeggiavano su e giù per le navate laterali della chiesa, lanciando sguardi e ammiccamenti all'indirizzo delle ragazze, che stavano sedute, quasi sempre accanto alla madre o ad una vecchia zia, nella navata centrale. Quando scorgevano quella che a loro sembrava giusta, si piazzavano in posizione strategica e lanciavano l'attacco. Uno sguardo, due, tre, in modo sempre più insistente e diretto. I più intraprendenti facevano l'occhiolino. Poi pazientemente attendevano il riscontro. Ogni giovanotto sapeva bene che una ragazza seria le prime volte non si sarebbe fatta sorprendere a restituirgli lo sguardo, per non passare per civetta. O soltanto per paura. Per cui pregava l'amico di osservarne di sottecchi le reazioni. -Chi dici, ti para ca talìa, ah?- chiedeva lo spasimante con trepidazione. -Allivoti si, ma nun sugnu sicuru- rispondeva titubante l'amico. -E tu talìa miegghiu- incalzava il poverino. Quando, dopo tante domeniche, e dopo interminabili attese per intere serate sotto un balcone che non si apriva, la ragazza, con un cenno del capo o dello sguardo, finalmente lasciava intendere che la cosa si poteva fare, allora il ragazzo si faceva più audace e il suo corteggiamento diventava più esplicito: passava sempre più frequentemente sotto il balcone e lasciava intendere che era disposto anche a sfidare l'ira del padre e dei fratelli. Quannu i dui si vuonu, i tri nun s'azzuffinu. Esistevano anche i matrimoni purtati, chiamati così perchè venivano combinati da vecchie paraninfe molto abili in queste faccende e attivissime in ogni paese, le antenate delle moderne marteflavi. Erano matrimoni basati certamente non sull'amore, che anzi spessissimo i due promessi sposi neppure si conoscevano, ma su piccole convenienze e piccoli calcoli. Iddu è unu travaddiaturi, serio, con tante proprietà, enfatizzavano le comari traffichine, facendo brillare davanti agli occhi della ragazza indecisa, e soprattutto davanti a quelli avidi dei genitori, il miraggio di un benessere che il più delle volte si rivelava poi, se non proprio inesistente, certamente inferiore a quello promesso. E idda? Lei, sempre a detta delle ruffiane, era certamente una che si poteva bere in un bicchiere d'acqua. Magari attempatella, certamente non bedda cchiassai do suli e da luna. Ma che importava? Erano pronte a giurare che era stata abituata fin da piccola ai lavori più duri, ed educata al rispetto e all'ubbidienza verso il marito. Magari era grassottella, con i fianchi sovrabbondanti. Tutta grazia di Dio, ammiccavano allora con una grassa risata carica di doppi sensi. Erano abilissime nel mettere in risalto le doti che maggiormante contavano nel povero mondo contadino di allora. E l'amore? Beh, Amuri e bruodu i chiàppiri... non si dice così? L'unica cosa che in fondo veramente conta tra due che si sposano è il rispetto reciproco. L'amore poteva sempre venire dopo; anzi, certamente sarebbe venuto, incalzavano, dall'alto della loro esperienza, le mature intermediarie. La cosa su cui erano pronte a giurare era comunque che quel matrimonio era stato deciso e preparato in Cielo. Matrimonia e viscuvati do cielu su calati, infatti. Ma per quali vie, poi, e con quali chiavi, le paraninfe accedessero ai reconditi misteri del Cielo, questo proprio non mi è stato rivelato. Personaggio importante in ogni matrimonio era u missaggieri, di solito un signore anziano, assennato, stimato e rispettato in società, possibilmente di ceto sociale superiore, che veniva incaricato dalla famiglia del giovane di fare il primo passo, come si diceva, presso il padre della ragazza. Il quale, a sua volta, cerimonioso, si dichiarava prima di tutto onoratissimo della visita di quell'ospite tanto illustre, quantu onuri nna me casa!; poi, dopo aver ripetutamente ostentato la propria sorpresa per quella richiesta tanto inattesa, chiedeva tempo per una risposta; per domandare alla figlia, diceva ipocritamente, se anche lei era disposta a sposare quel giovane, contro cui, e soprattutto contro la cui famiglia, lui non aveva niente da ridire, teneva a precisare; ma in realtà per prendere le informazioni. Se, dopo una o due settimane, la risposta era affermativa, col messaggero si metteva in chiaro anche la parte economica della faccenda. Non si stilavano contratti veri e propri, almeno non ne stilavano quelli delle classi subalterne, ma la parola data davanti a lui era impegnativa più della carta bollata. A quel punto si concordava la data per fare la ricanuscenza, che consisteva in una visita che i genitori e i parenti stretti del giovane facevano a casa della ragazza, per conoscerne i familiari. In quella cerimonia la parte centrale della scena veniva ceduta alla mamma del giovane, presso la quale la timida e impacciatissima fanciulla doveva sforzarsi di suscitare l'impressione più favorevole. Dopo questo primo incontro il fidanzato non sempre veniva ancora ammesso a frequentare con regolarità la casa della fidanzata. Per poter cominciare a farlo egli doveva attendere che si facesse u singu, il fidanzamento ufficiale, che si celebrava poche settimane dopo, giusto il tempo dei preparativi, che erano lunghi e laboriosi. Fino ad allora ai due giovani si concedeva di parlarsi dal balcone, senza più la preoccupazione di essere sorpresi. Comunque da quel momento potevano formalmente considerarsi ziti. U singu, come poi anche il matrimonio vero e proprio, che veniva celebrato quasi sempre verso la fine dell'estate successiva, nel mese di settembre, quando diminuivano i lavori nei campi, era una cerimonia corale. Per diversi giorni prima, infatti, tutti i parenti da zita partecipavano indaffaratissimi alla preparazione dei