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C’era una volta... la scuola di montagna

Post n°18 pubblicato il 29 Dicembre 2006 da eleperci
 

Viaggio nella memoria delle valli piemontesi

Grembiuli, penne, pallottolieri e calamai nelle sperdute frazioni alpine
Storie (poetiche) di bimbi e maestre di un mondo piccolo e  ormai perduto

di ELENA PERCIVALDI
«Oh, la mia maestra!». Quante volte le insegnanti elementari di ieri si sono sentite salutare con questa esclamazione di gioia, di affetto e di rimpianto incontrando i loro scolari di un tempo ormai padri e nonni. E in quel frangente si sono ritrovate per un attimo in quel loro mondo così lontano. E così diverso da quello di oggi, soprattutto se banchi e aule scolastiche si trovavano nel piccolo mondo    dei paesi di montagna.   Agglomerati di poche case oggi disabitati, nei quali signorine e giovanotti di belle speranze di quaranta, cinquanta e più anni fa si sono trovati a trascorrere il periodo più verde della loro vita, spesso  in condizioni di vita disagevoli, sotto nevicate che oggi non ci immaginiamo neanche.

RICORDO DELLE NEVI D’UN TEMPO

 «Passeranno gli anni, le vicende muteranno, nomi e volti sfumeranno, ma insegnante e allievi saranno per sempre, anche se inconsapevolmente, l’uno nella vita dell’altro».  Lo sa perfettamente Benito Mazzi, straordinaria memoria storica delle genti alpine, che continua imperterrito da tanto tempo nel suo benemerito lavoro di raccolta delle testimonianze che trova nelle sue valli del Nord Piemonte. Una volta raccolte, le pubblica poi nella serie “Quaderni di Civiltà e Cultura Piemontese” per i tipi della Priuli & Verlucca Editori: una casa editrice tra le poche a distinguersi davvero, nel panorama editoriale italiano, per la cura e la passione con cui si dà da fare per tutelare le nostre radici  e divulgarne la conoscenza presso il pubblico più ampio.
“Sotto la neve fuori dal mondo. C’era una volta la scuola di montagna”  (pp. 144, e   18.50)  è la  raccolta delle  testimonianze di uomini e donne che vissero gli anni del secondo Dopoguerra (1945-1960). A parlare sono maestre e maestri di montagna che si trovarono ad operare in pluriclassi terribilmente popolate o in altre quasi vuote, spesso tenute in vita nelle località più sperdute dagli scarsi fondi comunali o addirittura da privati cittadini, spinti all’encomiabile quanto ingente sacrificio dal ricordo di un congiunto o di un amico caduto in guerra, oltre che dall’amore per la propria terra. Sono loro a descrivere quei giorni lontani, quelle esperienze fra gente povera di mezzi ma ricca di valori.
Racconti, ricordi, aneddoti spesso divertenti, sempre capaci di accompagnare il lettore in un mondo, in luoghi, in compagnie scomparse.  Sono pagine calde di affetti, di passione e dedizione, che ci riportano a dimensioni dimenticate del vivere quotidiano, a tempi in cui il rispetto delle istituzioni, degli anziani, dei sacri principi era regola irrinunciabile per l’intera comunità e la maestra una guida, un simbolo, un ricordo da conservare caro.

TRA MARACHELLE, PENNE E CALAMAI

E allora, sfogliando le dense pagine di questo volume, si incontrano storie di partigiani e di assassini, biciclette e slitte da neve,  quando la neve, in montagna, era una cosa seria e a scuola si andava con gli sci. Rivivono alunni più e meno giovani con le loro storie, i primi amori, le marachelle, i rimproveri, le punizioni corporali, soprattutto quando si arrivava in classe - erano gli anni del Fascio - senza essersi lavati la faccia. E se la maestra è  stata un po’ la  seconda mamma per tanti bambini, a insegnare a volte venivano chiamati non solo i preti, ma anche  - come a Malesco, tra il 1840 e il 1846 - i falegnami.
Certo, è bello vagheggiare il passato, ma è bene dire che non sempre erano rose e fiori.  Gli inverni in montagna un tempo erano molto più rigidi e i  riscaldamenti praticamente non esistevano, per cui  le lezioni si svolgevano tra un continuo  battere di denti. L’alimentazione, poi, era sovente inadeguata, e non era raro che gli alunni di ogni età fossero colpiti da geloni, pellagra, anemia, svenimenti e malori di ogni genere. La fame era sempre in agguato, la carne la si mangiava una volta all’anno o quasi, per il resto i bimbi andavano a letto «con una michetta e una mela e condimento di botte». Ecco che allora l’ultima risorsa, nei momenti di magra,  era il contrabbando con la Svizzera, praticato dagli spalloni, in dialetto locale sfrosìni. E a volte, come nel caso di Antonietta Del Pedro, a dare una cospicua mano erano proprio le maestre, che portavano oltre confine stoffa, corame, copertoni di biciclette in cambio di zucchero, caffè e sigarette. 

LA MAESTRINA “ALLEGRA”

Troviamo, spulciando tra i ricordi, figure particolari eppure universali come il Cartavelina, maestro magrissimo e instabile sulle gambe,  pronto a volar via a ogni alito di vento, o la maestrina un po’ troppo... allegra, colta in flagrante nel fieno di una cascina con un aitante brigadiere della Finanza:  come per la nota Bocca di Rosa di Fabrizio De Andrè, tre bellezze un po’ sfiorite e molto invidiose  si fiondarono a scrivere una lettera al Provveditorato agli Studi chiedendo l’immediata sostituzione della «svergognata insegnante». Ma la giovane maestrina, intelligente  sopra la media e per questo sognata dai giovanotti dell’intero paese, fu salvata in extremis proprio da uno  dei mariti delle suddette “bellezze d’un tempo”, evidentemente anch’egli non certo insensibile al suo fascino: intercettata la lettera, la buttò nel camino e  morta lì.

IMMAGINI DAL PASSATO

Grembiulini neri, fiocchi tra i capelli, colletti bianchi. Calamai, lavagne, banchi di legno, pallottolieri, carte d’Italia e cattedre svettanti sulla famosa e ormai scomparsa pedana. Tutto questo par di vedere saltare fuori dalle pagine veramente ben  scritte di Mazza, che si leggono come e meglio di un romanzo.
A dire il vero, bambini e maestre, addirittura  intere classi si materializzano nel vero senso della parola grazie al bell’inserto fotografico che si trova al centro del volume. Volti e divise nei quali molti, anche se non hanno vissuto in queste  valli piemontesi, potranno facilmente riconoscersi, visto che sono stati simili in ogni parte d’Italia.  E se è vero che  «chi insegna non solo trasmette il suo sapere, ma anche profonde nell’atto parte di se stesso, parte della propria vita, della propria anima», come leggiamo nella testimonianza che conclude il libro, lo stesso si può dire di chi raccoglie pazientemente e divulga le memorie del nostro passato. Grazie a Benito Mazzi,  questo straordinario patrimonio ormai dimenticato, per fortuna  non andrà più del tutto perduto.

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