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Della solitudine

Post n°369 pubblicato il 17 Gennaio 2011 da nagel_a


Talvolta lo spazio si popola fantasticamente. Si dispongono allineate come soldatini o in vortici di chimera, le figure su cui l'immaginazione, stimolata dalla solitudine, imbastisce il suo teatrino. La grandiosità dell'opera e la varietà dei personaggi, sono in stretta relazione e diretta proporzione con la percezione del vuoto.
Vuoto e solitudine sono i cardini imperiosi su cui ruota l'immane giostra dell'immaginazione.

Vi sono uomini che per casi accidentali della vita, non si trovano mai nella situazione di doverne saggiare la docilità all'attrito. Costoro non conoscono il vuoto e non sperimentano la solitudine. Non hanno necessità di animare la tappezzeria di una parete nè di dover rinunciare, in un passaggio cruciale, alle lusinghe di una storia narrata insidiosamente da pagine che si spalancano sull'ignoto. Non sanno dell'aria che preme alla gola, chiedendo tributi in sospiri e fremiti. Non sono stati soggiogati dai suoi poteri miasmatici nel configurare incubi e fantasmi. Non ne hanno assaporato le mollezze oziose delle ore senza scopo. Costoro contemplano la solitudine come semplice, temporanea mancanza di compagnia.

Poi vi sono quelli che della solitudine si cibano costantemente, come un'ancora che permetta riposo dalle battaglie tra i marosi o un rifugio in cui ritemprare le energie disperse tra la folla e gli accidenti del giorno. Costoro la inseguono per circondarsene come un abbraccio, una condizione dello spirito privilegiata e preziosa, sempre pronta a dischiudere i suoi tesori per gli eletti che la servono.

Vi è infine una terza schiera. Quella che contempla la massa inquieta dei malati di solitudine. Quelli che popolano il vuoto di voci e figure, frutto esaltato della loro fantasia, pur di coprire la voce fragorosa del silenzio, le sue spire di piombo.
Sono quelli dall'ingorda bramosia per la quiete della solitudine, di cui bulimicamente si abbuffano, per poi retrocedere terrorizzati e vinti in compagnia di se stessi.
Coloro la cui affinità con la stanza vuota è dettata da un umore vago e variabile, influenzato dal battito d'ali di una farfalla nell'angolo opposto del mondo e dallo scarafaggio calpestato nel corridoio di una pensione che impiega ore a morire.
Per queste persone la solitudine è un'arma bianca. Talvolta hanno la fortuna di porre la mano sull'elsa e allora ne brandiscono l'acciaio fulgente come un bisturi che invochi il parto di una qualche creazione. Altre volte stringono inavvertitamente le dita sulla lama e cadono, ripiegati e dolenti, per quella imperizia sbadata che ha disilluso la convinzione di essere provetti schermidori.
Sono casi buffi per gli dei che assistono dal bordo dell'arena e irridono teneramente queste mosche, che quando sono in compagnia desiderano la solitudine, ma, una volta ottenutala, non sanno stare sole.

 

 
 
 
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"Oltre alla realtà empirica e banale c'era l'ambito dell'immaginazione, costituito da quello stesso mondo percepibile grazie alla vista, al tatto e all'odorato, ma con in più le schiere infinite degli spiriti e delle ombre. [...] Allora non mi capacitavo del fatto che la maggioranza assoluta dell'umanità appartiene al regno del senso profondo non in virtù del proprio sapere - dono assai raro -  bensì della vita, della raggiante, viva sostanza, e che, dunque, accusarli di ignoranza era sciocco e assurdo. Invece di interrogatori, inquisizioni e tormenti, avrei dovuto osservarli e comprenderli. Osservarli con tenerezza e comprenderli con intelligenza"
A. Zagajewski - Due città

 

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