dolci per il trattenimento, mentre i parenti do zitu si occupavano di acquistare l'oru do singu. Spessissimo tra le due famiglie si istaurava una sorta di tacita gara per prevalere sull'altra, una gara che quasi sempre risultava assai patetica, in quanto ciascuna di esse si sforzava di ostentare un'agiatezza che di fatto non aveva, o vantava parentele altolocate, che quasi sempre poi, si riducevano a qualche oscuro travet della pubblica amministrazione o ad un militare di bassissimo grado e rango. La sera del fidanzamento, in mezzo ai cori sempre più lunghi di oh!!! delle comari, la futura suocera, con sussiego e studiata lentezza, appendeva l'oru alla fidanzata, rossa in volto comu a paparina. I commenti d'ammirazione si sprecavano. A pararu comu a Sant'Aita, dicevano i suoi parenti, per lasciare intendere che i regali erano stati graditi, che la famiglia dello sposo non si era risparmiata e aveva fatto tutte le cose per bene, com'era giusto. Un buon trattamento veniva giudicato dal numero e dall'abbondanza delle passate, dalla quantità di dolci, cioè, che alcuni giovanotti, naturalmente quelli più brillanti e di cumacca tra i parenti della fidanzata, già alticci di prima sera, facevano passare tra gli invitati, in un grande tabarè. In mezzo a un gran vociare di bambini, vassoi stracolmi di cassateddi, 'nfasciatieddi, nocatuli e amaretti, passavano davanti alle infinite mani stese degli invitati, seduti stretti stretti, uno accanto all'altro, nei sedili di fortuna che si ricavavano appoggiando a due sedie le tavole dei letti, disfatti per l'occasione. E tra una passata e l'altra venivano offerti bicchierini di un non meglio identificato rosoliu, un liquore fatto in casa con alcool e zucchero, ai quali venivano aggiunti essenze e coloranti diversi, i patriottici bianco, rosso e verde per lo più, per dare l'impressione che si trattasse di liquori sempre diversi. Ma, per quanto mi ricordo, il sapore mi sembrava sempre lo stesso. Quelli che se lo potevano permettere chiamavano un'orchestrina, composta da musicanti raccogliticci, perdigiorno senza nè arte nè parte, i quali, dietro compenso di un pasto o solo di una buona bevuta, riuscivano a mettere insieme un repertorio di vecchie canzoni. -Vossa muzzica, cummà! -Vossa muzzica, cumpà! Al rito da muzzicata non si poteva sfuggire, se non si voleva dare l'impressione di essere schizzinosi, cca nasca additta. Nulla poteva nuocere di più ai buoni rapporti che con il matrimonio si istauravano tra due parentele, che il mostrare di sentirsi superiori, di schifiàrisi del compare o della comare. Seduti per la prima volta uno accanto all'altra, al centro di un'attenzione che avrebbero volentieri schivato, i due ziti, confusi e inebetiti, finalmente si tenevano per mano; e mentre il vocìo, col passare del tempo e delle passate di rosolio, diventava concitazione e frastuono, essi timidamente cercavano di ascoltare le segrete emozioni del cuore, che non riuscivano, e forse mai sarebbero riuscite, a diventare parole. Il matrimonio, soprattutto tra le famiglie contadine, di solito, come dicevo, si celebrava verso la fine dell'estate. Qualcuno in primavera, ad aprile. Mai a maggio, a zita maiulina nun si oda a vistina. Quasi sempre di sabato, di sabitu a Madonna ci proia l'abitu. Mai di lunedì, di luni si nni va a ruzzuluni. I parenti dello sposo aspettavano in chiesa; la sposa, in abito bianco, arrivava dopo, in braccio al padre e seguita dal numeroso corteo dei suoi parenti. I balconi e le finestre che si affacciavano sulle strette viuzze dove passava il corteo venivano addobbate con le coltri e i lenzuoli ricamati, come per la processione del Corpus Domini. Alla fine della cerimonia in chiesa, un corteo ancor più numeroso tornava nella casa della sposa per il trattenimento, che era in tutto simile a quello del fidanzamento. C'era una cosa, ai tempi della mia infanzia, che più viva mi torna alla mente, soprattutto per il gran senso di tristezza che mi metteva dentro già allora; ed anche ora che ne scrivo provo uno strana ed accorata malinconia. La guerra era finita da poco e fame in giro ce n'era tanta. Ricordo che c'era sempre un gran nugolo di ragazzini malvestiti che seguiva da presso ogni corteo nuziale e che poi si assiepava vociante all'uscio della casa della sposa; e ricordo che qualcuno da un balcone, dopo che tutti gli invitati erano entrati in casa, buttava loro dei confetti e delle monetine. Immagino che fosse un gesto per augurare ricchezza e benessere ai nuovi sposi. Ma a me quei bambini ai quali si buttavano delle monetine facevano una gran pena. Non si usava che gli sposi andassero in viaggio di nozze. A tarda sera, finiti i festeggiamenti, i parenti più prossimi li accompagnavano nella nuova casa. Verso mezzanotte gli amici più intimi gli portavano la serenata sotto casa. Poi, per tutta la settimana che seguiva, gli sposi, ma soprattutto la sposa, non uscivano di casa. Solo all'otti jorna, all'ottavo giorno, gli sposi, lui col vestito del matrimonio e lei con quello appunto di l'otti jorna, abitino di seta e spolverino nero, andavano a fare visita a tutto il parentado. Mentalità e cultura, usanze e tradizioni, credenze e superstizioni, tutto concorreva a conferire ai comportamenti legati al matrimonio una sorta di sacralità, una ritualità fatta di innumerevoli regole non scritte, ma non per questo meno ferree e vincolanti, difficilmente riscontrabili in altre circostanze della vita. Ogni matrimonio finiva per coinvolgere praticamente l'intero parentado dei due fidanzati; ognuna delle due famiglie vi spendeva la propria immagine pubblica, il proprio peso economico, il proprio onore.



