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Per un Movimento ecologico

Post n°17 pubblicato il 09 Maggio 2006 da dylandog

La questione ambientale ha assunto una centralità sempre maggiore nella sensibilità collettiva e nell’agenda politica nazionale e internazionale.

La questione ambientale non può più essere ridotta a una nicchia ecologica né a un mero problema di tutela della natura.
Essa comporta, invece, la promozione di uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile: e, dunque, un’economia ecoefficiente, un mercato adeguatamente regolato, un lavoro più consapevole e qualificato in una società più libera e più giusta.

L’ambientalismo – la critica, il movimento, il programma, la cultura – è riuscito, nell’arco di poco più di trent’anni, a passare dalla denuncia di “Primavere silenziose” al percorso Rio de Janeiro–Kyoto; un percorso che segna incontrovertibilmente - e a partire dall’effetto serra, dal buco dell’ozono, dalla desertificazione, dalla riduzione della diversità biologica - il delinearsi di un conflitto che coinvolge centinaia di governi in tutto il mondo. Sono stati messi in discussione il modo di produrre e di consumare, le forme dell’innovazione tecnologica e i possibili salti di fase nei processi produttivi ed economico-sociali per i grandi paesi in via di sviluppo; e l’impatto delle attività industriali dei paesi avanzati e i loro “egoismi” impongono il tema della sostenibilità dello sviluppo come riferimento ineludibile e formalmente da tutti accettato.


Il “pensare globalmente” è stato l’anticipazione di quella globalizzazione che oggi le grandi potenze vorrebbero imporre come pensiero “unico” e meccanismo di riduzione del cittadino a consumatore. Contro tutto questo, il pensiero “globale” ambientalista ha proposto tre fondamentali strumenti di analisi e di critica: la valorizzazione delle risorse locali; l’incremento della produttività delle risorse contrapposta all’imperativo dell’aumento della produttività del lavoro; il vincolo ambientale come consapevolezza dei limiti fisici e sociali dello sviluppo.

Più in generale, l’idea di ecosostenibilità si è dimostrata una base solidissima per fare fronte alle perversioni della globalizzazione, ottenendo alcuni significativi successi. Fino a informare le agende dei vari G8 e una componente rilevante del movimento di contestazione; movimento che, da Seattle in poi, ha attivato, in modo prima impensabile, la sensibilità dell’opinione pubblica e l’azione politica, animando il desiderio di partecipazione di una parte significativa delle giovani generazioni.
Ma, nonostante tutto questo, la crisi ambientale globale, a dieci anni da Rio de Janeiro, sta precipitando verso un punto di non ritorno, proprio perché le decisioni e le politiche radicali che andrebbero perseguite, vengono eluse o rinviate. Questa condizione di stallo contribuisce a intrecciare la crisi ambientale a quella sociale e politica, i cui elementi dominanti sono l’acuirsi del divario tra i più ricchi e i più poveri e la crescente concentrazione del potere politico e militare, oltre che economico e finanziario.
Ed è proprio la percezione del combinarsi perverso di queste crisi e dello stato di incertezza e, talvolta, di angoscia, determinato dall’uso non controllato dell’innovazione scientifica e tecnologica, che sta alla base del diffondersi e del radicalizzarsi del movimento di contestazione detto no global: in un contesto mondiale dove le masse di emarginati e di esclusi aumentano di pari passo con le carestie e con le epidemie.

Con il massacro dell’11 settembre, cambia lo scenario globale e cambiano i parametri di analisi e di azione pubblica di tutte le culture politiche; e si indeboliscono ulteriormente i riferimenti del pacifismo tradizionale, che già non avevano retto a fronte delle vicende dell’ex-Jugoslavia: e gli stessi fondamenti dell’ecopacifismo esigono di essere ripensati in profondità. C’è, insomma, l’esigenza di una nuova riflessione e di una nuova strategia per rendere l’ambientalismo in grado di affrontare il nuovo contesto nazionale e internazionale. Un primo impegno – più immediato e più circoscritto – è quello di contribuire a che il movimento detto no global sia capace di parlare efficacemente all’opinione pubblica e di comunicare la propria originale elaborazione, superando reviviscenza di vecchi riti e vecchi esorcismi anticapitalistici, la tentazione compulsiva di tradurre ogni rivendicazione e ogni contestazione nella forma del corteo, l’indulgenza verso la retorica bellica delle parole e dei gesti, prima ancora che delle azioni. Il cambiamento dello scenario globale e la sua complessità, tuttavia, non possono costituire un alibi per il disimpegno rispetto ai compiti “locali”: da una parte, per realizzare in Italia una politica e una società

 
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