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I Signori dello Sport

Post n°11 pubblicato il 22 Giugno 2007 da sirmanuel
 

Ascari , Alberto


“Al contrario di tanti si sentiva sicuro quando faceva la lepre. Al comando della corsa il suo stile diventava superbo e la sua macchina insuperabile.” Enzo Ferrari, “Piloti, che gente…”

Alberto Ascari, l’unico pilota italiano, con Nino Farina, ad aggiudicarsi un Titolo Mondiale, era figlio d’arte. Suo padre, infatti, fu il grande asso del volante, nelle fila dello squadrone Alfa Romeo, Antonio Ascari, morto a Monthléry durante il GP di Francia del 1925, quando suo figlio Alberto aveva appena sette anni. L’esordio di Ascari nelle competizioni avviene nelle moto: la sua prima gara con le auto (nella Mille Miglia) è su una vettura di Ferrari, ma che portava il nome di Auto Avio Costruzioni 815. Dopo la guerra, torna da Ferrari, ma è trasformato. Il suo impeto istintivo si è mutato in stile affinatissimo, e il suo fisico è diventato più muscoloso (passerà infatti alla storia con il soprannome di “Ciccio”). Nel 1950, alla griglia di partenza del primo Mondiale di Formula 1, Ascari guida la vettura di Enzo Ferrari. È l’anno del super dominio Alfa Romeo, ma Ascari si distingue comunque con due secondi posti a Montecarlo e Monza. L’anno successivo, rotto con Gonzales il tabù della vittoria per la vettura di Maranello, Ascari sale per due volte sul gradino più alto del podio nei GP di Germania e d’Italia, ed è secondo nel Mondiale. Ma il suo nome è indissolubilmente legato a quello della Ferrari 500/F2, con cui vinse il doppio mondiale nel 1952-53. Nel ’52 Alberto Ascari fa la parte del leone: vince sei Gran Premi su otto (avendo saltato il GP di Svizzera, a Bremgarten, vinto da Farina, e finendo con un ritiro dopo 41 giri per rottura della sospensione la 500 Miglia di Indianapolis dopo essersi qualificato 25° su 33 partenti), con 5 pole e 5 giri più veloci, e si aggiudica il primo titolo Mondiale per la casa modenese. Ascari si imporrà anche nelle gare non valide per il campionato di Pau, Marsiglia e La Baule, 3 settimane dopo la conquista del mondiale: 9 vittorie stagionali, le cifre di un dominio incontrastato. L’anno successivo il copione è il medesimo: Ascari si aggiudica cinque Gran Premi su otto, è 4° in Francia, 8° in Germania e vince così il secondo titolo iridato. Nel GP di Monza, il primo brivido: ha un brutto incidente alla curva del porfido (l’attuale parabolica), ma ne esce illeso. La sua affermazione è totale: 11 GP vinti su un totale di 14 nei due anni. Dopo un anno incolore, nel ’54 passa alla debuttante Lancia. Purtroppo, però, Ascari, dopo essere uscito incolume da un pauroso volo in mare a Montecarlo, muore in un incidente nella curva del circuito di Monza che da allora porta il suo nome durante le prove del 26 maggio, quando stava percorrendo pochi giri con la Ferrari sport del suo amico Eugenio Castellotti. L’Italia motoristica perde così il suo più grande esponente della propria scuola, capace di vincere 13 gare su 32 disputate e 2 titoli mondiali.

Fabrizio Corgnati (fcorgnati@inwind.it)
per F1grandprix.it

 
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Tommaso Maestrelli è stato, senza discussioni, il miglior allenatore della generazione che ha avuto la piena maturità all'inizio degli anni '70.
Signorile nei modi, profondamente umano nei rapporti con i calciatori, intelligente, rispettoso del diritto d'informazione, Maestrelli rappresenta una figura unica nel panorama calcistico nazionale dei primi anni '70.
Il suo stile nel rapporto con la squadra richiama Scopigno, ma non ha i suoi eccessi, nè il suo umorismo. Tatticamente il suo gioco richiama il "calcio totale" dell'Olanda, ma sarà fra i pochi a non dichiararlo apertamente, in un momento in cui "...olandese è bello". I ricordi di chi l'ha conosciuto ci dipingono un uomo profondamente legato alla famiglia, una famiglia "allargata" alla squadra.
Per Chinaglia è una specie di padre putativo che gli offre ospitalità, che lo capisce, lo incoraggia, lo doma.
La sua gestione delle tensioni in seno ad una squadra complessa e "cattiva", il suo riuscire ad incanalarle verso uno sbocco positivo individuato nel rettangolo di gioco e nella partita, restano un esempio insuperato di psicologia applicata allo sport, in un epoca in cui "vincente" non era un'etichetta spesa con facilità.

 

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