  • Matrimonia e viscuvati do cielu su calati.
  • Nun si pìgghinu se nun s'arrisimìgghinu.
  • Cu si marita nno quartieri viva nno bicchieri.
  • Quannu ta maritari a matri a taliàri.
  • Cu nascia bedda nascia maritata.
  • Dui bieddi nno 'ncuscinu 'un puonu dormiri.
  • Cu avi a muggheri bedda sempri canta, cu avi dinari picca sempri cunta.
  • Fimmina cucinera pigghitìlla ppì muggheri.
  • Muggheri sapienti, a tavula nun truovi nenti.
  • Biddizzi a tavula nun si nni mettinu.
  • Cu si marita sta cuntentu un juornu, cu ammazza un puorcu sta cuntentu un annu. Di luni si nni và a ruzzuluni.
  • Di marti nè si spusa nè si parta.
  • Di sabitu a Madonna ti pròia l'abitu.
  • A zita maiulina nun si oda a vistina.
  • All'annu maritatu, o malatu o carzaratu.
  • Amaru cu si marita: si nni va 'ngalera a vita.
  • Amaru cu si fa supraniàri, lustru di paradisu nu nni vida.
  • Nun si loda a jurnata se nun scura, nè si loda a muggheri se nun mora.
  • A cu puozzu e a cu nun puozzu, a me muggheri sempri a puozzu.
  • Cientu addi a carriari e na addina a scaliari...
  • Amaru u puddaru unni canta a addina.
  • Unni a addina canta e u addu taci, chidda è casa ca nun c'è paci.
  • Paci intra e guerra fori.
  • I parienti do maritu su amari comu acitu, i parienti da muggheri su duci comu o meli.
  • I scarpi stritti su comu e parienti: cchiù stritti stanu e cchiù mali fanu.
  • Sògiri e nori ittàtili fori!
  • 'Nnall'anta 'a paranta amaru cu i ita ci chianta.
  • Canuscia l'uomo to cco vierzu so.
  • Ogni lignu avi u so fumu.
  • Addu d'aruoi è trìulu di casa.
  • Figghi nichi peni nichi, figghi ranni peni ranni.
  • 'Nzocchi simini arricuogghi.
  • Tali patri tali figghiu.
  • Da rosa nascia a spina e da spina nascia a rosa.
  • U lignu s'addizza quannu è virdi.
  • Puorcu e figghiuolu comu u nsigni u truovi.
  • 'Nzocchi fa a matri o cufularu fa a figghia o fumazzaru.
  • A mamma è l'arma, cu ha perda nun a uadagna.
  • I figghi de atti acchiappinu surgi.
  • Figghia nna fascia e tila nna cascia.
  • Ogni figghiu scavarieddu a so ma ci para bieddu.
  • Se ti nascia un figghiu bufulutu, ammazzilu e vattinni carzaratu.
  • Un patri a cientu figghi ci duna a mangiari, ma cientu figghi o 'mpatri no.
  • L'arbulu pecca e a rama arriciva.
  • A corda ruppa ruppa, a sgruppa cu nun ci curpa.
  • Niputi cuorpi di cuti.
  • Nun c'è matrimuoniu senza chiantu e nun c'è funerali senza risu.

