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Della felicità

Post n°399 pubblicato il 27 Aprile 2011 da nagel_a


"Si dice che di tanta felicità si può anche morire, ma si può altresì uccidere, uccidere ogni pretesa degli altri su di noi, di coloro che non sono riusciti a regalarcela."
(Nadine Gordimer, Storia di mio figlio)

C'è una vetta nella selva che percorriamo. Una vetta che sovrasta ogni albero e ogni passo. Allarga la sua ombra, un'ombra che si allunga e si accorcia, si propaga e si ritira, seguendo il corso delle circostanze e degli interessi. Pur nelle sue mutevolezze, si ripropone a ogni sguardo, che sia franco o sbieco, spada di Damocle allungata nell'orbita delle stelle.
Questa vetta è chiamata con molti nomi, che di volta in volta ne indicano la tetra tragica materia oppure la leggiadria dei pendii. Non so come capiti, ma nel trascorrere dei giorni, sappiamo, da qualche intima pulsione, che la nostra felicità sta in cima ad essa e che il nostro scopo è scalare i suoi dirupi e osservare la selva dall'alto.

La nostra fiducia, poichè l'illusione sovente s'intreccia al desiderio e all'immaginazione, indugia inoltre nell'attesa di una figura dai contorni spesso indistinti.
Una guida che conosca i valichi e i passi, che ci indichi la natura delle piante e delle pietre, che ci mostri il volo della farfalla e la planata del falco.
Spesso quest'attesa si spegne nelle delusioni dei giorni, si dimentica nella frenesia del quotidiano, per palpitare nuovamente al crepuscolo, quando la luce del giorno cede alla sera e precorre il buio della notte. Allora si dispiega e lascia annegare lo sguardo nelle profondità dell'orizzonte.

La serenità alberga fin nei primi passi della scalata.

 

 
 
 
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IL REGNO DEL SENSO PROFONDO

"Oltre alla realtà empirica e banale c'era l'ambito dell'immaginazione, costituito da quello stesso mondo percepibile grazie alla vista, al tatto e all'odorato, ma con in più le schiere infinite degli spiriti e delle ombre. [...] Allora non mi capacitavo del fatto che la maggioranza assoluta dell'umanità appartiene al regno del senso profondo non in virtù del proprio sapere - dono assai raro -  bensì della vita, della raggiante, viva sostanza, e che, dunque, accusarli di ignoranza era sciocco e assurdo. Invece di interrogatori, inquisizioni e tormenti, avrei dovuto osservarli e comprenderli. Osservarli con tenerezza e comprenderli con intelligenza"
A. Zagajewski - Due città

 

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