 
 
 

razziuneddi ovverro preghierine siciliane

Post n°622 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

Ccu Gesu mi curcu, ccu Gesu mi staiu...
ovvero
Devozioni, raziuneddi e giaculatorie.

Col termine raziuneddi, letteralmente preghierine, si indicavano tutte le preghiere, dalle devozioni quotidiane che ogni buon cristiano recitava la mattina al risveglio e la sera prima d'addormentarsi, alle invocazioni per cercare aiuto e conforto nelle circostanze difficili della vita. C'erano raziuneddi per tutto: per propiziarsi la salvezza dell'anima (sembra, a giudicare dalle numerose raziuneddi arrivate sino a noi, che i nostri antenati fossero letteralmente ossessionati dalla paura di morire improvvisamente nel sonno e di non trovarsi in grazia di Dio) e per scongiurare le tentazioni del maligno; per chiedere un buon raccolto e per invocare la pioggia, che non arrivava quasi mai quando ci voleva. Si tramandavano oralmente: le nonne e le madri le insegnavano ai più piccini. In ogni famiglia solitamente erano le donne le più pie; erano loro che con più fede si rivolgevano a Dio per chiedere di tutto. Il tutto dei poveri, si capisce, la salute e il necessario. E c'erano raziuneddi un pò più "speciali"; come quando, per esempio, bisognava invocare la guarigione da una strana malattia o cirmari i vermi al bambino febbricitante; quando bisognava massaggiare una sfilatura o si voleva allontanare dalla casa il malocchio. Il malocchio soprattutto, che, tra i mali temuti, era forse quello che più faceva paura. Chi era persuaso di esserne rimasto vittima, infatti, finiva quasi sempre per ammalarsi veramente, non solo, ma poi addossava la responsabilità dei suoi guai al proprio nemico, o a qualche incolpevole poveraccio, che nessun'altra colpa aveva se non quella di esser considerato, forse soltanto a causa di un aspetto non proprio ridanciano, un menagramo, ittaturi e cuccu, come si diceva. L'influenza del malocchio risultava tanto più malefica, in quanto al male reale si aggiungeva una carica di odio e di sospetti che finiva per provocare altro odio e spesso ingiustificate vendette. Una strana malattia, una caduta rovinosa, una figlia da marito che non riusciva a trovare uno straccio di pretendente, persino una sposina che non riusciva ad avere un figlio; o anche soltanto un geranio che senza una ragione all'improvviso appassiva, un banale mal di testa, un animale che si ammalava, erano tutte disgrazie che quasi sempre venivano imputate all'ucchiatura di un vicino malvagio o di un amico invidioso. Solo pochi, soprattutto anziani, meglio se nasciuti di vènniri, conoscevano e potevano recitare questo tipo di raziuneddi, veri e propri scongiuri che appartenevano, come si può ben capire, più alla sfera della magia che a quella della religione. Ma chi può con assoluta certezza delimitare e riconoscere, nelle pratiche religiose popolari, il discrimine tra religione e superstizione, tra rito sacro e magia? E c'erano poi le preghiere liturgiche, quelle che accompagnavano i riti delle principali solennità religiose dell'anno, come Natale e Pasqua, per esempio. Ricordo che a Natale la novena si faceva di mattina prestissimo. Ci alzavamo che ancora albeggiava. Dalle piccole case abbracciate le une alle altre e illuminate debolmente dall'incerta luce dei lumi a petrolio o dalle prime lampadine elettriche accese con parsimonia, sciamavano i piccoli gruppi sonnolenti, le donne col fazzulittuni nero in testa e i bambini coi miseri cappottucci striminziti, per recarsi in chiesa. Nelle orecchie, assordate e sopraffatte da mille rumori e incapaci ormai di percepire il silenzio, a malapena la nostalgia riesce a restituirmi le note delle tante nenie che allegravano le lontane novene mattutine della mia infanzia. Cantamu e ludamu lu viva cantamu cantamu e ludamu lu viva Gesù... E come ci brillavano gli occhi quando, durante la messa di mezzanotte, nella chiesa gremita, in mezzo ad una profumata nuvola d'incenso, cadeva finalmente il velo, oltre il quale senza risposta si erano spinte le nostre ingenue domande e le nostre fantasiose supposizioni, ed ai nostri occhi innocenti appariva, come una grande speranza, il meraviglioso sorriso di un Bamminièddu ricciuto! Oggi del natale si è impadronita la nuova civiltà bottegaia, che solo per abitudine o per calcolo continua ancora a definirsi cristiana. E semmai un bel bambino ricciuto appare ancora ad allietare i nostri natali, è soltanto un bambino che alla televisione fa la pubblicità ad un panettone. Non meno belli e suggestivi erano i riti della Settimana Santa. Dalla Domenica delle Palme al giorno di Pasqua il paese si animava. Vuoi per quel continuo via vai di fratelli dai costumi colorati per le strade, vuoi per la grande quantità di gente che affollava le numerose chiese (tra grandi e piccole ad Agira se ne contavano almeno una trentina nei primi decenni di questo secolo); un pò per quel diffuso profumo di cassateddi appena sfornate, e un pò forse anche per i primi tepori della primavera che finalmente tornava, fatto sta che per tutto il paese si respirava un'aria di grande festa. Era comunque nella solenne e toccante processione del Cristo Morto, la sera del Venerdì Santo, che i riti religiosi raggiungevano il loro culmine massimo. Praticamente vi partecipava tutto il paese. In un clima di compunta compostezza e di silenzio lunare, la lunghissima processione si snodava dal Salvatore fino al Calvario. Davanti le confraternite. Fino a prima della guerra se ne contavano più di una decina, dai nomi che evocano un medioevo da noi mai completamente finito: a Madonna 'e l'Autu, a Cuncizioni, i Rusarianti, Santu Roccu, San 'Micienzi, a Morti, San 'Mrasi, San Giuanni, u Priatoriu, u Nomu i Gesu... Sfilavano secondo un ordine sancito da un protocollo vecchio di secoli e rigoroso, la cosiddetta vitiddina; davanti quelle di più recente costituzione, dietro le più antiche. Si racconta che quando u Tammulettu era ancora davanti alla vecchia caserma dei carabinieri, i primi fratelli avevano già fatto il giro attorno alle croci del calvario! Ogni tanto, nel silenzio mestissimo, rotto solo dal rullìo funereo di un tamburo, o dal suono legnoso delle truòcculi che si facevano l'un l'altra eco in mezzo alla folla strabocchevole, si sentiva una voce che a passa parola arrivava fino alla testa del serpentone di torce a vento e che perentoriamente intimava: Ferma! Trentatre fermate si facevano, quanti erano stati gli anni di vita del Signore. Un breve attimo di sosta e poi di nuovo la stessa voce comandava: Avanzuliàmu fratelli! E il corteo ripartiva. Agli angoli delle strade capannelli di giovani, al passaggio del Tammulettu e dell'Addolorata, intonavano u popula meu... In questa raccolta ho voluto trascrivere soltanto raziuneddi di devozione e di fede. Preghiere semplici, le preghiere degli umili, testimonianza di una religione che conforta, aiuta, dà speranza nel bisogno, risolve piccoli problemi quotidiani. Il destinatario è uno potente, ma non come certi potenti di questo mondo, come i padroni delle terre, per esempio, superbi, arroganti e irragiungibili, che si facevano dire voscènza sabanadìca e alla fine di un anno di lavoro durissimo nelle loro terre ti rimandavano a casa con le pezze nel culo, cca pala e u tridenti, come si diceva. No, no. Lui è uno vicino, un amico, uno al quale si dà del tu, uno al quale si può chiedere tutto. Praticamente l'unico potente che sta dichiaratamente dalla parte dei poveri. Almeno così da sempre hanno creduto i poveri. Sono le preghiere di mia madre, di mia nonna, e di chissà quante altre madri e altre nonne. Sono le preghiere che hanno accompagnato tante delle interminabili serate d'inverno della mia infanzia, quando, assieme alla carbonella nel braciere, si spegnevano i miei occhi e la mia testa ciondolava pericolosamente ora da un lato ora dall'altro, appesantita dal sonno irrefrenabile. Finchè si spegnevano anche le ultime invocazioni della litania alla Madonna. Allora mia madre mi accompagnava a letto, prendeva la mia mano tra le sue e mi aiutava a fare il segno della croce. Ccu Gesu mi curcu, ccu Gesu mi staiu, siennu ccu Gesu paura nun aiu...



    • Iu mi curcu nni stu liettu
      ccu Maria supra lu piettu.
      Iu duormu e Idda vigghia,
      si c'è cosa m'arrisbigghia.
      Ccu Gesu mi curcu,
      ccu Gesu mi staiu,
      siennu ccu Gesu paura nun aiu.
      Iu stasira mi curcu sula,
      m'accumpagna a Bedda Signura;
      mi 'ncucciuna cco so mantu,
      Patri, Figghiu e Spiritu Santu.
      U cuorpu dorma, l'arma vigghia,
      scinna l'angilu e si la pigghia.
      Ora chiuiu la porta mia
      ccu lu mantu di Maria;
      intra a porta e fori a rocca
      nun c'è nuddu ca mi tocca.
    • Quannu mi curcu mi fazzu la cruci
      chiamannu a lu Signuri a forti vuci;
      appò mi vuotu cco figghiu di Maria
      e sia raccumannata l'arma mia.
      Tuttu lu munnu di piccati avissa,
      cca Vergini Maria mi cunfissassa,
      l'angilu a lu capizzu mi starrissa
      ca l'arma a Gesù Cristu la purtassa.
      Cusà di cca a n'autra ura iu murissa,
      corchi piccatu mill'a riurdari:
      a scutta fazzu di li me piccati,
      mmiatissimu e santu me Signuri.
      Pigghiti st'arma mia mentri trapassu,
      e scaccia lu nimicu Satanassu.
      E siddu vena mentri ca trapassu
      Gesù lu fa scacciari di lu cielu:
      Vattinni di diccà, luntanu arrasu!
    • Iu mi curcu. Mi curcai
      e quattru cosi addumannai:
      cunfissioni, cuminioni,
      striminzioni e uogghiu santu.
      Patri, Figghiu e Spiritu Santu.
      Nnì stu liettu mi curcai
      quattru angili attruvai:
      dui da testa, dui de piedi,
      e nno mienzu u Signuri Diu.
      Iddu mi dissa, Iddu mi scrissa
      ca la cruci mi facissa.
      Iu mi curcu ppì durmiri,
      ma nna notti puozzu muriri.
      Se nun truovu u cunfissuri,
      pirdunatimi, Signuri.
      Bedda Matri di la Razia
      cunciditimi sta razia.
      Ppì li quinnici razioni
      ca liggistivu nna passioni,
      ppì li quinnici scaluna
      c'acchianastivu a dda ura,
      ppì lu Figghiu c'aviti 'mmrazza
      cunciditimi sta razia.
      O Bedda Matri vi viegnu a priari
      ca vuorru figghiu stu tiempu 'a carmari.
      Mòriri vuogghiu com'e cristiani,
      ccu l'ordini do Santu Saramentu.
      O Madunnuzza di Munti Sirratu
      a tutti banni atu firriàtu,
      ma nni sta casa nun cciatu vinutu.
      Viniticci ora e datimi aiutu.
      Santa Cruci biniditta di cu fustivu adurata?
      Di Giuànni e Mandalena e da matri Addulurata.
      Idda prea lu so figghiu
      ppi mannari a bona annata.
      A bona annata fu mannata.
      Oh, Cuncetta 'Mmaculata!
      O Santissimu Cce Homu
      quant'è bieddu u vuostru nomu,
      ppà curuna c'aviti 'ntesta
      carmati sta timpesta.
      Arma mia statti avirtenti
      ca ppi tia muriu Gesù.
      Sutt'o pizzu d'Alivedda
      c'è u diavulu 'ntantaturi:
      quant'è ladia a so fiùra
      fa scantari ogni criatùra.
      Ma tu, chi ci dirrai?
      Bruttu diavulu, vattinni di ccà,
      tu ccu mia nun cciai chi fà,
      pirchi o juornu i Santa Cruci
      dissi milli voti Gesù, Gesù, Gesù...
    • Quannu caminu 'ncielu talìu:
      miegghiu muriri c'affenniri a Diu!
      Patriarca San Giuseppi
      i vuorri razi sunu setti:
      avanti c'agghiorna e scura
      facitiminni una.
      Patriarca San Giuseppi affurtunatu,
      patri di Gesu e spusu di Maria,
      di tutti i santi siti accumpagnatu.
      De razi vuostri una nni vurria:
      viniti o liettu quannu su malatu,
      quannu curtu mi nescia lu me sciatu,
      Gesuzzu vena, Giuseppi e Maria.
      Prutitturi san Fulippu, siti santu mmiraculusu:
      sta jurnata n'a passari ca m'aviti a cunsulari.
      San Fulippu, San Fulippu,
      cuorpu santu e binidittu,
      chista casa è muntuvata,
      nun ci pò lu mmalidittu.
      Dintr'a casa e ppì la via
      c'è la Vergini Maria.
      San Fulippuzzu chiuviti chiuviti,
      ch'e lavuredda sù muorti di siti.
    • -Armuzzi biniditti unn'è ca siti?
    • -Unn'è ca vola la Divinitati.
    • -Faciti i cosi giusti e ci viniti, viniti a diri unn'è ca v'attruvati.
    • Santa Barbaredda e Santu Cuonu, scanzatini di lampu e truonu.
    • Rusalia supra lu munti ca cuntava i belli cunti. U dimuoniu ci dicìa: "và marìtiti, Rusalia!" "Sugnu bedda maritata, ccu Gesù sugnu spusata; e la parma e la curuna c'è Gesuzzu ca ma duna!"
    • Sutta un pedi di nucidda c'è na naca picciridda; si cciannaca lu bamminu, san Giuseppi e San Jachinu.
    • Lu canuzzu fa babbàu, l'acidduzzu fa cicìu: bellu dormiri ca fa Diu!
    • Bamminieddu abballa abballa ca lu chianu è tuttu u tò; unni posa u to piduzzu, nascia menta e vasilicò.
    • O Bamminieddu di Cartanissetta, ca tuttu u juornu faciti quazetta, facitiminni un paru a mia ca vi dicu na vimmarìa.
    • O Bamminieddu di Cartagiruni, ca tuttu u juornu faciti turruni, datiminni un piezzu a mia ca vi dicu na vimmarìa.
    • Ludatu sempri sia, lu nomu di Gesù, di Giuseppi e di Maria.
    • I Misteri del Rosario Misteri Gaudiosi
    • - Diu ti manna l'ambasciata ca di l'angilu è purtata: di lu figghiu di Diu Patri già, Maria, sì fatta matri. O gran Vergini Maria mi cunsuolu assai ccu tia.
    • - Tu ti 'nnisti ccu gran fretta 'ncasa 'e Santa Elisabetta. San Giuanni n'era natu e fu ppi tia santificatu. O gran Vergini Maria mi cunsuolu assai ccu tia.
    • - 'Nni n'affritta mangiatura parturisti, o Ran Signura, a Gesuzzu binidittu, 'mmienzu 'o voi e u sciccarièddu. O gran Vergini Maria mi cunsuolu assai ccu tia.
    • - Comu all'autri fimmineddi, piccatrici e puvurieddi, nni la chiesa tu t'innisti e lu figghiu a Diu cci offristi. O gran Vergini Maria mi cunsuolu assai ccu tia.
    • - A Gesuzzu tu pirdisti: u circasti e u ritruvasti ca 'nsignava la dottrina ccu sapiènzia divina. O gran Vergini Maria mi cunsuolu assai ccu tia. Misteri Dolorosi
    • - Gesù all'uortu si dispona pp'iri a fari l'orazioni; e pinsannu a lu piccatu, sangu veru Diu ha sudatu! O gran Vergini Maria a to pena è ancora a mia.
    • - A Gesuzzu su pigghiaru, u spugghiaru e u ttaccaru. Appa tanti vastunati e i so carni fragillati. O gran Vergini Maria a to pena è ancora a mia.
    • - Fu ppì juocu 'ncurunatu, e ccu na canna sbriugnatu. Chi duluri 'ntesta prova: fuoru spini com'e chiova! O gran Vergini Maria a to pena è ancora a mia.
    • - A muriri è cunnannatu comu 'on latru scialaratu. A so cruci 'ncuoddu porta, nuddu c'è ca lu cunforta. O gran Vergini Maria a to pena è ancora a mia.
    • - Alla vista di so Matri Crucifissu ccu dù latri, mora a forza di dulura u me caru Redenturi. O gran Vergini Maria a to pena è ancora a mia. Misteri Gloriosi - Cristu già risuscitau di la morti triunfau. Comu un re già triunfanti scarzarau li Patri Santi. O gran Vergini Maria mi rallegru assai ccu tia.
    • - E duoppu quaranta jorna Gesù Cristu 'ncielu torna. E Maria cche sò amici si l'abbrazza e binidici. O gran Vergini Maria mi rallegru assai ccu tia.
    • - Deci jorna già passaru ca l'Apustuli priaru. Maria 'nterra si trattinna fina co Spiritu Santu vinna. O gran Vergini Maria mi rallegru assai ccu tia.
    • - Vinna l'ura di partiri e Maria 'ncielu iu a gudiri. O chi bedda sorti fu ìrisi a godiri a Gesù! O gran Vergini Maria mi rallegru assai ccu tia.
    • - Maria 'ncielu triunfau ccu arma e cuorpu 'ncielu annàu. 'Ncurunata fu Rigina di la Trinità Divina. O gran Vergini Maria mi rallegru assai ccu tia.
 
 
 

attimi di vita quotidiana nelle " vanedde" siciliane

Post n°621 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

Il vicinato aveva un'enorme importanza. Le case spessissimo erano molto piccole, addossate le une alle altre. Era pressocchè impossibile riuscire a proteggersi dalla curiosità dei vicini, garantirsi un minimo di privacy. Prima o poi, anche i fatti più personali e privati di ognuno finivano nel calderone delle chiacchiere della vanedda, vero centro della vita quotidiana. Se i rapporti erano buoni, allora erano ancora più intimi che tra i parenti. Simu miegghi de parienti, si usava dire, infatti. Ci si scambiava e ci si imprestava tutto, da ugghia 'nsinu o itali. Ma se erano cattivi, la vita poteva diventare veramente un inferno. Cu avi a mala vicina, avi a mala sira e a mala matina. Si diceva i mura nun anu aricchi e sentinu oppure di tutti ti pò ammucciari, da to vicina no, ed era vero. La vanedda era un microcosmo dove confluivano i problemi di tutti. Nella vanedda si creavano alleanze e rivalità, nascevano gelosie per un nonnulla e si fomentavano rancori, spesso causati più dall'insofferenza per la quotidiana convivenza che da un torto subito. La vanedda era il regno della maldicenza. In un baleno una notizia, amplificata, spesso stravolta, faceva il giro delle orecchie e delle bocche di tutte le comari. C'erano comari all'arte per queste cose, protagoniste ante litteram delle moderne telenovelas. Con la più futile delle scuse, entravano e uscivano da tutte le case del vicinato per portare e prendere l'ultima notizia. Erano capaci d'imbastire storie infinite sui rapporti quotidiani di suocere prepotenti e di nuore linguacciute; si trovavano in mezzo, apparentemente col ruolo di paciere, ma in realtà per fomentarle, a tutte le storie di sgarbi e di ripicche, di malocchi e di maarìe; di ogni nuovo zitaggiu e di ogni matrimonio conoscevano anche i minimi dettagli; chissà come e chissà perchè, si trovavano sempre ad avere una parte nelle liti furibonde che scoppiavano tra parenti quando c'era da spartirsi un'eredità di quattro stracci... -Mi raccomando, però- concludevano ogni volta, con un piede fuori e uno ancora dentro la porta- guarda che questa cosa la sai solo tu; non farne parola con nessuno, per carità; se proprio si deve sapere, non voglio che si sappia giusto da me...- E intanto già bussavano alla porta accanto. I telefoni ancora non c'erano... Come si dice? I cani l'ossa d'intra i portinu fori. Guai, in un contesto così rigidamente chiuso e rigorosamente "controllato", a tentare di uscire dal gruppo e cercare di fare un passo più avanti degli altri. Si finiva inevitabilmente nel terribile tritatutto della maldicenza più cattiva, del sarcasmo più astioso, del sospetto. Come accade anche oggi, d'altronde. Il mondo è sempre identico a se stesso. Qualcuno si mostrava più riservato e non dava eccessiva confidenza ai vicini? Ebbene, diventava uno ca s'innavia acchianatu supra o castieddu da munnizza, oppure gli si faceva capire che ccà tutti ccò 'ncrivu cirnimu. Un miglioramento delle condizioni di vita, un piccolo arricchimento, erano sempre accompagnati dal sospetto. Tu nun fili, nun cusi e nu 'ncanni, d'unni ti vinna stu gghiòmmiru ranni? Qualcuno nicchiava quando doveva saldare i suoi debiti? Al suo passaggio il creditore, il più delle volte un povero artigiano costretto a pazientare all'infinito per vedersi saldato un lavoro, non perdeva l'occasione per mettere alla gogna il debitore canticchiandogli dietro sommessamente, ma non tanto che gli altri non sentissero, cu a tingiri, cu a tingiri, ca passa u tingituri... Un malu paatùri, infatti, con un gioco di parole, veniva paragonato sarcasticamente ad un imbianchino, tingituri appunto, uno che cancella i suoi debiti con un colpo di pennello... e molta faccia tosta. Ma il verbo tingiri si usava, e si usa ancora oggi, anche per indicare il dolore che procura un colpo di verga o uno schiaffo. Le metafore, poi, si caricavano di autentico disprezzo se il neo ricco, e ancor più la neo ricca, ostentavano senza pudore i simboli della nuova condizione. Sentite questa. Ca cchi sì tu, buffa, ca canti? E' u margiu ca ti tena! Come dire, è inutile che ti dai tante arie, che ostenti tanta arroganza, e sbatti in faccia a tutti la tua alterigia, perchè non è merito tuo; se fosse stato per te, sempre buffa saresti rimasta, cioè un rospo. Margiu letteralmente significa margine, confine di terreni, e, per estensione, acquitrino, pantano. Credo che la metafora non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni, tanta è la carica di invidia e di odio viscerale che vi serpeggia. La risposta del tipo "non ti curar di lor ma guarda e passa", invece, veniva quasi sempre affidata ad un debole miegghiu mmidia ca pietà. Ma nella vanedda si sviluppava al massimo anche la più nobile delle virtù sociali, la solidarietà. Non c'era problema di uno che non diventasse problema di tutti. Ed era solidarietà autentica, quella del povero che si preoccupa di chi è ancora più povero. Una malattia, una disgrazia, un lutto, diventavano motivo di sincera preoccupazione per tutto il vicinato.



  • A lingua nun avi uossu, ma rumpa l'ossa.
  • Uomini all'antu e fimmini o suli, scansatininni Signuri!
  • Di chiddu ca vidi, picca nni cridi; di chiddu ca sienti, nun cridiri nenti.
  • I mura nun anu aricchi e sentinu.
  • Cu avi a mala vicina, avi a mala sira e a mala matina.
  • Diu mi nni scansa do malu vicinu.
  • Di tutti ti pò ammucciari, da to vicina no.
  • Olà olà, nun fari cosa o munnu ca si sà.
  • Ammuccia ammuccia ca tuttu para.
  • Cu mmurmurìa si và ccunfessa.
  • A vucca ca nun parràu megghia s'asciàu (oppure s'attruvau).
  • A megghia risposta è chidda ca nun si duna.
  • U silenziu è d'oru e a parola è d'argentu.
  • U abbu arriva e a stima no.
  • Cu abbu si vola fari, primu o duoppu ccià cascari.
  • Picciuotti 'un vi faciti meravigghia, cu abbu si nni fa, prestu ccia 'ngagghia.
  • Cu si fa abbu ci cada u labbru.
  • 'Astimi su di canigghia: cu i etta si pigghia.
  • A parola s'abbìa 'nna chiazza, cu arriva s'abbrazza.
  • A vistina ca nun ciancia pezza è cchiù caiorda cu a rripezza.
  • U putiaru 'nzocchi avi vannìa.
  • Miegghiu mmidia ca pietà.
  • Cu disìa u mali all'autri, u so è darrieri a porta.
  • Cu và co 'ngannu ciappizza 'affannu.
  • Sarba a pezza ppò purtusu.
  • L'azioni è di cu a fa, no di cu a riciva.
  • Cu s'avanta cca so vucca, nun è merra e mancu cucca.
  • 'Acieddu ca canta nna argia, o canta ppì mmidia o canta ppì rraggia.
  • Quannu a urpi nun arriva a racina, dicia ch'è aura.
  • 'O cavaddu lastimiàtu ci lùcia u pilu.

 
 
 

tantissimi proverbi siciliani con traduzione in italiano

Post n°620 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

  PROVERBISicilianiLu lupu di mala cuscenza comu opira penza. Il lupo disonesto pensa degli altri ciò che saprebbe fare lui.   Munti e munti `un s`incontranu mà. I monti non s'incontrano mai con altri monti Invece le persone prima o poi s'incontrano

La pignata taliata `un vugghi mai.
La pentola guardata non bolle mai Quando una cosa si aspetta non arriva mai   Attacca lu sceccu dunni voli lu patruni. Lega l'asino dove vuole il padrone. Attieniti alle disposizioni di chi sta al di sopra di te

Cu `un fa nenti `un sbaglia nenti.
Solo chi non fa niente non commette errori   Prima di parlari mastica li paroli. Prima di parlare mastica le parole. Rifletti bene sulle parole che stai dicendo

Cu avi la cummirità e `un si nni servi mancu lu cunfissuri lu pò assolviri.
Chi ha la possibilità di vivere bene e non la sfrutta non può essere perdonato neanche dal confessore.

Di `na rosa nasci `na spina. Di `na spina nasci `na rosa.
Da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa.

Cu nesci arrinesci
Chi si allontana dal suo ambiente viene a trovarsi in una condizione migliore.

Iunciti cu lu megghiu e perdicci li spisi.
Frequenta le persone migliori anche se ciò comporta qualche sacrificio.

Si ad ogni cani chi abbaia ci vò tirari `na petra `un t`arrestanu vrazza.
Se vuoi tirare una pietra ad ogni cane che abbaia le tue braccia non ce la faranno.

Ogni cani è liuni a la sò casa.
Ogni cane nelle sua casa si sente un leone.

Ovu d`un`ura, pani d`un jornu e vinu d`un annu `un ficiru mai dannu.
Uovo di un`ora, pane di un giorno e vino di un anno non hanno fatto mai male.

Li sordi di lu `Nfinfirinfì si li mancia lu `nfinfirinfà.
I soldi guadagnati in modo disonesto vengono spesi male.

Servu d`autru si fa cu dici lu sigretu chi sa.
Chi racconta i propri segreti si fa servo degli altri.

Fa beni e scordatillu, fa mali e pensaci.
Fai il bene e dimenticalo, fai il male e pensaci.

Lassa lu focu ardenti e succurri la parturienti.
Lascia il fuoco acceso e porta immediato soccorso a chi sta per partorire.

Quannu ‘u piru è maturu cari sulu.
Quando la pera é matura cade da sola.
(Col passare del tempo le situazioni si chiariscono da sole.)
U cani muzzica sempre ‘u spardatu Il cane morde sempre il povero
(
I guai capitano a chi ne ha già abbastanza.)

Lu rispettu è misuratu, cu lu porta l’havi purtato.
Il rispetto è misurato.Chi lo porta lo riceve.

Nuddu si pigghia si ‘un si assimigghia.
Le persone si scelgono perchè si somigliano.   Cu mancia fa muddrichi. Chi mangia fa briciole.
(Chi fa qualcosa inevitabilmente commette qualche errore.)

Cu fa carteddi, ‘ni fa lari e ‘ni fa beddi.
Chi fa cesti ne fa brutti e ne fa belli. (Nelle cose che realizziamo non sempre raggiungiamo i migliori risultati.)   Cu duna prima duna `ntimenza, cu duna doppu cu tutti li senza. Chi colpisce per primo colpisce con esitazione, chi risponde alla provocazione lo fa con tutta la sua forza.

Aranci aranci, cu havi guai si li chianci.
Aranci aranci, chi ha guai se li pianga da solo.

A li ricchi ricchizzi, a li scarsi scarsizzi.
Ai ricchi ricchezze, ai poveri povertà.

La nostra casa n`abbrazza e ni vasa.
La nostra casa ci abbraccia e ci bacia, ossia ci accoglie calorosamente.

`Addu o senza `addu Diu fa jornu e senza lu to crivu spagghiu e cernu.
Con il gallo o senza il gallo Dio fa sorgere ugualmente il sole ed io senza il tuo setaccio ugualmente pulisco il grano e lo seleziono.

`Unn`è sempri chi ghioca e riri la muggheri di lu latru.
Non sempre alla moglie del ladro le cose vanno bene per cui gioca e ride.

Lu bonu no vali cchiù di lu tintu sì.
Il no detto con grazia vale più del sì detto sgarbatamente.

Du` su` i putenti, cu avi assà e cu nun avi nenti.
Due sono i potenti, chi ha tanto e chi non ha niente.

Chiddu chi fa p`i me denti nun fa p`i me parenti.
Ciò che è utile per me non lo è per gli altri.

Aceddru `nta la aggia `un canta p`amuri, ma pi raggia.
Uccello in gabbia non canta per amore, ma per rabbia.

Ama a cu t`ama si vo` aviri spassu, chi amari a cu nun t`ama e` tempu persu.
Ama chi ti ama se vuoi trarne piacere, perche` amare chi non ti ama e` tempo perso.   Li guai di la pignata li sapi la cucchiara chi li rimina. I guai della pentola li conosce solo il cucchiaio che li mescola.

Quannu lu diavulu t`alliscia voli l`arma.
Quando il diavolo ti adula vuole l`anima.   Spenni picca e arricchirai, parla picca e `nzirtirai, mancia picca e campirai. Spendi poco e diventerai ricco, parla poco e sarà la scelta migliore,mangia poco e vivrai a lungo.

Megghiu `na vota arrussiari chi centu voti aggianniari.
Meglio arrossire una volta che farsi giallo di bile cento volte.

Soccu ora si schifia veni lu tempu chi si addisia.
Quello che adesso si disprezza un giorno sarà desiderato.

Siddru lu beni nun ritorna a mali nun si chiama beni.
Se il bene che facciamo non ci ritorna come male non si chiama bene.

Vali cchiu` un sceccu `ntirrugannu, ca un ancilu rispunnennu.
Vale di piu` un asino ad interrogare, che un angelo a rispondere.

Quannu la furtuna vota ogni amicu si fa la ritirata.
Quando la fortuna volta le spalle tutti gli amici si allontanano.

Quannu la lingua voli parrari, divi prima a lu cori dimannari.
Quando la lingua vuole parlare, deve prima chiedere al cuore.

Si pri paura di corvi `un si semina linusa, nun putissimu aviri la cammisa.
Se per paura dei corvi non si semina il lino, non potremmo avere la camicia

Cu strigghia lu so` cavaddru `un si chiama garzuni.
Chi striglia il proprio cavallo non si chiama garzone   Diu fa l`abbunnanzia e li ricchi la caristia.  Dio fa l'abbondanza e i ricchi la carestia
 
Acqua, cunsigghiu e sali a cu `unn`addumanna `un ci nni dari.
acqua, consiglio e sale non darne a chi non te ne chiede

Aspittari e nun viniri, jiri a tavula e nun manciari, jiri a lettu e nun durmiri
su` tri peni di muriri.
Aspettare qualcuno che non viene, andare a tavola e non mangiare, andare a letto e non dormire sono tre pene da morire.

Arvulu chi nun ciuri e nun fa frutti tagghialu di sutta a quattru botti.
Albero che non fa fiori né frutti taglialo alla base senza esitazione

Assai vali e pocu costa a malu parlari bona risposta.
Una buona risposta a cattive parole vale molto e costa poco
MODI DI DIRE
 
Di la `Mmaculata a Santa Lucia quantu `n passu di cucciuvia. Di Santa Lucia a Natali quantu `n passu di cani. Di Natali all`annu novu quantu `n passu d`omu.
Dall`Immacolata a Santa Lucia quanto un passo di allodola, da Santa Lucia a Natale quanto un passo di cane, da Natale all`anno nuovo quanto un passo d`uomo
(Per dare l`idea di quanto si allunghino le giornate in dicembre)

Lampi e trona, itivinni arrassu, chista é la casa di Sant`Ignaziu. Sant`Ignaziu e San Simuni, chista é la casa di nostru Signuri
Lampi e tuoni, allontanatevi, questa é la casa di Sant`Ignazio. Sant`Ignazio e San Simone, questa é la casa di nostro Signore.
(Formula per scongiurare il maltempo)

Ficu fatta, càrimi `mmucca
Fico maturo, cadimi in bocca.
(Si dice di chi vorrebbe evitare anche le fatiche minime.)

Essiri `na musca nta `n mmoscu
Essere una mosca in un bosco.
(Si dice di chi si trova in un ambiente molto vasto completamente solo.)

Cu lu tuppu `un t`appi, senza tuppu t`appi. Cu lu tuppu o senza tuppu,
basta chi t`appi e comu t`appi t`appi. Scioglilingua:
Con i capelli raccolti sulla nuca non ti ho avuta, senza capelli raccolti sulla nuca ti ho avuta. Con i capelli raccolti o senza capelli raccolti, basta che ti abbia avuta, comunque ti abbia avuta.
(Si racconta scherzosamente di un giovane, innamorato di una ragazza che portava i capelli raccolti sulla nuca. La madre della ragazza si oppose a quell`amore a la giovane per il dolore si tagliò i capelli. Allora la madre, pentita, acconsentì, per cui il giovane ebbe motivo di pronunziare le parole dette sopra)

Irisinni ursu tu e ursu jè.
Si dice di persone che si devono allontanare cautamente e ognuna per conto proprio, come se non si conoscessero.

Cu `n pettirrussu ficimu a Natali. A mia mi tuccà lu pizzu e l`ali, a mè cumpari l`ugna di li peri.
Con un pettirosso abbiamo fatto il pranzo di Natale. A me sono toccati il becco e le ali, a mio compare le unghie dei piedi.
(Si dice di pranzi o cene molto poveri.)

S'avissi pignateddu, ogghiu e sali mi facissi lu pani cottu, s`avissi lu pani.
Se avessi il pentolino, l`olio e il sale, mi farei il pane cotto, se avessi il pane.
(Si dice di chi vuole realizzare un progetto senza averne assolutamente i mezzi.)

Lu rialu di la soggira a la nora, rapi la cascia e pigghia `na fava.
Il regalo della suocera alla nuora, apre la cassa e prende una fava.

Santa lagnusia, `un m`abbannunati chi mancu speru abbannunari a vui.
Santa pigrizia, non abbandonatemi, ché anch'io spero di non abbandonare voi.
(La preghiera del pigro)

 
 
 

eruzione etna LIVE

Post n°619 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 
Tag: notizie

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come avevo promesso, certo non e gran che come immaggine ma con la digitale o zummato al massimo

 
 
 

l'etna si risveglia (lo so per certo visto che ce lo sotto gli occhi

Post n°618 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 
Tag: notizie

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etna in eruzione

da un paio di giorni l'etna  a ricominciato a eruttare  si sentono dei boati tremendi e stasera ce uno spettacolo in piu , le fiammate di fuoco spettacolari col buio della sera sono una cosa di veramente eccezzionale sembrano fuochi pirotecnici e si che siamo a una distanza stimata in 17-20 km  e la lingua di fuoco che a incominciato  a scorrere e visibile anche da questa distanza tra poco mettero delle foto (spero di riuscirle a fare )visto i scarsi mezzi tecnici di cui dispongo

23-10-2006      ore   20,52

 
 
 

proverbi  antichi di belpasso

Post n°617 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

 QUAL'E' A COSA CCHIU' ASCIUTTA ? ...... a sacchetta di cu joca. - E A COSA CCHIU' DURA ? ...... u cori di l'usuraiu. - E A COSA CCHIU' CAURA ? ...... a testa du tignusu. E A COSA CCHIU' FRIDDA ? ...... u culu da fimmina.

proverbi di Belpasso

 
 
 

teneri

Post n°616 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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la sirena curiosa

Post n°615 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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erotic

Post n°614 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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orchidea

Post n°613 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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buonanotte

Post n°612 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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ballo

Post n°611 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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pensieri

Post n°610 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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farfalle

Post n°609 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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non copiare

Post n°608 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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ahoooo me tengo in forma

Post n°607 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 
Tag: clip

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Bijox

Post n°606 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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da pulcino a...........

Post n°605 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da iono1
 

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